Quando, agli inizi di agosto, sono stati pubblicati i dati relativi all’economia cinese, subito sono partite grida di giubilo da parte della stampa mainstream occidentale (per intenderci, quella filoatlantista e filocapitalista): la quale, ritenendo – a torto, come sanno bene i lettori di questo sito – che la Cina sia un Paese “socialista” (o, quantomeno, che abbia un’economia non di mercato), ha subito espresso soddisfazione per il rallentamento economico – anche vistoso, se lo si confronta al periodo in cui essa viaggiava con una crescita a due cifre – della “Terra del Dragone”. Una soddisfazione che lasciava trapelare un non così nascosto auspicio – sottostante alla lettura dei dati – che l’economia cinese potesse in qualche maniera avvicinarsi “al ribasso” a quelle degli Usa e dei Paesi europei.
E così, si sono potuti leggere allarmi sulla “deflazione” della Cina, sullo scoppio di una bolla speculativa immobiliare talmente grande da comprometterne l’intero sistema, sul fatto che essa non potesse più trainare l’economia mondiale, ecc.
Nulla di cui meravigliarsi: nella competizione globale che vede contrapposti – al momento non ancora militarmente – l’Occidente collettivo (con in prima fila gli Usa) e la Cina, una narrazione del genere è sicuramente sembrata utile per “screditare” la potenza asiatica agli occhi dell’opinione pubblica e, soprattutto, dei “mercati”. Insomma, il capitalismo dei “Buoni” non poteva soccombere rispetto a quei “comunisti cattivi” cinesi (che in realtà comunisti non sono): e dunque, se crisi economica dev’essere, che lo sia per loro (o, quantomeno, anche per loro).
Ciò che invece stupisce è che alcune delle piccole forze dislocate nel campo della sinistra rivoluzionaria o internazionalista nelle loro analisi abbiano fatto propria, con una buona dose di impressionismo, questa lettura, utilizzando esattamente gli stessi argomenti della stampa mainstream: per cui ci è capitato di leggere, così come erano stati messi in fila e confezionati da quest’ultima, identici assunti e conclusioni. Non, ovviamente, con le medesime intenzioni, ma per squadernare – sterilmente, secondo noi – quella che è l’aspirazione di tutti i rivoluzionari, e cioè, l’irruzione delle masse sulla scena in un quadro di crisi tale da aprire un processo rivoluzionario: se anche l’economia cinese va in crisi – è la tesi di fondo – questo è il momento in cui le masse devono scendere in campo; e se non proprio oggi, perlomeno domani o dopodomani.
Ma – attenzione! – messa così quest’aspirazione è solo il frutto di un ragionamento meccanicistico (crisi economica → irruzione delle masse sulla scena → rivoluzione), dato che una crisi economica, quantunque di grandi proporzioni, non necessariamente sbocca in un processo rivoluzionario. Storicamente, infatti, si sono date rivoluzioni senza nessuna crisi economica sullo sfondo, così come gigantesche crisi economiche senza che si sia sviluppato nessun movimento di massa.
Generalmente, tutte le analisi che hanno evidenziato un rallentamento dell’economia cinese, e altre che giungono fino ad ipotizzare che questo potrebbe significare l’inizio di una recessione del Paese asiatico, tendono a sottolineare che nel secondo trimestre 2023 la ricchezza prodotta dalla Cina è cresciuta, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, solo del 6,3%. Cioè, si considera questa crescita ridotta rispetto a ciò cui la Cina ci ha abituati – e la si valuta negativamente – mentre il Pil degli Usa è cresciuto solo del 2%, quello dell’Eurozona dello 0,3% (inutile stare a parlare di quello italiano!) e la stagnazione della Germania è certificata dal terzo trimestre consecutivo a zero (sicché si può dunque parlare di un’estate in recessione), e mentre l’indice della produzione industriale è negativo nell’area euro (-2,2% di maggio 2023 rispetto allo stesso mese del 2022). Eppure, a fronte di questi dati, il 6,3% della crescita cinese è motivo di notizie allarmistiche non solo sui principali media occidentali, ma anche sugli organi di stampa della sinistra non riformista.
Analizzando i dati, effettivamente emerge che nel secondo trimestre 2023 la crescita cinese ha vistosamente rallentato: nel primo trimestre, subito dopo la fine delle misure restrittive Covid, si era subito attestata sul +2,2%. A questo ritmo, la proiezione l’avrebbe portata a raggiungere per la fine del 2023 quasi il 9% (stesso indice degli anni pre‑crisi 2008).
