Scribi e amanuensi del marxismo rivoluzionario del XXI secolo
La guerra in Ucraina vista attraverso le lenti deformate dell’impressionismo e dell’eclettismo
Salvatore de Lorenzo – Valerio Torre
Il conflitto armato attualmente in corso in Ucraina ha fatto emergere tutta l’impreparazione teorica, l’approssimazione analitica, l’impressionismo e l’eclettismo delle piccole sette burocratiche che si richiamano al marxismo rivoluzionario.
Si sono in particolare distinte su questo versante, le due organizzazioni denominate “Partito di alternativa comunista” e “Partito comunista dei lavoratori”, le quali hanno edificato le proprie rispettive (ma coincidenti) posizioni sulla guerra pescando a man bassa nei testi di Lenin e Trotsky argomenti e concetti poi estrapolati e isolati dal contesto dei corrispondenti scritti, in modo da poterne ricavare conclusioni del tutto difformi da quelle che i loro autori avevano invece correttamente tratto.
Così come gli scribi farisaici si approcciavano alle scritture bibliche in maniera formalistica e zelante, e come gli amanuensi medievali si limitavano a un pedissequo lavoro di copia, i “teorici” di queste due organizzazioni, facendo compiaciuto sfoggio di erudita “conoscenza” dei lavori dei due grandi rivoluzionari russi, ne hanno saccheggiato frasi isolate sì da costruire una lettura artefatta della realtà col solo scopo di giustificare le loro aberranti posizioni sul conflitto in corso: sicché, l’improprio e abusivo ricorso ai concetti di “guerra di liberazione nazionale”, “sostegno alla resistenza ucraina” e “difesa del diritto di autodeterminazione”, li ha portati dritti dritti a supportare le politiche degli imperialismi occidentali, divenendone gli alfieri “di sinistra”.
Abbiamo avuto modo di contestare siffatte opinioni in diversi articoli su questo stesso sito[1]; ma vogliamo oggi riprendere il tema perché entrambe le organizzazioni hanno basato le proprie argomentazioni tirando per la giacchetta il povero León Trotsky e la sua posizione sulla guerra sino‑giapponese: una – il Pdac – in maniera, per così dire, “organica” pubblicando sul proprio sito l’articolo “Sulla guerra sino‑giapponese. Lettera a Diego Rivera”[2] e poi costruendo intorno a questo scritto un numero della propria rivista; l’altra – il Pcl – utilizzandolo perlopiù in polemiche sui social media col ricorso in taluni casi ad offese personali contro coloro che ne criticano le posizioni, spregiativamente definiti – in puro stile salviniano – “pacifinti e pacitonti”.
I principi del marxismo di fronte alle guerre
Cosa dice il testo di Trotsky? In realtà, niente di nuovo rispetto ai principi che da Marx in poi indicano ai comunisti l’atteggiamento da tenere rispetto alle guerre. Trotsky polemizza con alcune tendenze che avevano rotto con la sua organizzazione, secondo le quali nella guerra sino‑giapponese i rivoluzionari avrebbero dovuto applicare il principio del disfattismo rivoluzionario, e quindi posizionarsi contro entrambi i Paesi in conflitto. Trotsky, invece, già a partire da una propria dichiarazione alla stampa resa pochi giorni dopo l’inizio degli scontri, aveva sostenuto che «l’esperienza passata non ci permette di nutrire soverchie illusioni sul programma sociale del maresciallo Chiang Kai‑shek. Ma se esiste al mondo una guerra giusta, è proprio la guerra del popolo cinese contro i suoi oppressori. Tutte le organizzazioni operaie, tutte le forze progressiste in Cina, senza abbandonare il loro programma né la loro indipendenza politica, devono fino alla fine compiere il loro dovere nella guerra di liberazione, indipendentemente dal loro atteggiamento rispetto al governo di Chiang Kai‑shek»[3]. Proprio per questo, Trotsky sostenne: «Parlare di “disfattismo rivoluzionario” in generale, senza distinguere tra Paese oppressore e popoli oppressi, significa fare del bolscevismo una miserabile caricatura e porre questa caricatura al servizio dell’imperialismo»[4].
Eppure, nonostante l’assenza di ogni originalità in quest’asserzione – che, lo ripetiamo, non faceva altro che riproporre i principi generali che il marxismo aveva enucleato e cristallizzato riguardo alla postura dei comunisti rispetto alle guerre (principi che esamineremo più diffusamente nel prosieguo) – i “teorici” del Pdac e del Pcl hanno sgranato gli occhi e, come i bambini che trovano una mappa del tesoro nascosta a bella posta per gioco dai nonni[5], quasi non credendo alla propria vista e tutti gongolanti hanno esclamato: “Ecco! Trotsky dixit! Se il ‘Vecchio’ fosse ancora vivo, sicuramente riproporrebbe, come nel caso della guerra sino‑giapponese, le stesse considerazioni a proposito dell’invasione russa all’Ucraina e inviterebbe a mettere in campo e sostenere la «resistenza ucraina» contro l’imperialismo di Putin per la difesa della «indipendenza» e per la «liberazione nazionale» del Paese aggredito, in nome del suo «diritto di autodeterminazione»”. E, sbandierando la lettera di Trotsky a Rivera, hanno preso a fustigare pubblicamente noialtri poveri internazionalisti che invece sosteniamo[6] che il fattore nazionale dell’attuale conflitto rappresenta soltanto una tessera di un ben più complesso mosaico di guerra fra potenze imperialiste (Usa, Nato e Ue da un lato, Russia dall’altro; ma anche Usa contro Ue: ne abbiamo parlato qui): «Vedete? – ci hanno detto – Trotsky vi dà torto. Non c’è posto per il disfattismo rivoluzionario: siete solo degli ultra‑sinistri!».
Cina come semicolonia. Ma l’Ucraina?
In realtà, quest’atteggiamento è esattamente quello degli scribi e degli amanuensi da noi richiamati nell’incipit del presente testo: cioè, proprio di coloro che si limitano a una lettura scolastica e formalistica dei testi che casualmente capitano sotto i loro occhi, fermandosi – come si suol dire – “alla prima taverna”. In altri termini, non andando oltre la veste esteriore di quanto leggono, senza esaminare i dettagli.
