Bolivia. Ancora una volta: nessun golpe
Lo scontro fratricida fra Arce e Morales apre la strada all’opposizione reazionaria
Valerio Torre
Nelle prime ore del pomeriggio del 26 giugno scorso, alcune unità dell’esercito boliviano agli ordini del generale Juan José Zúñiga Macias hanno occupato Plaza Murillo di La Paz, dove si affaccia il palazzo presidenziale e sede del governo, Palacio Quemado. I militari, provenienti dal distretto di Challapata nella regione di Oruro, disponevano di sei veicoli blindati, uno dei quali ha sfondato il cancello d’ingresso. L’intento sarebbe stato quello di prendere il potere manu militari.
Accompagnato da alcuni soldati, Zúñiga è entrato nel palazzo dove ha avuto un faccia a faccia con il presidente Luís Arce che gli ha intimato di ritirare le truppe. Dopodiché, è uscito rinchiudendosi in uno dei blindati, mentre i ministri e i funzionari di governo si asserragliavano nelle stanze dell’esecutivo. Intanto, la polizia si dispiegava a difesa del palazzo e centinaia di manifestanti si riversavano nella piazza ripudiando a gran voce l’azione dei militari che nel frangente hanno utilizzato gas lacrimogeni contro i dimostranti.
A quel punto, Arce ha decretato la destituzione dell’intero Alto Comando militare nominando José Sánchez Velásquez come comandante dell’esercito, Gerardo Zabala Álvarez comandante dell’Aeronautica Militare e Renán Guardia Ramírez comandante della Marina. Una volta in carica, Sánchez ha ordinato ai soldati che avevano occupato Plaza Murillo di tornare nelle loro caserme.
Così, dopo quasi sei ore l’iniziativa si è conclusa con una decina di feriti fra la popolazione e l’arresto di Zúñiga e del vice ammiraglio Juan Arnez Salvador all’interno dei locali dello Stato Maggiore in un’operazione guidata dal vice ministro Jhonny Aguilera.
Era un golpe?
Si è dunque trattato di un tentativo di colpo di stato?
Per motivi diversi e contrapposti – e più avanti spiegheremo perché – sia il presidente Luís Arce che l’ex presidente Evo Morales lo hanno definito così, ma noi siamo di diverso avviso. È necessario, però, andare indietro nel tempo per comprendere bene le ragioni che hanno fatto da sfondo a quest’episodio: e precisamente al novembre del 2019, quando l’allora presidente della Bolivia, Evo Morales, principale dirigente del Mas, volle testardamente, pur di non perdere il potere, ripresentarsi ancora una volta alle elezioni benché avesse perso un referendum da lui stesso indetto contro il dettato costituzionale che vietava il terzo mandato. Forte della decisione di una Corte di giustizia addomesticata, che frattanto lo aveva riammesso, partecipò alla competizione vincendola con un esiguo scarto, ma sulla base di brogli elettorali che scatenarono proteste popolari, non solo dell’opposizione, ma anche dei settori popolari e operai un tempo a lui vicini che gli ritirarono la fiducia. Decise quindi di dimettersi ed esiliarsi in Argentina, ponendo così fine alla sua parabola politica che lo aveva proiettato all’apice dell’immaginario collettivo della “sinistra” mondiale quale fondatore di una presunta esperienza di “socialismo andino”. Abbiamo diffusamente raccontato la vicenda in quest’articolo, al quale rimandiamo i lettori.
Dopo le dimissioni di Evo Morales, del controverso vicepresidente Álvaro García Linera, della presidente del Senato Adriana Salvatierra, anche lei esponente del Mas, e del presidente della Camera, non restava nessun altro nella linea di successione che la vicepresidente del Senato Jeanine Áñez, esponente dell’opposizione di destra, la quale assunse infine l’incarico di Capo dello Stato per formare un governo provvisorio. E anche in quell’occasione si parlò di “colpo di stato”, ma del tutto impropriamente. Per quanto ci riguarda, smontammo completamente il giudizio impressionistico ed eclettico al riguardo, non solo nel testo appena segnalato, ma anche in quest’altro articolo, alla cui lettura pure rinviamo.
Alle elezioni del 2020, il candidato della destra di Jeanine Áñez, Carlos Mesa, fu nettamente battuto dal candidato del Mas, Luís Arce, un economista di taglio accademico formatosi nelle Università del Regno Unito, che era già stato ministro delle Finanze dei precedenti governi Morales.
