Ucraina: la guerra interimperialista disvelata
Valerio Torre
La riduzione del tema della guerra in Ucraina a una pretesa “questione nazionale”, a un presunto “diritto di autodeterminazione”, a una supposta “guerra di liberazione” e al sostegno in armi alla “resistenza ucraina”, rappresenta ormai il sudario nel quale la grande maggioranza delle piccole organizzazioni italiane che si richiamano al trotskismo si è avvolta. E questo sudario ha i colori giallo e azzurro della bandiera ucraina, mentre la bandiera rossa dell’internazionalismo proletario giace per terra, calpestata dagli stivali militari delle truppe imperialiste in cui esse si sono oscenamente arruolate.
L’antimperialismo è, in alcuni casi, totalmente obliterato; in altri, pallidamente evocato in guisa di patina di zucchero a velo per avvolgere la polpetta avvelenata della rivendicazione, rivolta al proprio governo imperialista, dell’invio di armi all’Ucraina.
Le opere dei grandi rivoluzionari marxisti vengono saccheggiate e manipolate allo scopo di estrapolarne brani che, mescolati insieme fuori contesto, servono a fornire una base “teorica” a queste ignobili posizioni[1].
Gli articoli prodotti e i post scritti sui social appaiono un laboratorio di metrologia[2], in cui viene misurato il “tasso di nazifascismo” di Ucraina e Russia; e il risultato ottenuto diventa l’argomento principe per contrastare la tesi avversa, in una gara – ci si perdoni il doppio senso – “a chi ce l’ha più lungo” (il fascista). Sicché, chi ritiene che sia preponderante il fascismo ucraino finisce per giustificare (anche al di là delle proprie intenzioni) la guerra scatenata da Putin; chi invece pensa il contrario lo fa esattamente per sostenere Zelens’kyj e i suoi sponsor internazionali.
Si organizzano – residuo ricorso a uno strumento insperatamente offerto dalla tecnologia per autoaffermare la propria esistenza – “assemblee online” da parte di gruppetti ormai meno partecipati di una riunione condominiale, in cui un chierico dal tono salmodiante racconta ai suoi dodici apostoli che la “valorosa resistenza” ucraina si ispira alla resistenza italiana del 1943‑1945: anzi, che ne è proprio la diretta emanazione.
Si vagheggia l’esistenza di milizie operaie resistenti cadendo come sempliciotti nella propaganda dei mass‑media borghesi che ci hanno mostrato immagini di donne intente a strappare indumenti per intrecciare col tessuto reti mimetiche o arzille vecchiette accumulare recipienti di vetro per preparare bottiglie molotov, quando invece i danni inferti all’esercito occupante sono dovuti ad armi tecnologicamente avanzate fornite da Usa, Nato e Ue al governo Zelens’kyj, e non già a fantomatiche milizie popolari.
O mondiale … o nulla
V’è poi chi, imperterrito, pur di continuare a sostenere la tesi infondata del “diritto di autodeterminazione” del popolo ucraino, nega il carattere interimperialista della guerra in corso. E lo fa con un argomento che rappresenta un falso storico: cioè che, se così fosse, ci troveremmo dritti dritti nella Terza guerra mondiale. Perché – si afferma spudoratamente – solo se è mondiale una guerra è interimperialista.
Quest’asserzione è, appunto, destituita di ogni fondamento storico. Già qualcuno ha fatto opportunamente notare che furono guerre interimperialiste – e nondimeno per nulla mondiali – quella ispano‑americana del 1898 (fra un imperialismo ormai morente e uno che iniziava ad affermarsi) e quella russo‑giapponese del 1904‑1905 (fra l’imperialismo zarista, «brutale, medioevale, economicamente arretrato, militare e burocratico»[3] e quello iper‑militarista del Sol Levante).
Ma ci sono molti altri esempi storici che sconfessano clamorosamente questa inconsistente argomentazione.
Il 2 agosto 1914, nella fase iniziale di quella che sarebbe poi diventata la Prima guerra mondiale (ma che quel 2 agosto non era affatto tale), la Germania pretese di far passare le proprie truppe attraverso il territorio del Belgio per potere così attaccare la Francia da nord. Il Belgio, sentendosi al sicuro in virtù del Trattato di Londra del 1839 che ne garantiva la neutralità, si rifiutò. La Germania, sprezzantemente, definì quel trattato “un pezzo di carta” e solo due giorni dopo invase il Belgio.
Le truppe tedesche commisero grandi atrocità ai danni della popolazione civile, tanto che l’invasione fu definita lo “stupro del Belgio”. E, nonostante la schiacciante superiorità militare, i tedeschi dovettero combattere fino al 20 agosto per riuscire a giungere a Bruxelles, da dove iniziarono il conflitto con la Francia.
A quell’epoca, il Belgio era considerato uno Stato imperialista, una piccola potenza coloniale: di secondo livello certamente, ma comunque imperialista.
I socialisti rivoluzionari dell’epoca condannarono fermamente l’invasione tedesca e la violazione della sovranità del Belgio, ma si rifiutarono di aderire alla campagna di sostegno propagandistico in favore del “piccolo Belgio” condotta dalle potenze dell’Intesa (Impero britannico, Francia e Impero russo) e, soprattutto, non parteciparono a nessuna campagna per il sostegno militare al Belgio invaso. E quando i socialisti belgi entrarono nel governo “di unità nazionale”, condannarono questo gesto come un tradimento dei principi del socialismo.