E già: perché Trotsky non si sarebbe mai sognato di equiparare l’invasione della Cina da parte del Giappone a quella dell’Ucraina da parte della Russia. E per un dettaglio, un piccolo (ma tutt’altro che insignificante) dettaglio che è sfuggito agli occhi foderati di pessimo prosciutto avariato di questi improvvisati scribi e amanuensi: Trotsky, infatti, è molto netto, in tutti i suoi scritti sulla guerra sino‑giapponese, nel caratterizzare la Cina dell’epoca come un Paese semicoloniale[7]. E, come in ogni caso di aggressione di un Paese coloniale o semicoloniale da parte di uno imperialista, i rivoluzionari debbono stare dalla parte di quello aggredito contro l’aggressore: nel solo campo militare, però, mantenendo invece assoluta autonomia e indipendenza politica dalla direzione borghese – e financo reazionaria – del movimento di resistenza[8].
Si tratta, come abbiamo accennato, di un principio pacifico risalente ai tempi di Marx e sviluppato e applicato dal bolscevismo di Lenin e Trotsky. Gli scribi e amanuensi del XXI secolo, invece, tentano di spacciarlo come una grande novità che serve a giustificare la loro claudicante posizione e la loro vergognosa capitolazione all’imperialismo delle potenze occidentali. In che modo? Ma è l’uovo di Colombo! Caratterizzando appunto l’Ucraina del 2022 come un Paese semicoloniale[9].
Il fatto è che una siffatta caratterizzazione è totalmente infondata alla luce dei criteri grazie ai quali Lenin distingueva fra Paesi coloniali, semicoloniali e dipendenti: criteri che i nostri scribi e amanuensi danno mostra di non conoscere affatto.
Colonie, semicolonie e Paesi dipendenti
È noto ai più, infatti, che Lenin definiva “coloniali” quei Paesi che erano soggiogati dai Paesi dominanti per via politico‑militare da una coercizione di tipo non economico che determinava l’estrazione e il trasferimento dell’eccedente dalla periferia al centro attraverso uno sfruttamento realizzato con l’imposizione mediante la forza e la violenza (manu militari). E invece definiva come “semicoloniali” quelli che, pur formalmente indipendenti da un punto di vista istituzionale – cioè dotati di un governo proprio, autonomo dal Paese dominante – erano tuttavia comunque soggetti a una relazione di ingerenza diretta esercitata da una potenza straniera (Lenin diceva «avviluppati da una rete di dipendenza finanziaria e diplomatica»[10], mentre Trotsky sosteneva che «la loro dipendenza politica […] è nascosta dietro la finzione dell’indipendenza statale»[11]).
Lenin citava come esempio evidente di Paese semicoloniale proprio la Cina che, a partire dalla sconfitta nella “Guerra dell’oppio” (1842), venne indotta a firmare, dapprima con l’Inghilterra e poi anche con altre potenze, i cosiddetti “trattati ineguali”, in virtù dei quali, grazie alla clausola della “nazione più favorita”, fu costretta a fare loro dolorose concessioni finanziarie e territoriali. Eppure, da un punto di vista istituzionale, continuava ad avere un governo formalmente indipendente e sovrano.
E infine, secondo la classificazione leniniana, oltre a quelli avanzati, c’è un altro tipo di Paesi capitalisti: quelli che abbandonano il loro status di semicolonia guadagnando la piena indipendenza, benché restino soggetti all’influenza del capitale finanziario delle potenze imperialiste. Si tratta dei Paesi “dipendenti”: dipendenti, cioè, economicamente dai Paesi più ricchi.
Quando una colonia – o una semicolonia – conquista la sua indipendenza politica e si costituisce come Stato autonomo assume la veste di «formazione sociale propria [in cui sorge] una nuova forma dell’accumulazione e riproduzione ampliata di capitale che è … bidirezionale. Da un lato si continua ad accumulare capitale per l’economia dominante (o le economie dominanti), cioè, si trasferisce alle metropoli il profitto […]. Dall’altro, deve iniziare un processo di accumulazione interna e di riproduzione ampliata di capitale che abbia come obiettivo il sostentamento e l’espansione interna della formazione sociale creata […]. Insieme all’accumulazione originaria e primitiva diretta esclusivamente all’esterno deve apparire un’accumulazione e riproduzione ampliata interna che consolidi per sempre il capitale come relazione sociale mondiale, ma, al contempo, assicuri la struttura interna della formazione sociale appena sorta»[12].
I compiti nazionali in una semicolonia
Ciò detto, è assolutamente evidente che la caratterizzazione dell’Ucraina come Paese semicoloniale ad opera dei nostri scribi e amanuensi cozza con la realtà dei fatti e costituisce una colossale sciocchezza, indice dell’approssimazione analitica e dell’impreparazione teorica da cui sono irrimediabilmente affetti[13]. Dovrebbero infatti, questi improvvisati “teorici”, dimostrare quale Paese straniero la tiene assoggettata in una relazione di ingerenza diretta e “avviluppata da una rete di dipendenza finanziaria e diplomatica”. Certamente non la Russia! Semmai, forse (se cioè fosse vero che l’Ucraina è una semicolonia), gli Usa e l’Ue che, almeno dal 2014 (ma in realtà da molto prima) ne hanno fatto il proprio grimaldello economico[14] e il proprio trampolino militare per la penetrazione ad est. Ma ciò cozzerebbe frontalmente con la tesi sostenuta da quegli stessi “teorici”.
E già! Perché secondo Lenin nei Paesi semicoloniali «esistono ancora “oggettivamente” i compiti nazionali, ossia i compiti “democratici”, la necessità di “abbattere l’oppressione straniera”»[15], e dunque questi compiti dovranno essere svolti in alleanza con i movimenti democratico‑borghesi di liberazione nazionale. Per cui, se l’Ucraina fosse davvero una semicolonia, allora alla sua popolazione incomberebbe come primo compito quello della “liberazione nazionale” (non si capisce bene da chi; ma certamente non dalla Russia, che non la tiene affatto assoggettata in una relazione di ingerenza diretta e “avviluppata da una rete di dipendenza finanziaria e diplomatica”: casomai, dalle potenze occidentali) in alleanza con i movimenti democratico‑borghesi. E quindi, se prendessimo per buona l’astrusa caratterizzazione che qui contestiamo, una volta ottenuta la liberazione nazionale in alleanza con il movimento nazionalista borghese di Zelens’kyj, l’Ucraina così “liberata” dal giogo – non già della Russia ma, per quanto appena detto, degli Stati Uniti e dei Paesi europei – passerebbe, sempre applicando ad essa la teoria di Lenin, allo status di Paese dipendente, costituendosi come Stato nazionale!!!