Il fatto è che, a partire dalle dimissioni di Evo e dall’elezione di Arce, si è creata una netta linea di frattura all’interno del Mas, polarizzatasi intorno alle due personalità, che ha portato a una sostanziale spaccatura in due del partito e che ha condotto le due fazioni – quella “evista” e quella “arcista” – a celebrare addirittura due diversi congressi (anche in vista delle prossime elezioni che si celebreranno nella seconda metà del 2025), nessuno dei quali è stato riconosciuto come legittimo dalla contrapposta parte. Anzi, ognuno dei due “partiti” ha “espulso” il leader dell’altro nominando opposte direzioni politiche: con la paradossale conseguenza che il Tribunale Supremo Elettorale, che è preposto a legittimare ed ammettere le sigle dei partiti che dovranno concorrere alla competizione elettorale, al momento ha disconosciuto entrambe le fazioni come titolari del simbolo del Mas!
Uno scontro fra due visioni politiche
Insomma, Morales non vuole una ricandidatura di Arce alle prossime elezioni, e quest’ultimo, forte della sentenza n. 1010 del 29 dicembre 2023 del Tribunale Costituzionale che ha dichiarato “incandidabile” Evo, non vuole che questo si ripresenti. È una lotta senza quartiere che si sta svolgendo non solo attraverso ricorsi giudiziari e vicendevoli espulsioni, ma anche ricorrendo a mezzi violenti, come provano le numerose scazzottate che si sono verificate in ogni occasione di riunioni congiunte, persino nelle aule parlamentari.
Ma sia chiaro: non si tratta, come pure alcuni sostengono, di uno scontro fra due individualità fondato su basi puramente personali. Benché Morales abbia definito l’avversario “il mio peggior nemico”, apostrofandolo con l’epiteto di “traditore” per avere “adottato politiche di destra” (mentre se c’è uno che non può toccare quest’argomento è proprio lui, che ha flirtato con la peggiore destra reazionaria e razzista della regione della Media Luna, come abbiamo sostenuto nel primo dei due articoli richiamati), Arce dal canto suo ha attaccato l’altro come “il principale oppositore del mio governo”[1] e come “mentitore” per essere venuto meno alla parola di non toccare più il tema delle elezioni vista l’incandidabilità decretata dal Tribunale Costituzionale.
Il fatto è che la candidatura di Arce nel 2020 fu una sorta di ripiego da parte del Mas – non potendo ripresentare un Evo ormai “bruciato” – per venir fuori dell’impasse del governo provvisorio di Jeanine Áñez e vincere le elezioni riprendendo il governo del Paese: in quanto privo del carisma del suo predecessore, Luís Arce è stato proposto alla presidenza come una figura “accettabile”, un tecnocrate di formazione accademica considerato in qualche modo “manovrabile” dall’establishment “evista” perché privo di sostegno sociale. E invece, Arce ha preso sul serio il suo ruolo, non facendo concessioni alla fazione di Morales e ridimensionando sempre più quest’ultimo all’interno del partito, nel quale è progressivamente cresciuta una cordata che non ne tollera più l’ingombrante presenza da caudillo.
Non si tratta dunque uno scontro “personale”, ma di un conflitto fra due diverse visioni politiche dello Stato: fra il regime nazionalista borghese incarnato da Evo e quello democratico‑borghese “all’occidentale” di Arce.
È in seno a questa linea di frattura che si insinuano e si infiltrano le manovre dell’opposizione (due leader della quale sono attualmente in carcere) per cercare di riprendersi il governo del Paese attraverso un’affermazione alle prossime elezioni presidenziali.
In questo senso, l’occasione fornita dalla spaccatura a metà del Mas è ghiotta; e soffiare sul fuoco di così aspre divisioni può tornare utile l’anno prossimo.
La crisi sullo sfondo
A partire dalla pandemia da Covid, quella che fino a poco tempo fa era l’economia più dinamica e in crescita dell’America Latina si è trasformata in un pantano stagnante in crisi di liquidità che impedisce l’accesso ai dollari per pagare i fornitori all’estero: «una tempesta finanziaria in atto da tempo, che affonda le sue radici nella fine del boom del gas naturale e nell’incapacità del Paese ad oggi di capitalizzare le sue massicce riserve di litio», come segnala Bloomberg.
Questa situazione sta generando un accentuato malessere sociale, con disordini che vanno intensificandosi a causa del rapido declino dell’economia e proteste antigovernative di piazza che si susseguono quasi quotidianamente. Il partito di governo, diviso in due, è seduto sull’orlo di un vulcano; e all’opposizione di destra non resta che soffiare sul fuoco e aspettare che le cose peggiorino fino al momento delle elezioni, quando i “due Mas” saranno così indeboliti dalla loro lotta fratricida da non poter competere.
Il generale Zúñiga si è evidentemente reso interprete, più o meno consapevolmente, di questo disegno, centrato sull’approfondimento della frattura fra le due ali del Mas sullo sfondo della pesante crisi economica e finanziaria che si traduce nello stallo politico dell’esecutivo proprio a causa della scissione di fatto del partito di governo che perciò non ha più una solida maggioranza parlamentare.
