Presentiamo ai nostri lettori un’interessante analisi sui rapporti fra l’establishment statunitense e il premier israeliano Netanyahu alla luce di quelli tra Israele e Hamas.
Buona lettura.
La redazione
Perché il Washington Post sta vuotando il sacco sul patto faustiano di Bibi con Hamas che dura da anni?
I Democratici hanno intravisto un’opportunità senza precedenti per eliminare definitivamente Bibi e tutto ciò che rappresenta, e per questo l’hanno colta anche a costo di rischiare che la rottura del tabù sulla discussione dei rapporti tra Israele e Hamas prima del 7 ottobre potesse screditare l’autoproclamato Stato ebraico.
Andrew Korybko [*]
Il Washington Post (WaPo) ha appena pubblicato uno dei pezzi più duri mai scritti sul primo ministro israeliano Benjamin “Bibi”) Netanyahu. Intitolato “Netanyahu e Hamas dipendevano l’uno dall’altro. Entrambi potrebbero essere sul viale del tramonto”, l’articolo cita esperti israeliani che sostengono che Bibi abbia stretto un patto faustiano con Hamas che durava da anni e che, presumibilmente, ha contribuito all’attacco a sorpresa del gruppo il 7 ottobre. In altre parole, che il suo tacito accordo con quell’organizzazione ha avuto un ruolo nella più grande uccisione di ebrei dopo l’Olocausto.
Alcuni di coloro che non si affidano alla stampa mainstream per le loro informazioni erano già arrivati a questa conclusione, ma questa è la prima volta che un’agenzia del calibro del WaPo in Occidente ne ha parlato, il che è servito a far diventare normale la discussione popolare su questo argomento. I custodi dell’agenda avevano finora accusato chiunque suggerisse una simile ipotesi di “diffondere teorie cospirative antisemite”, ma queste calunnie non reggono quando si tratta del resoconto del WaPo, che cita gli stessi esperti israeliani.
Questi sostengono che Bibi ha fatto affidamento su Hamas per dividere la causa palestinese fungendo così da pretesto “pubblicamente plausibile” per il rifiuto di Israele di fare progressi verso la soluzione dei due Stati. A riprova di ciò, questi esperti hanno ricordato a tutti che il suo governo “ha acconsentito a rilasci periodici di prigionieri, al trasferimento di denaro dal Qatar per pagare gli stipendi pubblici a Gaza, migliorare le infrastrutture e, secondo i critici, finanziare le operazioni militari di Hamas”. In cambio, Hamas ha potuto continuare a governare Gaza, facendo i propri interessi.
Questo patto faustiano ha retto per oltre un decennio, durante il quale “sono cresciute le speranze che il gruppo si stesse evolvendo in un organo di governo più affidabile, concentrato sulla costruzione di Gaza invece che sulla guerra totale. Netanyahu non era il solo a vedere dei vantaggi nella situazione. I moderati israeliani hanno iniziato ad immaginare un futuro accanto a una Gaza in via di stabilizzazione e con un migliore tenore di vita. Gli imprenditori hanno salutato il miglioramento delle relazioni di Israele con i vicini arabi disposti a stringere legami più forti con lo Stato ebraico”.
In parole povere, gli israeliani di tutto lo spettro politico sono stati ingannati dal protrarsi dello status quo e hanno creduto che Hamas non avrebbe tradito Bibi, dal momento che anche i loro interessi oggettivi erano serviti a perpetuare questo accordo, ed è per questo che sono rimasti veramente scioccati quando il gruppo ha compiuto il suo attacco a sorpresa. All’indomani di quel famigerato avvenimento, il WaPo sostiene che il sentimento pubblico si è rivoltato sia contro di lui che contro Hamas, mettendo così a repentaglio la loro gestione del potere che ha ispirato questo patto faustiano.
Questo reportage riflette accuratamente la realtà così come oggettivamente esiste, ma non si può negare quanto sia stato inaspettato per un organo di stampa con la reputazione del WaPo in Occidente pubblicare un pezzo così dannoso per il leader israeliano, soprattutto considerando che le osservazioni credibili in esso condivise erano state tabù per anni. L’articolo rappresenta quindi una pietra miliare narrativa che rivoluziona la narrazione pubblica sulle relazioni tra Israele e Hamas prima del 7 ottobre.