Ma siccome la rivendicazione di liberazione nazionale si pone quando esiste una lotta por costituirsi come nazione – dato che storicamente essa è associata alla costituzione della borghesia come classe dominante – è chiaro che ciò non può riferirsi all’Ucraina che esiste da un pezzo come Stato e con una propria borghesia nativa ben insediata.
Un po’ di teoria marxista riguardo al “problema nazionale”
Durante la fase imperiale (o proto‑imperialista) ottocentesca, quando cioè l’unica potenza che cominciava ad avere i caratteri imperialistici discussi da Lenin era l’Inghilterra, i marxisti ritenevano che le guerre di unificazione e di indipendenza nazionale avessero un carattere progressivo. Erano difatti guerre che consentivano alla borghesia della nazione in via di formazione di fare più o meno definitivamente i conti con la struttura parassitaria derivante dall’obsoleto modo feudale di produzione. Non bisogna essere dei dotti marxisti per comprendere questo aspetto della teoria marxista. Sarebbe semplicemente sufficiente effettuare una lettura, persino scolastica, del Manifesto del Partito comunista. Nell’impostazione di Marx ed Engels, queste guerre, rimuovendo i lacciuoli che consentivano l’esistenza di una miriade di staterelli, avrebbero consentito lo sviluppo delle moderne forze produttive e quindi avrebbero condotto il proletariato ad unificarsi su scala nazionale. Questo ovviamente non significa affatto che i marxisti, nell’Ottocento, parteggiassero per l’uno o l’altro degli attori borghesi alla testa di questi Stati. Al contrario. Come scrive Lenin, «[…] Marx ed Engels avevano approvato il rifiuto di Bebel e di Liebknecht di votare per i crediti di guerra, e avevano consigliato i socialdemocratici a non fondersi con la borghesia e a difendere gli interessi di classe indipendenti del proletariato»[16]. Ciò nonostante, lo stesso Lenin spiega che Marx ed Engels ritenevano progressivo il carattere di quella guerra. La ragione di fondo che motivava questa loro convinzione era una e una sola: l’unificazione della Germania avrebbe condotto all’unificazione del proletariato su scala nazionale. Questo emerge in modo chiarissimo da una lettera scritta da Marx ad Engels a proposito della guerra franco‑prussiana: «Se vincono i prussiani l’accentramento dello state power sarà utile per l’accentramento della classe operaia tedesca»[17]. Che questi argomenti fossero abbastanza scontati per i marxisti dell’epoca lo si evince anche da un ulteriore testo di Lenin in cui egli afferma, sempre a proposito della guerra franco-prussiana: «Marx non si illudeva affatto che la prossima rivoluzione (che ebbe luogo dall’alto e non dal basso, come egli si attendeva) avrebbe eliminato la borghesia e il capitalismo. Vi è la più limpida e precisa constatazione che essa avrebbe eliminato soltanto la monarchia prussiana e quella austriaca. Eppure, quanta fede in questa rivoluzione borghese! Quanta passione rivoluzionaria di combattente proletario, che comprende l’enorme importanza della rivoluzione borghese per il progresso del movimento socialista!»[18]. Benché con questa affermazione Lenin enfatizzi eccessivamente il sostegno di Marx alle rivoluzioni borghesi dell’Ottocento – probabilmente in polemica con coloro che negavano, già allora, il carattere progressivo delle guerre di indipendenza nazionale, come ad esempio Rosa Luxemburg, la quale respingeva il carattere progressivo della lotta della borghesia polacca contro l’oppressione zarista – la sostanza rimane però la stessa: indipendentemente dal fatto che Marx ed Engels sperassero, naturalmente, che nel corso di tali guerre il proletariato sarebbe stato in grado di impadronirsi del potere, essi le consideravano come dei processi di carattere progressivo in relazione al futuro sviluppo socialista della società mondiale. Poco importa, dal punto di vista dello sviluppo della teoria marxista, che tali insegnamenti siano stati falsificati innanzitutto dalla destra del Partito socialdemocratico tedesco, che opportunisticamente travisò queste considerazioni per avallare la capitolazione del partito alla guerra imperialista. Così come è ancor meno importante che alcune organizzazioni “trotskiste” attuali siano totalmente incapaci di comprendere, come vedremo, questo aspetto della teoria marxista.
Trotsky e il “problema nazionale”
Alla fine dell’Ottocento gli Stati nazionali europei avevano raggiunto un assetto più o meno definito. Ma, a livello mondiale, la costruzione degli Stati nazionali rimarrà un problema aperto ancora per i decenni successivi. Se non si comprende questo punto, si rischia di confondere la situazione dell’Ucraina di oggi con quella della Cina degli anni 30 del secolo scorso, finendo poi con l’alimentare la propaganda sciovinista dei governi imperialisti. In particolare, esistevano alla fine dell’Ottocento ancora enormi spazi di sviluppo delle forze produttive. Più specificamente, tutta l’Asia era dominata da regimi di tipo feudale. Per questa ragione le rivoluzioni e le guerre nazionali che si svilupperanno in Cina, prima negli anni 20 del Novecento e poi nella guerra sino‑giapponese, rappresentavano delle guerre progressive, stando almeno all’impostazione di Marx ed Engels. Ed è questa la ragione per cui Trotsky, nella lettera a Rivera, dandolo probabilmente quasi per scontato (ignaro cioè delle difficoltà di comprensione dei suoi più recenti epigoni) definisce “progressiva” la lotta per l’indipendenza della Cina. Quando Trotsky si schiera nel campo della Cina durante la guerra sino‑giapponese, lo fa cioè senza allontanarsi di un millimetro dalla tradizione marxista, perché la Cina, in quel periodo, era una nazione nella quale esistevano enormi potenzialità di sviluppo delle forze produttive e quindi enormi potenzialità di “accentramento della classe operaia” cinese, per dirla con Marx.