E però non si tiene conto che il governo di Pechino aveva fissato come obiettivo per il 2023 una crescita del 5%, avendo evidentemente previsto il rallentamento poi verificatosi nel secondo trimestre (+0,8%). Con questo solo dato, la proiezione annuale si attesterebbe al 3,2%; ma sommandolo al dato del trimestre precedente (+2,2%), si arriverebbe ad una crescita semestrale del 3%, con una proiezione annua, quindi, del 6%. In questo modo, l’obiettivo del governo del 5% continuerebbe ad essere realistico.
Non solo: se i dati si analizzano su base annua, nel primo trimestre la crescita è stata del 4,5% rispetto all’anno precedente, e nel secondo del 6,3%: e dunque del +5,5% nel primo semestre. E la produzione industriale cinese è anche aumentata (+4,4% su base annua a giugno).
In ogni caso, se di rallentamento complessivo si vuole parlare, esso trova le sue basi sia nella diminuzione delle esportazioni (dovuta però alla minore domanda estera, a sua volta determinata da minori disponibilità economiche dei Paesi compratori) che in quella dei consumi interni (in particolare, la componente del mercato interno che ha contribuito a questo risultato è stato il prezzo degli immobili, che da oltre quindici mesi nelle principali settanta città è in calo), in un quadro segnato dal crollo di Evergrande ed altre società immobiliari.
La dinamica discendente del mercato immobiliare si è riverberata sui progetti di sviluppo delle amministrazioni locali cinesi, che traggono molte delle loro entrate dalla vendita dei terreni pubblici edificabili: il blocco delle costruzioni, insomma, influisce negativamente sui loro bilanci.
In breve, la spirale negativa impressa dal settore immobiliare ha inciso in maniera rilevante sull’insieme dell’economia cinese.
La tendenza a subire in maniera impressionistica la narrazione della stampa e degli analisti filocapitalisti ha fatto sì che le correnti della sinistra a cui abbiamo fatto riferimento abbiano assolutizzato dati tutto sommato congiunturali (benché rilevanti) attribuendo loro la specifica di “tendenza”. Cioè – si è sottinteso – il crollo del settore immobiliare determinerà nel futuro la “tendenza” alla progressiva e inarrestabile decadenza del sistema economico cinese nel suo insieme. Qualcuno si è addirittura spinto a sottintendere una forte “somiglianza” fra le pesanti difficoltà finanziarie di Evergrande e la violenta crisi che nel 2008 portò al fallimento di Lehman Brothers negli Stati Uniti. Ma questa specifica lettura è certamente approssimativa e completamente errata.
Sta di fatto, però, che dopo un solo mese, e grazie a qualche correttivo da parte delle autorità finanziarie di Pechino, la crisi di Evergrande è già passata in secondo piano; improvvisamente intorno alla Cina sta alitando una ventata di ottimismo; la “deflazione” annunciata a destra e a manca pare già essere alle spalle.
Delle ragioni che hanno spinto gli analisti borghesi a confezionare quella lettura abbiamo già detto e non ci ritorniamo. Ci interessa invece sottolineare l’approssimazione che ha spinto correnti della sinistra non riformista a coonestare, sia pure per motivi diversi, la medesima lettura lasciandosi “impressionare” – di qui l’accusa di impressionismo che muoviamo loro – dai singoli dati, senza approfondire una visione d’insieme del sistema economico cinese.
Quando furono pubblicati quei dati che hanno fatto gridare alla deflazione, perfino la stessa Morgan Stanley non ha dato eccessivo peso nelle sue analisi al rallentamento della crescita nel secondo trimestre – che il Capo del Dipartimento per l’economia cinese, Robin Xing, ha definito «un singhiozzo» – prevedendo invece che la perdita di 30 milioni di posti di lavoro nei servizi sarebbe stata parzialmente compensata (+16 milioni) dal rimbalzo delle attività “ad alta intensità di contatto” come la ristorazione, che faranno lievitare i consumi.
