Presentiamo ai nostri lettori quest’articolo, scritto il 25 giugno 2024, dal notissimo storico israeliano Ilan Pappé, che esamina la prospettiva storica del sionismo sulla base di alcuni indicatori di tendenza.
Buona lettura.
La redazione
Il crollo del sionismo
Ilan Pappé [*]
Israele sempre più isolato a livello internazionale mentre diventa gradualmente uno Stato paria
L’assalto di Hamas del 7 ottobre può essere paragonato a un terremoto che colpisce un vecchio edificio. Le crepe stavano già iniziando a mostrarsi, ma ora sono visibili nelle sue stesse fondamenta. A più di 120 anni dal suo inizio, il progetto sionista in Palestina, l’idea di imporre uno Stato ebraico a un Paese arabo, musulmano e mediorientale, potrebbe trovarsi di fronte alla prospettiva del crollo? Storicamente, una pletora di fattori può causare il crollo di uno Stato. Può derivare da attacchi costanti da parte dei Paesi vicini o da una guerra civile cronica. Può seguire il crollo delle istituzioni pubbliche, che diventano incapaci di fornire servizi ai cittadini. Spesso inizia come un lento processo di disintegrazione che prende slancio e poi, in un breve lasso di tempo, fa crollare strutture che un tempo sembravano solide e salde.
La difficoltà sta nell’individuare i primi segnali. In questo caso, sostengo che sono più evidenti che mai nel caso di Israele. Stiamo assistendo a un processo storico, o più precisamente agli inizi di un processo, che potrebbe culminare nella caduta del sionismo. E, se la mia diagnosi è corretta, stiamo anche entrando in una congiuntura particolarmente pericolosa.
Quando Israele si renderà conto dell’entità della crisi, scatenerà una forza feroce e senza freni per cercare di contenerla, come fece il regime dell’apartheid sudafricano durante i suoi ultimi giorni.
1.
Un primo indicatore sta nella frattura della società ebraica israeliana. Attualmente essa è composta da due fazioni rivali che non riescono a trovare un terreno comune. La spaccatura deriva dalle anomalie nel definire l’ebraismo come nazionalismo. Mentre l’identità ebraica in Israele a volte è sembrata poco più che un argomento di dibattito teorico tra fazioni religiose e laiche, ora è diventata una lotta sul carattere della sfera pubblica e dello Stato stesso. Questa lotta si combatte non solo sui media ma anche nelle strade.
Un campo può essere definito lo “Stato di Israele”. Comprende ebrei europei più laici, liberali e per lo più, ma non esclusivamente, della classe media, e i loro discendenti, che sono stati determinanti nella fondazione dello Stato nel 1948 e sono rimasti egemoni al suo interno fino alla fine del secolo scorso. Non fraintendete, la loro difesa dei “valori democratici liberali” non influisce sul loro impegno nei confronti del sistema di apartheid che viene imposto, in vari modi, a tutti i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il loro desiderio fondamentale è che i cittadini ebrei vivano in una società democratica e pluralista da cui gli arabi sono esclusi.
L’altro campo è lo “Stato di Giudea”, che si è sviluppato tra i coloni della Cisgiordania occupata. Gode di un crescente sostegno all’interno del Paese e costituisce la base elettorale che ha assicurato la vittoria di Netanyahu alle elezioni del novembre 2022. La sua influenza nei vertici dell’esercito israeliano e dei servizi di sicurezza sta crescendo in modo esponenziale. Lo Stato di Giudea vuole che Israele diventi una teocrazia che si estenda su tutta la Palestina storica. Per raggiungere questo obiettivo, è determinato a ridurre il numero di palestinesi al minimo indispensabile e sta prendendo in considerazione la costruzione di un Terzo Tempio al posto della moschea di al‑Aqsa. I suoi membri credono che questo permetterà loro di rinnovare l’epoca d’oro dei regni biblici. Per loro, gli ebrei laici sono eretici quanto i palestinesi se si rifiutano di unirsi a questo sforzo.
I due schieramenti avevano iniziato a scontrarsi violentemente già prima del 7 ottobre. Nelle prime settimane dopo l’assalto, sembrava che avessero messo da parte le loro divergenze di fronte a un nemico comune. Ma era un’illusione. Gli scontri di piazza sono ripresi ed è difficile capire cosa potrebbe portare alla riconciliazione. Il risultato più probabile si sta già manifestando davanti ai nostri occhi. Più di mezzo milione di israeliani, in rappresentanza dello Stato di Israele, ha lasciato il paese da ottobre, un’indicazione che il Paese è stato inghiottito dallo Stato di Giudea. Questo è un progetto politico che il mondo arabo, e forse anche il mondo in generale, non tollererà a lungo termine.