E questo appare chiarissimo dalla lettura di un altro suo testo, nascosto come polvere sotto il tappeto dai suoi epigoni, nel quale Trotsky afferma: «Se l’attuale Stato nazionale costituisse un fattore progressivo, esso dovrebbe essere difeso indipendentemente dalla sua forma politica e, beninteso, senza badare a chi ha “incominciato” la guerra per primo. È assurdo confondere la questione della funzione storica dello Stato nazionale con quella della “colpevolezza” di un dato governo. Ci si può forse rifiutare di salvare una casa abitabile soltanto perché il fuoco vi ha attecchito per l’incuria o per la mala intenzione del suo proprietario? Ma nel nostro caso si tratta precisamente di una casa costruita non per viverci, bensì semplicemente per morirvi. Affinché i popoli possano vivere è necessario radere al suolo la struttura dello stato nazionale»[19].
Dato il livello di profonda ignoranza e incomprensione che abbiamo constatato nel movimento trotskista (non solo italiano, purtroppo) siamo costretti a spiegare in modo semplice, come si fa con degli studenti particolarmente somari, quel che afferma Trotsky in questo breve paragrafo. Egli sostiene che, in assoluto, non si può escludere che, in assegnate fasi storiche la formazione di uno Stato nazionale possa costituire un fattore progressivo. Tanto è vero che, come spiega nella lettera a Rivera, Trotsky considera la formazione dello Stato nazionale cinese un fattore “progressivo”. E sostiene, di conseguenza, che, in tali specifici casi (e solo in questi specifici casi), occorre difendere quello Stato nazionale (esattamente come faceva Marx nel caso della guerra franco‑prussiana, pur continuando a criticare in maniera rigorosa il governo del “reazionario” Bismarck ed esattamente come farà poi lo stesso Trotsky, pur denunciando la natura antioperaia del Kuomintang di Chiang Kai‑shek).
Quando invece, come nell’Ucraina di oggi, lo Stato nazionale non costituisce alcun fattore progressivo (poiché non vi è ulteriore possibile sviluppo delle forze produttive) allora, dice Trotsky, lo Stato nazionale va “raso al suolo”. Abbiamo qui provato a fare lo “spelling” del pensiero di Trotsky nella speranza che qualche compagno onesto che appartiene alle organizzazioni “trotskiste” degenerate nello sciovinismo, attivi finalmente i suoi neuroni.
Va peraltro sgombrato il campo, ancora una volta, dall’assolutizzazione del principio di indipendenza nazionale assunto dagli epigoni di Trotsky sulle questioni nazionali. Per Trotsky queste ultime, già all’epoca della Seconda guerra mondiale, non possono essere risolte nell’ambito di una spartizione imperialista. La conquista dell’indipendenza nazionale costituisce, per Trotsky, solo un passaggio, una fase, dello sviluppo della rivoluzione mondiale ed è indissolubilmente legato ad essa. Su questo Trotsky è lapidario in molti dei suoi scritti. Ad esempio, nel testo già citato – “La guerre et la IVe Internationale” – scrive: «Il problema nazionale si fonde ovunque con quello sociale. Soltanto la conquista del potere da parte del proletariato mondiale può assicurare una libertà di sviluppo reale e duratura a tutte le nazioni del nostro pianeta»[20]. E se questa considerazione di Trotsky risultava valida agli albori della Seconda guerra mondiale, quando cioè esisteva ancora un enorme spazio di sviluppo dell’imperialismo mondiale, come la storia dei successivi ottant’anni ha mostrato, non è forse ancora più valida oggi, in una fase in cui la possibilità di sviluppo delle forze produttive mondiali si è praticamente ridotto al lumicino?
L’Ucraina come Paese capitalista dipendente
E dunque, come abbiamo dimostrato, l’impressionismo e l’eclettismo dei nostri scribi e amanuensi li fa finire in un vero e proprio paradossale cul‑de‑sac. Caratterizzare l’Ucraina come un Paese semicoloniale dimostra dunque tutta la loro approssimazione analitica e l’assoluta impreparazione teorica.
Contrariamente a quanto essi sostengono, invece, l’Ucraina è un tipico esempio di Paese dipendente, la cui economia capitalista non è soggetta a sfruttamento ad opera di altri Paesi, né manu militari (in quanto non è una colonia), né attraverso “una rete di dipendenza finanziaria e diplomatica” (giacché non è una semicolonia). È un Paese in cui una borghesia capitalista nativa partecipa allo sfruttamento della “propria” classe operaia in concorrenza o in associazione con i capitalisti stranieri; e allo sfruttamento di quella di altri Paesi, financo “avanzati”, quando investe in sviluppo produttivo o quando colloca le proprie plusvalenze nei circuiti finanziari internazionali.
E allora, dovrebbero spiegarci questi signori cosa ha a che vedere l’Ucraina capitalista (sia pure dipendente) del XXI secolo con la Cina semicoloniale del secolo precedente.
È chiaro allora che il riferimento agli scritti di Trotsky a proposito della guerra sino‑giapponese è assolutamente fuori luogo. Crolla così il pencolante castello malamente costruito, proprio sulla base di tali scritti, per sostenere l’esistenza di una “lotta per la liberazione e l’indipendenza nazionale” dell’Ucraina.
Infatti, a differenza dell’Ucraina dei giorni nostri – che, come abbiamo visto, è un Paese capitalista dipendente, con una borghesia nativa saldamente insediata al potere e un solido regime borghese – la Cina degli anni 30 del secolo scorso era una semicolonia in cui i problemi dell’edificazione di uno Stato moderno unificato e agrario non erano stati risolti dalla borghesia nazionalista. L’imperialismo militarista del Giappone, «l’anello più debole della catena imperialista mondiale, cerca[va] di superare il suo stato di decadenza attraverso una guerra coloniale»[21]: perciò invase la Cina.
La guerra di indipendenza cinese era progressiva …
In realtà, il conflitto sino‑giapponese era iniziato nel 1931 con l’invasione della Manciuria da parte del Giappone, ma si trasformò in vera e propria guerra nel 1937 quando quest’ultimo invase il nord e l’est della Cina. Dopo i primi due anni di conflitto, in cui Tokyo ottenne importanti conquiste militari, la guerra entrò in una fase di stallo: a fronteggiare l’esercito giapponese vi erano le truppe nazionaliste di Chiang Kai‑shek e quelle comuniste.