Dal canto suo, Wei Li, docente di economia internazionale presso la University of Sydney Business School, ha confermato che «la ripresa economica della Cina è sulla buona strada», poiché «altri settori compensano la debolezza delle esportazioni e del settore immobiliare», dal momento che, nonostante il problema derivante dal mercato immobiliare, il regime cinese continua a puntare su investimenti infrastrutturali nell’economia di prodotti ad alta tecnologia e nell’industria “verde” (energia pulita, veicoli elettrici, ecc.). E questa è la ragione per cui la stessa Wei Li ha sostenuto che, «sebbene il 2022 sia stato davvero un anno segnato dalla turbolenza economica, sarebbe miope valutare la ripresa economica quest’anno esclusivamente sulla base della performance dei suoi settori immobiliare e dell’esportazione. La determinazione della Cina a sfruttare una vasta gamma di settori per la sua ripresa economica dimostra che nella sua abilità economica c’è più di quanto sembri».
Sia chiaro. Non vogliamo essere fraintesi: non stiamo “difendendo” il sistema capitalista cinese come se fosse “buono” rispetto a quello “cattivo” dell’Occidente in senso lato. Non siamo “campisti” e non c’è neanche bisogno di specificare che per noi la Cina rappresenta un sistema compiutamente capitalista (dopodiché si può discutere su quale tipo di capitalismo sia alla base della società cinese, considerando il peso del partito‑Stato nell’insieme dell’economia): e dunque, come tale, esso dovrebbe essere rovesciato per avanzare nella costruzione di una società socialista.
Le economie di un mondo capitalista globalizzato – che possono essere, e sicuramente sono, diverse fra loro – sono anche necessariamente interconnesse: come gli eventi più vicini a noi (la crisi del 2008‑2009; la pandemia da Covid; oggi, la guerra in Ucraina) hanno dimostrato, nel capitalismo non c’è nessuna “isola felice”. Quando raggiunge determinati livelli, la crisi investe tutte le economie, sia pure con diverse intensità. Che il capitalismo, globalmente inteso come sistema, stia affrontando la sua (ennesima) crisi pare certo. Che si voglia accentuare il (forte) rallentamento di uno dei suoi bastioni per presentare l’intero sistema stesso come se fosse alla vigilia di un crollo distruttivo, pare volontaristico e, soprattutto, per ora azzardato.
Ecco perché riteniamo che le analisi dei marxisti debbano essere improntate alla cautela e allo studio approfondito delle linee di tendenza dei processi, rifuggendo dalla fretta di “dire qualcosa di sinistra”, se non addirittura di “dire qualcosa” (parafrasando il regista Nanni Moretti): malcostume che conduce inevitabilmente all’approssimazione e all’eclettismo.
Ma non è tutto, perché non basta, cioè, prendere a base di un ragionamento solo alcuni dati macroeconomici, assolutizzandoli. Quei dati devono invece essere inseriti in un quadro più ampio che esuli dal solo aspetto dell’economia e li legga anche alla luce dei processi più generali dello scontro fra potenze e della lotta dei Paesi dipendenti per riposizionarsi, allo scopo di acquisire una maggiore influenza, in uno dei campi che quello scontro determina. In altri termini, e per restare all’esempio della Cina: nel mese di agosto il semplice (e semplicistico) esame dei dati dell’economia ha fatto gridare alla deflazione e al potenziale crollo; solo un mese dopo, nuovi dati mettono in crisi quell’analisi. Ma deve, oppure no, il capitalismo cinese essere valutato alla luce dello scontro economico, commerciale e valutario (in attesa di quello, possibile, militare) con le economie occidentali, e in particolare degli Stati Uniti? Deve, oppure no, essere osservato il suo sviluppo attraverso il protagonismo in tante aree del mondo grazie al quale Pechino cerca di sostituirsi alla presenza occidentale in diverse regioni?
È chiaro, per quanto stiamo dicendo, che limitarsi a “registrare” i dati economici che traducono periodi di calo e di crescita di un’economia come quella cinese dà come risultato un’analisi congiunturale e altalenante della stessa.
Ciò che allora rivendichiamo contro le analisi impressionistiche che stiamo qui denunciando è la bontà del metodo scientifico di analisi della realtà che il marxismo ci ha lasciato: un metodo che in quelle analisi manca del tutto. E la difesa di questo metodo non è finalizzata a se stessa: un metodo d’analisi corretto induce a (o quantomeno rende possibile) una prassi politica corretta.