I custodi dell’agenda sono stati colti alla sprovvista da una simile notizia, poiché pochi avrebbero potuto prevedere cosa avrebbe fatto il WaPo, ma in realtà era in qualche modo prevedibile se si ricorda il rapporto di questo giornale con i Democratici al potere negli Stati Uniti e il suo sostegno alle proteste antigovernative in Israele all’inizio di quest’anno. A fine marzo è stato valutato che “la rivoluzione colorata sostenuta dagli Stati Uniti in Israele ha appena raggiunto proporzioni di crisi” dopo che l’amministrazione Biden ha raddoppiato la sua campagna di pressione contro Bibi.
Gli osservatori occasionali potrebbero sorridere dell’idea che gli Stati Uniti potrebbero mai avere un ruolo nella destabilizzazione di un governo israeliano, ma coloro che hanno queste opinioni non conoscono le tensioni tra il governo liberal-globalista di Biden e quello conservatore-nazionalista di Bibi. In breve, i Democratici disprezzano le loro controparti israeliane per motivi ideologici e vogliono anche punirle per essersi rifiutate di rispettare le sanzioni anti-russe dell’Occidente, per non parlare del fatto che continuano a coordinarsi con la Russia in Siria.
Certo, anche l’esecutivo liberal-globalista che ha governato tra gli ultimi due mandati di Bibi non ha rispettato le sanzioni né ha ridotto la cooperazione con la Russia in Siria, ma è stato comunque considerato dall’Amministrazione Biden molto più affidabile politicamente su tutte le altre questioni. I Democratici preferirebbero naturalmente che tornassero al potere, e da qui la Rivoluzione colorata che hanno contribuito a orchestrare contro il governo conservatore-nazionalista di Bibi all’inizio di quest’anno.
Per quanto desiderassero sostituirlo, esistevano tuttavia alcuni limiti alla loro decisione di spingersi oltre, per paura che il superamento di linee rosse impreviste avrebbe potuto screditare lo Stato israeliano in generale. Questo spiega perché hanno mantenuto il tema del suo patto faustiano con Hamas come tabù fino a dopo il 7 ottobre, dato che il già citato esecutivo liberal-globalista intermedio aveva continuato questa stessa politica durante il suo governo. Queste riserve, tuttavia, non rappresentano più un problema, dal momento che l’attacco a sorpresa di Hamas è avvenuto durante il mandato di Netanyahu.
Gli stessi israeliani stanno già discutendo delle politiche sbagliate che hanno portato a questo risultato, quindi i democratici non hanno più ritenuto che ci fosse motivo di mantenere il tabù, soprattutto perché questo tema emotivo potrebbe essere facilmente strumentalizzato dai loro esperti di comunicazione per fomentare ulteriormente il sentimento contro di lui. I molti anni di Bibi al potere fanno sì che gli elettori medi siano più propensi a incolpare lui per questa politica piuttosto che il governo intermedio liberal-globalista e di conseguenza mirino a punirlo alle prossime elezioni.
Per massimizzare le possibilità che ciò accada, gli amici democratici del WaPo hanno deciso — sia da soli, comprendendo tacitamente l’obiettivo comune che si sta perseguendo, sia con una spinta da parte del partito — di aprire il vaso di Pandora e rompere finalmente il tabù sul tema. Lo scopo è che gli israeliani ritengano Bibi personalmente responsabile della più grande uccisione di ebrei dopo l’Olocausto, il che potrebbe porre fine alla sua carriera politica e portare alla rimozione del suo governo conservatore-nazionalista.
In sostanza, i democratici hanno visto un’opportunità senza precedenti per eliminare definitivamente Bibi e tutto ciò che rappresenta, ed è per questo che l’hanno colta anche a rischio che la rottura del tabù sulla discussione dei rapporti tra Israele e Hamas prima del 7 ottobre potesse screditare l’autoproclamato Stato ebraico. Il servizio giornalistico del WaPo è stato quindi guidato da finalità di cambio di regime, anche se, tutto sommato, è meglio che questo tabù sia stato finalmente infranto piuttosto che continuare a essere sostenuto in modo aggressivo.
[Traduzione di Ernesto Russo]
[*] Andrew Korybko è un analista politico statunitense che vive a Mosca, dove svolge un dottorato di ricerca. Si occupa, in particolare, delle relazioni fra la strategia degli Usa in Afro‑Eurasia e le contrapposte politiche di Russia, Cina e India.