Il governo nazionalista borghese di Chiang Kai‑shek era sostenuto finanziariamente dalla Gran Bretagna, che aveva rilevanti interessi in Cina. Ma a fornirle aiuti militari furono anche – e per ragioni diametralmente opposte – la Germania nazista e l’Urss: la prima, per sostenere la politica anticomunista di Chiang; la seconda, per tenere impegnato l’Impero del Sol Levante nell’invasione scongiurando così un conflitto in Siberia, ma anche perché sobillando la guerra della Cina contro il Giappone sperava di aiutare indirettamente il Partito comunista cinese. Dapprima, gli Stati Uniti fornirono aiuti militari non ufficialmente, soltanto sotto forma di mercenari; solo nel 1942 il sostegno militare divenne ufficiale, con l’installazione in Cina di diverse basi.
Nel caso dell’attuale guerra in Ucraina, la posizione assunta sulla questione dell’armamento dal Pdac e dal Pcl, malamente utilizzando gli scritti di Trotsky sul conflitto sino‑giapponese, è ciò che maggiormente ripugna perché esprime la loro entusiastica capitolazione agli imperialismi statunitense ed europei: il primo, espressamente rivendicando – insieme alla sua organizzazione internazionale – che le potenze occidentali inviino armi all’Ucraina; il secondo facendolo implicitamente.
Ma, come abbiamo visto, quella in Cina era una “guerra giusta”, cioè una lotta di liberazione nazionale di un Paese semicoloniale invaso da uno imperialista che intendeva colonizzarlo del tutto.
Aveva ragione Trotsky nel considerare “progressiva” la guerra di indipendenza cinese? È lo straordinario sviluppo della Cina dagli anni 30 del secolo scorso ad oggi a dire che Trotsky aveva perfettamente ragione: dai circa 3 milioni di operai industriali del 1930 si è avuto dapprima un lento sviluppo (anche per il carattere principalmente agricolo della Cina del dopoguerra) che ha comunque innalzato sino a 14 milioni il numero di operai industriali nel 1970. Infine, nel periodo che va dal 1970 al 2010 la Cina è stata la nazione che ha conosciuto lo sviluppo delle forze produttive più elevato tra tutte le potenze mondiali, raggiungendo il numero di ben 69 milioni di operai industriali (+384% rispetto al 1970)[22].
Negava forse Trotsky che vi fosse una contesa imperialistica mondiale negli anni 30 del Novecento? Assolutamente no. Trotsky era perfettamente conscio dell’inasprimento della contesa imperialista e della ineluttabile tendenza, da parte delle potenze imperialistiche che si erano scontrate durante la Prima guerra mondiale, a una nuova contesa bellica. Il fatto che la guerra sino‑giapponese sia avvenuta qualche anno prima della Seconda guerra mondiale è un dettaglio assolutamente irrilevante. Pur rientrando nella contesa imperialistica mondiale, come tutto quello che si verifica sul nostro pianeta a partire dagli inizi del Novecento quando il capitalismo entra nella sua “fase suprema” di imperialismo, la guerra sino‑giapponese coinvolgeva uno Stato nazionale in via di formazione con straordinarie possibilità di sviluppo delle forze produttive. Esattamente come era accaduto negli anni 60 dell’Ottocento durante le guerre prussiane. Nonostante Chiang Kai‑shek fosse un dirigente borghese sanguinario (e fu proprio Trotsky a denunciare la capitolazione dello stalinismo alla borghesia capeggiata dal Kuomintang), la lotta di unificazione e indipendenza nazionale della Cina aveva cioè un carattere progressivo. E perché, Bismarck era forse un marxista rivoluzionario? Il conflitto sino‑giapponese, parte della più ampia contesa imperialistica mondiale, se vinto dalla Cina, avrebbe difatti consentito l’unificazione del proletariato cinese su scala nazionale e la distruzione di tutti i residui rapporti feudali di proprietà esistenti allora in Cina. Nella lettera a Rivera scrive difatti Trotsky: «La vittoria del Giappone significherebbe la schiavitù della Cina, la fine del suo sviluppo economico e sociale, e un enorme rafforzamento dell’imperialismo giapponese». La sconfitta dell’Ucraina significherebbe forse oggi la fine del suo sviluppo economico? Niente affatto. Lo sviluppo economico dell’Ucraina è già sostanzialmente finito (e non da oggi), poiché l’Ucraina, così come la Grecia (solo per fare un esempio attuale particolarmente noto) e tutti gli altri Paesi dipendenti dall’imperialismo, sono rigidamente assoggettati alla divisione internazionale del lavoro imposta dall’attuale spartizione imperialista del pianeta. E il fatto che non esistano ulteriori significativi sviluppi delle forze produttive nella gran parte degli Stati nazionali mondiali, Ucraina inclusa, lo si desume dall’analisi dell’economia mondiale, che conduce tutti i principali economisti marxisti ad affermare che l’economia capitalistica si sia avvitata in una crisi strutturale da almeno quindici anni[23].
Non si verificherà dunque alcuno sviluppo delle forze produttive in Ucraina se vincerà Zelens’kyj, semplicemente perché, attraverso il finanziamento del debito, l’Ucraina è tenuta al guinzaglio dal Fmi e dalla Bce, esattamente come la Grecia e tutti gli Stati assoggettati all’imperialismo. Dunque l’Ucraina potrà conoscere un ulteriore (e armonico) sviluppo delle sue forze produttive solo nel quadro di una rivoluzione socialista mondiale. Ecco perché l’Ucraina, non avendo alcuna funzione progressiva come Stato nazionale, rientra in quegli Stati nazionali che Trotsky proponeva di radere al suolo.