In questo senso, presentiamo qui di seguito il saggio del noto economista marxista Michael Roberts, il quale, benché sia dell’opinione (per noi errata) che quello cinese non sia un sistema “completamente” capitalista, nondimeno ci offre una lettura assolutamente corretta dei dati così malamente maneggiati nelle analisi che abbiamo fin qui criticato: perché, rifuggendo da una visione congiunturale, li inserisce nel più ampio quadro di quelle che egli ritiene essere le linee di tendenza del capitalismo cinese, segnato da un marcato (e, in questo momento, più evidente) intervento dello Stato.
E, insieme alla Redazione del sito, auguro a chi ci segue buona lettura.Valerio Torre
Cina: consumi o investimenti?
Michael Roberts
Nel secondo trimestre del 2023 l’economia cinese è cresciuta del 6,3% su base annua, in aumento rispetto al 4,5% su base annua registrato nel primo trimestre. Sembra forte, ma la crescita trimestrale è stata solo dello 0,8%, in netto rallentamento rispetto al 2,2% su base trimestrale del primo trimestre del 2023.
Inoltre, una misura affidabile dell’attività economica – l’indice del sondaggio tra i responsabili degli acquisti[1] per il mese di luglio – è sceso a 51,1 nel luglio 2023 da 52,3 nel mese precedente (50 è la soglia tra espansione e contrazione). Si tratta del dato più basso dal dicembre 2022. L’attività industriale si è contratta per il quarto mese consecutivo.
Gli “esperti” occidentali sulla Cina si sono affrettati a sostenere che l’economia cinese è in gravi difficoltà, con un rallentamento della crescita, un calo delle esportazioni, una debole crescita dei consumi e un debito in aumento. Il grande miracolo economico è finito.
Ma quante volte negli ultimi vent’anni abbiamo sentito dagli esperti questo ritornello? Potrei citare articoli su articoli, libri su libri, che prevedevano il collasso dell’economia statale cinese, partendo dall’affermazione che essa è bloccata in una “trappola del reddito medio” (cioè non può crescere di nuovo velocemente); passando per l’affermazione secondo cui l’invecchiamento della popolazione e il calo della forza lavoro, insieme all’aumento del debito del settore pubblico e privato, stanno portando alla “giapponesizzazione”, ovvero a un’economia stagnante; per finire con le previsioni di un imminente collasso nel settore immobiliare e finanziario.
Ho trattato questi argomenti in dettaglio in molti post precedenti. L’ultimo risale appena a marzo. Vi prego di leggerlo attentamente insieme ai post richiamati. I dati sono tutti lì, a confutare questa analisi “esperta”. Ma, naturalmente, essa non verrà messa in dubbio perché è nell’interesse dell’“Occidente” sostenere che il modello economico cinese non può funzionare e che ha bisogno di una transizione urgente, non verso il socialismo, ma verso un vero e proprio capitalismo di libero mercato.
Consideriamo l’ultima serie di affermazioni avanzate dagli economisti mainstream (e ripetute a pappagallo da alcuni all’interno della Cina, cioè da coloro che sono stati ben educati all’economia neoclassica e del libero mercato nelle università americane). Per esempio, ecco l’ultima opinione del Financial Times: «La politica del governo è in gran parte responsabile del rallentamento. Decenni di affidamento su un modello di crescita guidato dagli investimenti hanno rallentato la transizione della Cina verso un’economia basata sui consumi. La scarsa sorveglianza del mercato immobiliare ha portato a un boom insostenibile dei prestiti, mentre gli impedimenti politici hanno ostacolato le imprese private. Anche le pesanti restrizioni imposte dal Covid hanno lasciato profonde cicatrici».
Quindi, prima di tutto, incolpiamo il governo cinese per il rallentamento dell’economia – presumibilmente per aver interferito con le imprese e il settore capitalistico. Ma poi sosteniamo che la colpa è di “decenni di affidamento a un modello di crescita guidato dagli investimenti”, perché è necessaria una “transizione verso un’economia basata sui consumi”. Davvero? Le economie del G7 basate sui consumi hanno fatto meglio della terribile economia cinese guidata dagli investimenti negli ultimi due o tre decenni? Date un’occhiata a questo grafico.
Ma il Financial Times e altri esperti potrebbero ribattere che, a partire dal COVID, le cose sono cambiate in Cina; ora l’economia non può riprendersi. Davvero? Guardate questo grafico sul tasso di crescita di Cina e Stati Uniti dall’inizio della pandemia COVID. In effetti, durante il 2020, anno di crollo dall’inizio della pandemia COVID, tutte le principali economie capitalistiche avanzate hanno subito una recessione, ma la Cina, come nella Grande Recessione del 2008‑2009, non l’ha subita. Eppure la Cina ha applicato la serie più severa e draconiana di misure di isolamento durante la pandemia.