2.
Il secondo indicatore è la crisi economica di Israele. La classe politica non sembra avere alcun piano per riequilibrare le finanze pubbliche nel mezzo di conflitti armati perpetui, se non quello di dipendere sempre più dagli aiuti finanziari americani. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, l’economia è crollata di quasi il 20%; da allora, la ripresa è stata fragile. L’impegno di Washington di 14 miliardi di dollari difficilmente invertirà la situazione. Al contrario, il peso economico non farà che peggiorare se Israele porterà avanti la sua intenzione di entrare in guerra con Hezbollah, aumentando al contempo l’attività militare in Cisgiordania, in un momento in cui alcuni paesi, fra cui Turchia e Colombia, hanno iniziato ad applicare sanzioni economiche.
La crisi è ulteriormente aggravata dall’incompetenza del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che convoglia costantemente denaro agli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma sembra altrimenti incapace di gestire il suo dipartimento. Il conflitto tra lo Stato di Israele e lo Stato di Giudea, insieme agli eventi del 7 ottobre, sta nel frattempo spingendo alcune delle élite economiche e finanziarie a spostare il proprio capitale al di fuori dello Stato. Coloro che stanno prendendo in considerazione la possibilità di trasferire i propri investimenti costituiscono una parte significativa del 20% di israeliani che paga l’80% delle tasse.
3.
Il terzo indicatore è il crescente isolamento internazionale di Israele, che sta gradualmente diventando uno Stato paria. Questo processo è iniziato prima del 7 ottobre, ma si è intensificato dall’inizio del genocidio. Ciò si riflette nelle posizioni senza precedenti adottate dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale. In precedenza, il movimento globale di solidarietà con la Palestina era riuscito a mobilitare le persone a partecipare alle iniziative di boicottaggio, ma non era riuscito a far avanzare la prospettiva di sanzioni internazionali. Nella maggior parte dei Paesi, il sostegno a Israele è rimasto incrollabile in seno all’establishment politico ed economico.
In questo contesto, le recenti decisioni della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale – secondo cui Israele starebbe commettendo un genocidio, dovrebbe fermare la sua offensiva a Rafah e i suoi leader dovrebbero essere arrestati per crimini di guerra – devono essere viste come un tentativo di tener conto delle opinioni della società civile globale, piuttosto che come un semplice riflesso dell’opinione dell’élite. I tribunali non hanno placato i brutali attacchi contro la popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Ma hanno contribuito al crescente coro di critiche rivolte allo Stato israeliano, che provengono sempre più spesso sia dall’alto che dal basso.
4.
Il quarto indicatore, interconnesso agli altri, è il cambiamento radicale tra i giovani ebrei di tutto il mondo. In seguito agli eventi degli ultimi nove mesi, molti sembrano ora disposti a rinunciare al loro legame con Israele e col sionismo e a partecipare attivamente al movimento di solidarietà palestinese. Le comunità ebraiche, soprattutto negli Stati Uniti, un tempo fornivano a Israele un’efficace immunità dalle critiche. La perdita, o almeno la parziale perdita, di questo sostegno ha importanti implicazioni per la posizione globale del Paese. L’AIPAC può ancora contare sui sionisti cristiani per fornire assistenza e rafforzare i suoi membri, ma non sarà più la stessa formidabile organizzazione senza un significativo elettorato ebraico. Il potere della lobby si sta erodendo.
5.
Il quinto indicatore è la debolezza dell’esercito israeliano. Non c’è dubbio che le IDF rimangano una forza potente con armi all’avanguardia a sua disposizione. Tuttavia, i suoi limiti sono stati messi in luce il 7 ottobre. Molti israeliani ritengono che i militari siano stati estremamente fortunati, poiché la situazione avrebbe potuto essere molto peggiore se Hezbollah si fosse unito a un attacco coordinato. Da allora, Israele ha dimostrato di dipendere disperatamente da una coalizione regionale, guidata dagli Stati Uniti, per difendersi dall’Iran, il cui attacco di avvertimento in aprile ha visto il dispiegamento di circa 170 droni più missili balistici e guidati. Più che mai, il progetto sionista dipende dalla rapida consegna di enormi quantità di rifornimenti da parte degli americani, senza i quali non potrebbe nemmeno combattere contro un piccolo esercito di guerriglia nel sud.