… quella in Ucraina, invece, è una proxy war
E invece il conflitto che si svolge oggi in Ucraina solo apparentemente vede confrontarsi quest’ultima e la Russia. Come infatti abbiamo ampiamente dimostrato negli articoli richiamati alla nota 1, il Paese aggredito è soltanto il terreno di scontro fra la Russia e il blocco Usa‑Nato‑Ue. La guerra che si sta combattendo – hanno voglia di negarlo i nostri scribi e amanuensi! – è una guerra interimperialista per procura, una proxy war[24], e non c’è nessuna lotta per l’indipendenza, nessuna guerra di liberazione nazionale da sostenere rivendicando l’invio di armi.
Inoltre, uno degli aspetti che produce le maggiori perplessità nella lettura dei documenti degli epigoni di Trotsky è la loro costante sottovalutazione del ruolo criminale degli Stati Uniti nell’accelerazione del conflitto attuale. Nelle analisi degli epigoni l’enfasi è esclusivamente rivolta alla presunta megalomania di Putin (interi articoli sono dedicati allo sciovinismo grande‑russo, che certo è solo una delle componenti di un quadro molto più complesso), tralasciando puntualmente le trentennali provocazioni condotte dalle diverse amministrazioni americane nell’est europeo e l’annessione, nella sfera di influenza dell’imperialismo atlantico, di Stati che erano politicamente ed economicamente legati all’Urss sino al 1991. A differenza dei suoi epigoni, al contrario, Trotsky, quasi in maniera profetica, già nel 1924 individuava, con una precisione chirurgica quelle che sarebbero state le principali direttrici di sviluppo dell’imperialismo mondiale. Arrivando a pronosticare, già da allora, il futuro ruolo di dominatore dell’ordine mondiale degli Stati Uniti d’America.
Scrive Trotsky:
«Che cosa vuole il capitale americano? A cosa tende? Esso cerca, si dice, la stabilità. Vuole ristabilire il mercato europeo nel suo interesse, vuole restituire all’Europa la sua capacità di acquisto. In che modo? Con quali limitazioni? In realtà, il capitale americano non può volersi creare un concorrente nell’Europa. Esso non può ammettere che l’Inghilterra e, a maggior ragione, la Germania e la Francia, recuperino i loro mercati mondiali, perché esso stesso vi sta stretto, poiché esporta prodotto ed esporta se stesso. Esso mira al dominio del mondo, vuole instaurare la supremazia dell’America sul nostro pianeta. Che cosa deve fare verso l’Europa? Deve pacificarla, dice. Come? Sotto la sua egemonia. Che cosa significa? Che esso deve permettere all’Europa di risollevarsi, ma entro limiti ben determinati, accordarle settori determinati, ristretti del mercato mondiale. Il capitale americano ora comanda ai diplomatici. Si prepara a comandare anche alle banche e ai trust europei, a tutta la borghesia europea. A questo tende»[25].
Già nel 1924, dunque, Trotsky comprende che di lì a breve saranno gli Stati Uniti ad assurgere al ruolo di dominatori del pianeta e ad imporre le loro regole per il mantenimento dell’ordine mondiale. Ma non solo. Nello stesso articolo egli scorge la futura e principale meta degli interessi strategici degli Usa: la Cina. Scrive difatti: «Gli Stati Uniti sono attirati principalmente dalla Cina, che ha una popolazione di 400 milioni di abitanti e incalcolabili ricchezze. Attraverso il canale di Panama, la loro industria si apre una via verso l’Occidente che consente di risparmiare parecchie migliaia di chilometri»[26]. In pratica, già nel 1924, il grande rivoluzionario aveva individuato il principale obiettivo – cioè la Cina – dei futuri interessi strategici degli Stati Uniti.
Sul tema dell’armamento
A proposito della rivendicazione dell’armamento per l’Ucraina, a parte la più volte richiamata differenza con la situazione del conflitto sino‑giapponese, occorre osservare che non fu casuale l’adozione, da parte del Comitato Esecutivo della Quarta Internazionale di una risoluzione sull’intervento degli Stati Uniti in Cina[27], la quale riproponeva i principi generali che debbono guidare i marxisti di fronte a una guerra imperialista contro un Paese coloniale o semicoloniale. Detta risoluzione presenta alcune importanti precisazioni che dovrebbero far vergognare i nostri scribi e amanuensi di avere solo pensato di giustapporre il conflitto sino‑giapponese all’attuale guerra in Ucraina. Ci piace, perciò, riportarne alcuni significativi passaggi:
«La borghesia nazionale […] non può condurre una lotta vittoriosa contro una sola potenza imperialista, il Giappone, per cui neppure può lottare coerentemente per liberare la Cina dalla dominazione straniera. La sua lotta contro una potenza imperialista non fa altro che dislocarla nell’orbita di un’altra potenza. […] Il fatto che oggi Chiang Kai‑shek si veda obbligato a svoltare sempre più verso l’imperialismo nordamericano (e britannico), preparando così una nuova oppressione per la Cina, è la conseguenza diretta del timore da parte della borghesia nazionale rispetto al proprio popolo e della sua incapacità di mobilitare le forze rivoluzionarie della nazione contro l’invasore giapponese. […] Washington progetta di vincere in guerra contro il Giappone, espellere gli imperialisti giapponesi dalla Cina ed esercitare la sua sovranità sul popolo cinese. I preparativi in questa direzione vanno riscontrati […] nel crescente “aiuto” concesso a Chiang Kai‑shek sotto forma di prestiti e forniture militari. Anche se si riconoscesse la necessità della Cina di accettare l’aiuto materiale nordamericano nella guerra contro il Giappone, i rivoluzionari non possono ignorare il pericolo che ciò nasconde. Debbono combattere l’idea che l’imperialismo nordamericano agisce per magnanimità verso la Cina e spiegare alle ampie masse il vero motivo di quest’aiuto, cioè la preparazione di una nuova schiavitù per domani. Se gli imperialisti “amici” pretendono che il loro aiuto venga pagato con diritti economici preferenziali, concessioni, basi militari, ecc., i rivoluzionari debbono opporsi a queste transazioni che, in ultima istanza, significheranno per la Cina la sostituzione di un imperialismo con un altro pagando questo cambio col sangue delle masse cinesi. Se la borghesia porta a termine queste transazioni, i rivoluzionari devono denunciarle come un tradimento alla lotta della Cina per la sua emancipazione».