E mentre gli economisti statunitensi sono in visibilio per la crescita dello 0,6% dell’economia americana nel secondo trimestre di quest’anno, a quanto pare la crescita dello 0,8% nello stesso trimestre in Cina è da considerarsi un disastro.
Il Financial Times afferma che «anche le pesanti restrizioni imposte in conseguenza del Covid hanno lasciato profonde cicatrici». Ebbene, queste “pesanti” misure hanno anche salvato milioni di vite in Cina, quando il suo sistema sanitario era al collasso e inadeguato al compito. Nel 2020‑2021, quando il tasso di mortalità per COVID è salito alle stelle in Occidente, quello della Cina si è mantenuto a livelli minimi. Alla fine, quando è sopraggiunta la fine delle misure di isolamento e sono aumentate le proteste, il governo ha ceduto e ha “aperto” l’economia: allora il tasso di mortalità è salito, ma solo a 85 per milione rispetto al 3300 per milione degli Stati Uniti, o al 2325 della Svezia “aperta” e persino al 375 (dato ridicolmente sottostimato) dell’India. Le “profonde cicatrici” sono state e sono tuttora avvertite in Europa, negli Stati Uniti e in America Latina a causa delle morti da COVID e delle conseguenze che il “long COVID” ha avuto sulla salute della forza lavoro e sulla crescita economica. Quest’anno, il FMI prevede che la Cina crescerà del 5,3%, mentre le economie capitalistiche avanzate riusciranno a raggiungere solo l’1,5%, con l’area dell’euro che raggiungerà solo lo 0,9% e la Germania e la Svezia in vera e propria recessione.
Il Financial Times prosegue affermando che «la scarsa sorveglianza del mercato immobiliare ha portato a un boom insostenibile dei prestiti, mentre gli ostacoli politici hanno frenato le imprese private». Si è parlato molto del crollo immobiliare in Cina, con il fallimento di diverse mega‑società di sviluppo immobiliare che non sono più riuscite a coprire il debito accumulato con le vendite degli immobili.
Ma è stata colpa di una cattiva regolamentazione? La stessa causa – la “cattiva regolamentazione” – è stata addotta per i crolli immobiliari nelle economie capitaliste. Ma come in quelle economie, la crisi immobiliare cinese non è dovuta a una cattiva regolamentazione o a “prestiti insostenibili”, bensì al fatto che il mercato immobiliare e abitativo in Cina è proprio questo: parte del mercato speculativo capitalista. Per citare lo stesso Xi: «La casa serve per vivere, non per speculare».
E qui sta il problema. Perché un bisogno umano fondamentale come la casa è stato affidato al settore privato per soddisfare le esigenze di milioni di persone che si erano riversate nelle città negli ultimi decenni? L’edilizia abitativa dovrebbe essere realizzata con investimenti pubblici diretti per costruire case per tutti a canoni ragionevoli, evitando così la speculazione, l’impennata dei prezzi delle case e l’aumento delle disuguaglianze. In effetti, la ragione principale dell’aumento della disuguaglianza in Cina negli ultimi due decenni non sta nei miliardari, ma nella disuguaglianza tra aree urbane e rurali e tra proprietari di immobili e non.
È quello che è successo in Occidente e anche la Cina avrebbe dovuto evitarlo. Ma nella loro “saggezza” i leader cinesi, consigliati dai loro banchieri ed economisti di formazione occidentale, hanno optato per il modello rentier‑capitalista che ora si è ritorto contro di loro.
Il governo è stato costretto ad agire. In primo luogo, con la politica delle “tre linee rosse” introdotta nel 2020, ha mirato a limitare l’indebitamento dei costruttori e, in ultima analisi, a ridurre il loro accesso ai finanziamenti. Poi ha iniziato a salvare i costruttori e a subentrare ad alcuni. Ma rimangono enormi debiti nelle amministrazioni locali che hanno sostenuto l’onere di fornire terreni ai costruttori e raccogliere fondi. Il debito delle amministrazioni locali è cresciuto vertiginosamente e il programma di rimborso è particolarmente oneroso.