Tra la popolazione ebraica del Paese è ormai diffusa la percezione che Israele non sia preparato e non sia in grado di difendersi. Ciò ha portato a forti pressioni per rimuovere l’esenzione militare per gli ebrei ultraortodossi, in vigore dal 1948, e iniziare a reclutarli a migliaia. Questo difficilmente farà molta differenza sul campo di battaglia, ma riflette la portata del pessimismo nei confronti dell’esercito, che a sua volta ha approfondito le divisioni politiche all’interno di Israele.
6.
L’indicatore finale è il nuovo slancio tra la generazione più giovane dei palestinesi. Essa è molto più unita, organicamente connessa e chiara sulle sue prospettive rispetto all’élite politica palestinese. Dato che la popolazione di Gaza e della Cisgiordania è tra le più giovani al mondo, questa nuova coorte avrà un’influenza immensa sul futuro della lotta di liberazione. Le discussioni in corso tra i giovani gruppi palestinesi mostrano che sono preoccupati di stabilire un’organizzazione veramente democratica, che sia un’OLP rinnovata o una nuova, che persegua una visione di emancipazione che sia antitetica alla campagna dell’Autorità Palestinese per il riconoscimento come Stato. Sembrano preferire una soluzione a un solo Stato rispetto a un modello a due Stati ormai screditato.
Saranno in grado di organizzare una risposta efficace al declino del sionismo? È una domanda a cui è difficile rispondere. Il crollo di un progetto statale non è sempre seguito da un’alternativa migliore. Altrove in Medio Oriente, in Siria, Yemen e Libia, abbiamo visto quanto possano essere sanguinosi e prolungati i risultati. In questo caso, si tratterebbe di decolonizzazione e il secolo scorso ha dimostrato che le realtà post-coloniali non sempre migliorano la condizione coloniale. Solo l’azione dei palestinesi può portarci nella giusta direzione. Credo che, prima o poi, una fusione esplosiva di questi indicatori porterà alla distruzione del progetto sionista in Palestina. Quando ciò accadrà, dobbiamo sperare che un forte movimento di liberazione sia lì a colmare il vuoto.
Per più di 56 anni, quello che è stato definito il “processo di pace” – un processo che non ha portato a nulla – è stato in realtà una serie di iniziative israelo‑americane alle quali i palestinesi sono stati invitati a dar seguito. Oggi, la “pace” deve essere sostituita dalla decolonizzazione, e i palestinesi devono essere in grado di esprimere la loro visione per la regione, invitando gli israeliani a reagire. Questo segnerà la prima volta, almeno da molti decenni, che il movimento palestinese prenderà l’iniziativa nel presentare le sue proposte per una Palestina post-coloniale e non sionista (o comunque si chiamerà la nuova entità). Nel farlo, probabilmente guarderà all’Europa (forse ai cantoni svizzeri e al modello belga) o, più opportunamente, alle vecchie strutture del Mediterraneo orientale, dove gruppi religiosi secolarizzati si sono gradualmente trasformati in gruppi etnoculturali che convivevano nello stesso territorio.
Che la gente lo accetti o lo tema, il collasso di Israele è ormai prevedibile. Questa possibilità dovrebbe informare il dibattito a lungo termine sul futuro della regione. Sarà inserita nell’agenda non appena la gente si renderà conto che il tentativo secolare, guidato dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti, di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo sta lentamente volgendo al termine. Ha avuto abbastanza successo da creare una società di milioni di coloni, molti dei quali sono ormai di seconda e terza generazione. Ma la loro presenza dipende ancora, come quando sono arrivati, dalla loro capacità di imporre con la violenza la loro volontà a milioni di indigeni, che non hanno mai rinunciato alla loro lotta per l’autodeterminazione e la libertà nella loro patria. Nei decenni a venire, i coloni dovranno abbandonare questo approccio e dimostrare la loro volontà di vivere come cittadini uguali in una Palestina liberata e decolonizzata.
[*] Ilan Pappé è uno storico israeliano, attivista socialista, professore di storia presso la Facoltà di Scienze Sociali e Studi Internazionali dell’Università di Exeter e autore del best‑seller La pulizia etnica della Palestina (2006).
(Traduzione di Andrea Di Benedetto)