Riteniamo che questo approccio, e soprattutto quest’ultima affermazione, siano profondamente diversi dalla richiesta al governo italiano di fornire armamenti efficaci alla borghesia ucraina capeggiata da Zelens’kyj, formulata dal principale dirigente del Pdac in un video su Youtube. Persino in una guerra progressiva, come era quella della Cina, i rivoluzionari rifiutavano ogni sostegno dell’imperialismo che potesse rappresentare un pegno per il futuro. In Ucraina, dove non vi è alcuna guerra progressiva, la prospettiva di un ingresso nella Ue e nella Nato, esplicitata più volte dai governi imperialisti e da Zelens’kyj in dichiarazioni pubbliche e con l’appoggio dei trotskisti italiani, indica al contrario il destino già segnato dell’Ucraina alla fine di una eventuale guerra vittoriosa: l’annessione definitiva all’imperialismo atlantico.
E, pur pronunciandosi – coerentemente con i principi del marxismo rivoluzionario – per la difesa militare della Cina «nonostante e contro la borghesia cinese», la risoluzione prosegue:
«I rivoluzionari debbono spiegare alle masse cinesi che l’alleanza della loro borghesia nazionale con l’imperialismo nordamericano è l’inevitabile conseguenza della direzione reazionaria data da Chiang Kai‑shek alla guerra contro il Giappone; debbono spiegare che la sconfitta di ogni movimento indipendente a favore di riforme sociali e, quindi, l’alleanza con Washington sono due aspetti della stessa politica. […] Alla politica reazionaria di Chiang Kai‑shek opporranno il programma di una guerra rivoluzionaria basata su drastici cambiamenti sociali (terra ai contadini, controllo operaio della produzione, ecc.)».
Sfidiamo chiunque a cercare nelle dichiarazioni del Pdac e del Pcl – ripetiamo, sempre considerando l’enorme differenza tra la Cina di allora e l’Ucraina di oggi – un qualsiasi riferimento a una politica militare rivoluzionaria come quella descritta in questa risoluzione. Ovviamente, la ricerca sarebbe senza esito, perché dietro qualche frase di circostanza le due organizzazioni sono schiacciate sulle posizioni degli imperialismi occidentali di cui sono ormai diventate gli alfieri “di sinistra”.
E, prosegue la risoluzione:
«Se l’esercito cinese si mostra incapace, perfino con un aiuto nordamericano di gran lunga aumentato, di espellere rapidamente l’invasore giapponese, gli imperialisti nordamericani cercheranno di sbarcare con le loro truppe in Cina impossessandosi della sua lotta contro il Giappone, creando un comando unico sotto il proprio controllo. Il dovere dei rivoluzionari cinesi sarà di opporsi alla subordinazione delle operazioni militari cinesi alla strategia e agli obiettivi militari dell’imperialismo nordamericano. Inoltre, la Cina non ha bisogno di braccia supplementari per cacciare l’invasore giapponese. Conseguentemente, i rivoluzionari cinesi debbono condannare lo sbarco di forze armate nordamericane in Cina in quanto impresa puramente imperialista e debbono mobilitare le masse cinesi per opporvisi. In questa lotta devono ricevere l’appoggio dei rivoluzionari negli Usa, i quali dovranno opporsi con forza all’invio di forze armate nordamericane in Cina esigendo il ritiro di quelle che già vi si trovino. Se saranno inviate forze armate nordamericane, i rivoluzionari dovranno sforzarsi di unire i soldati cinesi e nordamericani contro gli imperialisti reazionari e i loro alleati borghesi cinesi».
Quanta e quale differenza con gli attuali sbiaditi epigoni, ormai passati sul carro dell’imperialismo!
Le condizioni per una vera politica militare rivoluzionaria
C’è un ulteriore aspetto che dimenticano o tacciono gli epigoni di Trotsky. Nei casi in cui non esista un partito operaio con influenza di massa (come invece esisteva in Cina all’epoca della guerra sino‑giapponese) i marxisti, come spiegava Engels in una lettera a Turati del 26 gennaio 1894, hanno come imperativo morale categorico quello di evitare rigorosamente di mandare i proletari a morire nelle guerre tra briganti borghesi. Indicare al proletariato ucraino, che ad oggi non ha una sua organizzazione indipendente in grado di dirigere le lotte operaie, la strada del sostegno alla borghesia imperialista, trasforma gli epigoni di Trotsky in spregevoli avventuristi, molto simili a quegli anarchici che, guidati da quell’“asino” di Bakunin (secondo una definizione di Marx) andavano provocando insurrezioni artificiali in giro per la Francia, subito dopo la sconfitta di Napoleone nella guerra franco‑prussiana.
Va infatti rimarcato che la politica militare rivoluzionaria elaborata per la Cina di allora si basava sulla presenza al fronte di un Partito comunista di massa, ben insediato nel proletariato e con truppe armate a contrastare sia l’esercito giapponese che quello nazionalista borghese di Chiang Kai‑shek. Dove sarebbero a questo riguardo le coincidenze con l’Ucraina del XXI secolo?
Né va dimenticato che, come segnalava la risoluzione adottata al Congresso di fondazione della Quarta Internazionale[28], «un sostegno rivoluzionario alla lotta della Cina non significa … che i rivoluzionari debbano fornire una copertura al fallito regime del Kuomintang e alla borghesia cinese. E neppure significa fare appello ai governi “democratici” imperialisti affinché intervengano contro il Giappone e salvino la Cina, né tampoco prestare aiuto a questi governi se essi intervengono contro il Giappone e nel corso di quest’intervento. Questa è la linea di condotta dei traditori stalinisti».
Mai avrebbero immaginato i fondatori della Quarta Internazionale che, poco più di ottant’anni dopo, coloro che vorrebbero rifondarla avrebbero fatto proprio il contrario di quanto prescritto in questa risoluzione.
Note
[1] Ad esempio, in quelli raccolti in questa sezione; e, in particolare, in questo.
[2] In realtà, questo testo (del 23 settembre 1937) è stato pubblicato nelle opere di Trotsky in francese con il titolo “Les ultra‑gauchistes et la guerre en Chine” (Œuvres, vol. 15, Institut Léon Trotsky, 1983, pp. 67 e ss.) e consiste in una lettera che Trotsky scrisse in francese al pittore messicano Diego Rivera.