Il debito delle amministrazioni locali si aggira oggi intorno al 25% del PIL, ma se si aggiungono i meccanismi di finanziamento creati dalle amministrazioni locali (LGFV), il debito totale delle amministrazioni locali raggiunge il 60% del PIL. Inoltre, di fronte all’inasprimento dei criteri di credito sul mercato interno, gli LGFV si sono rivolti ai mercati offshore e hanno raccolto la cifra record di 39,5 miliardi di dollari in obbligazioni in dollari.
Temo che i leader cinesi non abbiano imparato da questa situazione. Ora si stanno muovendo per fornire credito più facile ai costruttori e hanno abbandonato il concetto di Xi di “case per vivere”. Il governo ora parla di aiutare il settore capitalistico [privato: N.d.T.]. Gli alti funzionari del partito e dello Stato hanno pubblicato un piano in 31 punti per sostenere l’economia privata e migliorare la fiducia delle imprese. La scorsa settimana diverse agenzie governative hanno anche delineato gli obiettivi per stimolare la spesa dei consumatori in automobili ed elettrodomestici, anche se non sono stati annunciati sussidi diretti per le famiglie.
Tutto ciò è in linea con quanto sostenuto dal Financial Times, secondo il quale «gli imprenditori e le aziende consolidate hanno bisogno di stabilità e chiarezza normativa da parte del governo. Un ulteriore allentamento della politica monetaria da parte della banca centrale cinese potrebbe aiutare. Pechino dovrà anche ristrutturare il debito delle amministrazioni locali; un’opzione potrebbe essere la vendita di beni statali a società private. Il ricavato aiuterebbe le autorità locali a evitare una crisi del debito». In altre parole, la risposta non è la proprietà pubblica del settore immobiliare e l’acquisizione delle società immobiliari indebitate, ma piuttosto un salvataggio e poi la vendita di beni statali per pagarlo, cioè la privatizzazione e non la nazionalizzazione.
Infine, nel sostenere il declino dell’economia cinese, il Financial Times ripropone la vecchia argomentazione degli “esperti occidentali”, secondo cui la Cina deve diventare un’economia guidata dai consumatori come quella del G7, se vuole evitare la trappola del “reddito medio” e la stagnazione in stile giapponese. Ma sono le economie di consumo occidentali a ristagnare, non la Cina. Inoltre, se per “stagnazione” si intende l’assenza di inflazione dei prezzi, allora può avere un senso. La Cina ha il tasso di inflazione più basso di tutte le principali economie del mondo, compreso il Giappone stagnante che sta disperatamente cercando di creare inflazione!
Mentre in Occidente le famiglie stanno subendo il più grande calo del tenore di vita dai tempi della Grande Depressione, perché i salari non riescono a tenere il passo con l’alta inflazione, in Cina accade il contrario.
Il problema è la disoccupazione giovanile, che in Cina supera il 20% rispetto a una media di disoccupazione urbana di circa il 5%.
In realtà, non è che i posti di lavoro non esistano in Cina. Esistono eccome. Ma l’economia non produce abbastanza posti di lavoro altamente qualificati e ad alto salario, come molti studenti universitari si aspettano. La Cina produce sempre più laureati.
Tutti si aspettano di trovare lavoro nella finanza e nella tecnologia, ma non nella produzione, nell’edilizia e nell’ingegneria. È un problema che accomuna la Cina e l’Occidente. Le famiglie più agiate vogliono che i loro figli lavorino per le affascinanti aziende tecnologiche e le banche (dove devono fare orari assurdi) piuttosto che in lavori “banali” che spesso possono essere pagati altrettanto bene. Il governo ha offerto incentivi alle aziende che assumono studenti, ma non pianifica progetti governativi che potrebbero fornire una formazione nel campo della tecnologia e dell’innovazione in grado di soddisfare importanti obiettivi sociali.
Poi c’è il commercio estero. Uno dei motivi per cui il tasso di crescita della Cina è stato relativamente basso nell’ultimo anno è il crollo del commercio internazionale, che è diventato negativo. Di conseguenza, le esportazioni cinesi nel mondo sono diminuite.
Sì, questo probabilmente significa che la Cina dovrebbe concentrarsi sugli investimenti e sulla produzione interna, piuttosto che sulle esportazioni. Ma questo non vuol dire diventare un’economia “guidata dai consumatori”. Come ho sostenuto in precedenza, i consumi derivano dagli investimenti e non viceversa, come ha dimostrato l’economia cinese fino ad oggi.