E no, non era affatto un “golpe”
Due giorni prima dei fatti di Plaza Murillo, il generale aveva rilasciato un’intervista in cui criticava pesantemente l’intenzione di Morales di ricandidarsi nel 2025, alludendo anche a un possibile intervento dell’esercito per “far rispettare” la decisione giudiziale che ne ha decretato l’incandidabilità. Il giorno successivo, il ministro della Difesa Edmundo Novillo e quello alla Presidenza, María Nela Prada, gli avevano comunicato che sarebbe stato assegnato ad altro incarico visto il tenore delle sue dichiarazioni e Zúñiga aveva accettato lo spostamento. La mattina successiva, però, egli si è messo alla testa di quello che, tutt’al più, può essere definito un modesto e isolato pronunciamento militare, non certo un tentativo di golpe.
Come può infatti pensarsi di portare a termine un colpo di stato con sei camionette blindate e solo alcuni reparti fedeli, ma soprattutto senza mettere a punto un piano che preveda l’occupazione dei gangli vitali del potere, le sedi dei ministeri, la banca centrale, le reti televisive e radiofoniche pubbliche, il disarmo dei settori delle forze armate contrari all’insurrezione, l’arresto contemporaneo degli esponenti di governo in blocco, nonché dei principali dirigenti dei partiti e dei sindacati?
Come può considerarsi un tentativo di golpe quello in cui il generale suppostamente “golpista” entra nel palazzo presidenziale, ha un faccia a faccia col presidente che avrebbe dovuto deporre con la forza, si fa addirittura ordinare la smobilitazione e dopodiché gira sui tacchi ed esce dal portone rinchiudendosi in una delle camionette blindate?
È un colpo di stato oppure è una parodia quella in cui sempre il generale suppostamente “golpista” confessa candidamente, dopo essere stato arrestato, che il presunto “golpe” è fallito per “problemi logistici”, perché il resto delle truppe che avrebbero dovuto partecipare all’azione «non è arrivato in tempo»?
E poi, giusto per non farsi mancare una pennellata di “ingerentismo” statunitense, come mai immediatamente l’ambasciata Usa a La Paz ha diffuso un comunicato con il quale condanna fermamente «ogni tentativo di rovesciare il governo eletto e chiediamo il rispetto dell’ordine costituzionale», addirittura preallertando i propri cittadini, appena avuto sentore dei primi movimenti di truppe, a non intraprendere viaggi verso la Bolivia? Ah, davvero non c’è più la CIA di una volta!
E ora? Lo scontro nel Mas continua e la Bolivia langue in attesa delle prossime elezioni
Eppure, per motivi del tutto opposti, sia Arce che Morales hanno definito i fatti di Plaza Murillo un tentativo di colpo di stato. Il presidente in carica l’ha fatto per raccogliere e coagulare intorno a sé e al suo claudicante esecutivo il consenso popolare delle masse, lodandole per la loro resistenza contro i golpisti. L’aspirante presidente, invece, ha ritenuto sì trattarsi di un golpe, ma è stato più sottile: sarebbe stato un “auto‑golpe” orchestrato nientemeno dallo stesso Arce per poter risalire nella considerazione popolare. Del resto, è stato il medesimo Zúñiga a dichiarare dopo l’arresto di essere stato contrattato dal presidente per orchestrare una pantomima. È chiaro che queste sono dichiarazioni scarsamente attendibili, rilasciate allo scopo di sminuire le responsabilità del loro autore. Ma tanto è bastato agli “evisti” per gettare ulteriore fango sugli avversari “arcisti” e continuare nella loro opera di opposizione interna.
Resta il fatto che, in attesa delle prossime elezioni, la Bolivia rimane un Paese diviso su basi geografiche ed etniche, con una minoranza bianca ricca e reazionaria che di fatto detiene il grosso delle leve del potere economico a scapito di una minoranza indigena contadina e operaia che ha ottenuto il diritto di voto solo nel 1952; un Paese in cui l’esperienza di un preteso “socialismo andino” non ha cambiato strutturalmente le condizioni delle masse popolari: e né poteva, perché esso altro non era se non un capitalismo imbellettato da una cosmetica pennellata di indigenismo; un Paese che ha subito, da quando ha conseguito la propria indipendenza politica nel 1825, ben 190 autentici golpe e tentativi di golpe. Ma che, proprio nel 1952, ha visto scoppiare l’ultima vera rivoluzione proletaria dopo quella in Russia nel 1917.
Una rivoluzione di cui oggi c’è un tremendo bisogno per spazzare via gli Zúñiga, i Morales, gli Arce e tutti coloro che continuano ad opprimere le masse popolari boliviane.
Note
[1] Un sondaggio svolto nel mese di dicembre 2023 ha rivelato che ben il 52% della popolazione boliviana vede la fazione “evista” come la principale opposizione al governo di Arce: molto più dell’opposizione reazionaria della destra.