[3] “Japon et Chine”, 30 luglio 1937, in Œuvres, cit., vol. 14, pp. 216‑217.
[4] “Les ultra‑gauchistes et la guerre en Chine”, cit., p. 68.
[5] Ma di un tesoro che in realtà non esiste, appunto perché la mappa fa parte solo di un gioco.
[6] Ne abbiamo parlato in quest’articolo.
[7] Si pensi, ad esempio, agli scritti “Discussion sur la question chinoise”, 11 agosto 1937; “La lutte contre la guerre, 25 settembre 1937; “Réponse a des questions”, 1° ottobre 1937 (tutti in Œuvres, cit., 1979, vol. 14, pp. 260 e ss.; vol. 15, pp. 75 e ss.; pp. 115 e ss.). Ma già in precedenza egli si era pronunciato negli stessi termini (“La rivoluzione cinese e le tesi del compagno Stalin”, 7 maggio 1927, in I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali (1924‑1940), Einaudi editore, 1970, pp. 121 e ss.; “Progetto di programma dell’Internazionale comunista”, cap. III, “Bilancio e prospettive della rivoluzione cinese”, giugno 1928, in La Terza Internazionale dopo Lenin, Schwarz editore, 1957, pp. 183 e ss.).
[8] Un ragionamento che Trotsky sviluppò, ad esempio, nel caso dell’aggressione militare del fascismo italiano all’Etiopia governata da Hailé Selassié, evidenziando il carattere antimperialista della lotta armata del Paese aggredito e dichiarandosi a favore della vittoria militare dell’Etiopia sull’Italia, quest’ultima non in quanto fascista ma perché imperialista (“Le conflit italo‑éthiopien”, 17 luglio 1935, in Œuvres, cit., 1979, vol. 6, p. 51); e che ripropose, sia pure in via ipotetica, nel caso in cui l’Inghilterra “democratica” avesse invaso il Brasile semifascista di Vargas (“Guerre nazionali e guerre imperialiste”, 23 settembre 1938, in I problemi della Rivoluzione cinese, cit., p. 590).
[9] «Partiamo da una premessa: neutralità è un concetto molto diverso da quello del disfattismo bilaterale, che comunque non riteniamo corretto nel caso, come questo, di un’aggressione di una Grande Potenza contro un Paese dipendente, nei fatti semi‑coloniale» (“Una guerra di liberazione nazionale contro tutti”, 29 giugno 2022). Analoga caratterizzazione si ricava da “Lenin e l’Ucraina. La questione nazionale e la guerra”, 20 marzo 2022.
[10] V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Edizioni La Città del Sole, 2001, p. 101.
[11] L. Trotsky, “Rivoluzione e guerra in Cina”, 5 febbraio 1938, Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso, n. 18, aprile 1990, p. 17.
[12] H.R. Sonntag, “Hacia una teoría política del capitalismo periférico”, in Problemas del Desarrollo, vol. 5, n. 19, agosto‑ottobre 1974, p. 33.
[13] Peraltro, nell’articolo “Una guerra di liberazione nazionale contro tutti”, citato nella precedente nota 9, si aggiunge ulteriore confusione col sostenere che l’Ucraina sarebbe, al contempo, sia un Paese dipendente che semicoloniale. Per quanto sosteneva Lenin, come abbiamo appena dimostrato, ciò è impossibile perché l’una caratteristica esclude l’altra. Ora, noi non siamo soliti invocare il “principio di autorità”, secondo il quale “lo ha detto Lenin”, ma ci limitiamo a dichiararci di d’accordo con lui. Se invece l’autore dell’articolo ora richiamato è convinto che un Paese possa essere allo stesso tempo sia dipendente che semicoloniale, non gli resta che dimostrarlo con solidi argomenti!
[14] È utile, al riguardo, la riflessione del noto economista marxista Michael Roberts nel testo “Ukraine: the invasion of capital”, 13 agosto 2022, The Next Recession, a cui rinviamo.
[15] V.I. Lenin, “Intorno a una caricatura del marxismo e all’«economismo imperialistico»”, Opere, vol. 23, Edizioni Lotta comunista, 2002, p. 57.
[16] V.I. Lenin, “Il socialismo e la guerra”, Opere, vol. 21, Edizioni Lotta comunista, 2002, p. 57.
[17] B. Nikolaevskij, O. Maenchen‑Helfen, Karl Marx. La vita e l’opera, Giulio Einaudi Editore, 1969, p. 340.
[18] V.I. Lenin, “Prefazione alla traduzione russa delle lettere di Marx a Kugelmann”, 1907, in K. Marx, La guerra civile in Francia, 1871, Edizioni Lotta comunista, 2007, p. 124.
[19] L. Trotsky, “La guerre et la IVe Internationale”, 10 giugno 1934, Œuvres, vol. 4, Institut Léon Trotsky, p 55.
[20] Ivi, p. 57.
[21] “Résolution sur la lutte des classes et la Guerre en Extrême Orient”, settembre 1938 (Congresso di fondazione della Quarta Internazionale), R. Prager (a cura di), Les congrès de la Quatrième Internationale, vol. 1, Éditions La Bréche, 1978, p. 254.
[22] “Industrial Development Report 2013”, UNIDO, 2013.
[23] M. Roberts, “Will global inflation subside?”, The Next Recession, 21 agosto 2022.
[24] Si veda anche “Nuovi armamenti e addestramento Usa‑Nato per un’Ucraina potenza militare”, RemoContro, 29 agosto 2022. Ancor più significativamente, il Wall Street Journal (24 agosto 1922) riferisce che Washington, a riprova del fatto che questa è la sua guerra, ha deciso di “dare un nome” alla missione militare in Ucraina come fu per quelle ben note in Iraq e Afghanistan (Enduring Freedom e Freedom’s Sentinel).
[25] L. Trotsky, “Le prospettive dell’evoluzione mondiale”, 28 luglio 1924, Europa e America, Celuc Libri, 1980, p. 43.
[26] Ivi, p. 40.
[27] “Résolution: L’intervention américaine en Chine”, 31 marzo 1941, R. Prager (a cura di), Les congrès de la Quatrième Internationale, cit., vol. 2, pp. 44 e ss.
[28] “Résolution sur la lutte des classes et la Guerre en Extrême Orient”, cit., p. 276.