Il Financial Times e gli altri esperti sostengono che la Cina si sta dirigendo verso una bassa crescita per tutto il decennio: si vedano le ultime previsioni del FMI.
Ma, come ho sostenuto nei post precedenti, questo non è vero se la Cina sfrutta il potenziale che ha ancora per investire e crescere. Alcuni “esperti” sostengono che l’India supererà la Cina nel prossimo decennio. Così afferma l’ex economista della Banca Mondiale e del FMI Ashoka Mody:
«Dalla metà degli anni 80, gli osservatori indiani e internazionali hanno previsto che la lepre autoritaria cinese alla fine avrebbe vacillato e la tartaruga democratica indiana avrebbe vinto la gara».
Ma l’Indice del Capitale Umano 2020 della Banca Mondiale – che misura i risultati dei Paesi in materia di istruzione e salute su una scala da 0 a 1 – ha assegnato all’India un punteggio di 0,49, inferiore a Nepal e Kenya, entrambi Paesi più poveri. La Cina ha ottenuto un punteggio di 0,65, simile a quello dei ben più ricchi (in termini pro capite) Cile e Slovacchia. Mentre il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro della Cina è sceso a circa il 62% da circa l’80% nel 1990, quello dell’India è sceso nello stesso periodo dal 32% a circa il 25%. Soprattutto nelle aree urbane, la violenza contro le donne ha scoraggiato le donne indiane dall’entrare nella forza lavoro.
Supponendo che le due economie fossero ugualmente produttive nel 1953 (all’incirca quando hanno iniziato i loro sforzi di modernizzazione), la Cina è diventata più produttiva di oltre il 50% alla fine degli anni 80 e oggi la produttività cinese è quasi il doppio di quella indiana. Mentre il 45% dei lavoratori indiani è ancora impiegato nel settore agricolo, altamente improduttivo, la Cina è passata da un’attività manifatturiera semplice e ad alta intensità di manodopera ad una posizione dominante nei mercati automobilistici globali, soprattutto per quanto riguarda i veicoli elettrici.
La Cina è anche meglio preparata per le opportunità future. Sette università cinesi sono classificate tra le prime cento al mondo, con Tsinghua e Pechino tra le prime venti. Tsinghua è considerata la prima università al mondo per l’informatica, mentre Pechino è al nono posto. Allo stesso modo, nove università cinesi sono tra le prime cinquanta a livello globale in matematica. Per contro, nessuna università indiana, compresi i celebri Indian Institutes of Technology, è classificata tra le prime cento al mondo.
La Cina ha ancora grandi opportunità per la realizzazione di infrastrutture nelle province interne. La sfida consiste nel trasformare i risparmi interni in investimenti interni, in modo che il capitale sia destinato agli usi più produttivi. Per me, questo significa che lo Stato deve dirigere tali stanziamenti e non lasciare che gli investimenti vengano realizzati dal settore capitalistico [privato: N.d.T.].
In effetti, questo settore in Cina sta fallendo. La quota del settore privato nelle cento maggiori società cinesi quotate in borsa per valore di mercato è scesa da un picco del 55% a metà del 2021 al 39% di questo giugno, avvicinandosi ai livelli più bassi in più di tre anni, secondo un rapporto di ricerca di prossima pubblicazione del centro studi Peterson Institute for International Economics (PIIE), con sede a Washington.
Gli investimenti del settore privato si sono ridotti dello 0,2% nella prima metà del 2023 rispetto all’anno precedente, la prima contrazione dall’inizio della raccolta dei dati ufficiali nel 2005, con l’eccezione del 2020, quando l’economia è stata colpita dalla pandemia. Nello stesso periodo, invece, gli investimenti delle imprese a controllo statale sono cresciuti dell’8,1%.
Il Financial Times fa notare che «il governo centrale cinese è uno dei meno indebitati al mondo … Se la Cina vuole sostenere la sua lunga serie di successi economici, spetta a Pechino agire». Ma l’idea di azione del Financial Times è che il governo elargisca denaro alle famiglie e “liberi” il settore privato. Ma non è di una svolta verso un’economia di mercato guidata dai consumatori che la Cina ha bisogno per far ripartire l’economia, bensì di investimenti pubblici pianificati in abitazioni, tecnologia e manifattura.
Note
[1] PMI: Purchasing Managers Index (N.d.T.).