Questo è dunque un esempio di guerra interimperialista che però non era affatto mondiale.
Se ne vuole un altro?
Il 29 settembre 1938, quando il secondo conflitto mondiale non era ancora scoppiato, Hitler, con la minaccia della guerra, ottenne da Francia e Inghilterra il via libera per l’annessione della regione cecoslovacca dei Sudeti. Vennero firmati gli Accordi di Monaco tra Daladier, Chamberlain, Mussolini e lo stesso Hitler. Il governo cecoslovacco, né interpellato, né invitato al tavolo negoziale, fu costretto a capitolare.
Vediamo cosa scrisse Trotsky in proposito:
«Durante la critica settimana di settembre, secondo le informazioni in nostro possesso, si sono levate delle voci, anche dalle file della sinistra del socialismo, per sostenere che in caso di uno “scontro isolato” tra la Cecoslovacchia e la Germania, il proletariato avrebbe dovuto aiutare la Cecoslovacchia a salvare la propria “indipendenza nazionale” anche a prezzo di un’alleanza con Beneš[4]. Questa ipotesi non si è realizzata: come ci si doveva aspettare, gli eroi dell’indipendenza cecoslovacca hanno capitolato senza combattere. Non possiamo però – date le implicazioni per l’avvenire – non sottolineare qui l’errore assai grossolano e pericoloso commesso dai teorici intempestivi della “indipendenza nazionale”. Anche prescindendo dai suoi legami internazionali, la Cecoslovacchia è senz’altro uno Stato imperialista. Economicamente vi domina il capitale monopolistico. Politicamente, la borghesia ceca domina […] varie nazionalità oppresse. Una guerra anche da parte di una Cecoslovacchia isolata sarebbe stata condotta non per l’indipendenza nazionale, ma per il mantenimento e, se possibile, per l’allargamento dei confini dello sfruttamento imperialistico»[5].
L’esempio, in questo caso, è a negativo: cioè, se pure fosse scoppiata, la guerra ceco‑tedesca sarebbe stata interimperialista, ma non necessariamente mondiale[6].
La guerra per procura dalla viva voce dell’imperialismo
Un altro argomento utilizzato per non dover ammettere il carattere interimperialista del conflitto in Ucraina è quello di negare che quella che lì si svolge sia una “guerra per procura”[7]: eliminando dall’analisi il quadro generale delle politiche che l’hanno preceduta e condizionata e l’esame della natura sostanziale delle forze sociali che le fanno da sfondo[8], lo scontro resta confinato sul terreno di un solo Paese e si limita a un aggressore e un aggredito. Et voilà, il gioco è fatto: non c’è nessuna guerra interimperialista per procura, ma una guerra di difesa nazionale e per l’affermazione del diritto di autodeterminazione, in cui opera una “resistenza” popolare che perciò deve essere sostenuta militarmente. Che sofisma ben congegnato!
Vogliamo dare un consiglio spassionato ai compagni che sostengono ciò: lascino da parte i testi di Lenin e Trotsky se devono male interpretarli o, peggio, dolosamente manipolarli, e prestino invece ascolto alla diretta voce dell’imperialismo. Troveranno conforto, ad esempio, nella pubblica dichiarazione del deputato statunitense Seth Moulton, ex marine che ha combattuto in Iraq e che oggi siede come deputato democratico alla Camera dei Rappresentanti[9], il quale ha senza peli sulla lingua affermato: «Non siamo in guerra solo per sostenere gli ucraini. Fondamentalmente siamo in guerra, anche se un po’ per procura (through a proxy), con la Russia, ed è importante vincere».
“We’re not just at war to support the Ukrainians. We’re fundamentally at war, although somewhat through a proxy, with Russia, and it’s important that we win.” — Rep. Seth Moulton, D‑Mass. pic.twitter.com/kqBOorlbyl
— Ryan Grim (@ryangrim) May 7, 2022
Oppure, si rifacciano gli occhi leggendo l’editoriale per Fox News dello stesso Moulton, secondo cui «è iniziato un nuovo e più pericoloso periodo di guerra per una moderna e grande strategia», in cui si sta delineando «un nuovo ordine mondiale», e che quella all’ordine del giorno è «una battaglia […] di governance: democrazia contro autocrazia. È lo Stato di diritto contro i tiranni. Queste sono le linee di battaglia tra NATO e Russia, tra America e Cina». E, se tutto ciò non fosse già abbastanza chiaro, «la nostra nuova grande strategia dovrebbe basarsi su tre principi: supremazia militare per una nuova era di guerra; nuovi trattati sul controllo degli armamenti in modo che noi e i nostri alleati stabiliamo le regole; e nuove alleanze per contrastare una nuova generazione di nemici. E mentre il contenimento è stato sufficiente per la Guerra Fredda, la Guerra Calda[10] richiede misure più attive. Per troppo tempo, abbiamo giocato solo in difesa mentre Xi [Jinping] e Putin lavorano per minare l’ordine del secondo dopoguerra. È tempo per noi di indebolirli».
O ancora, provino a consultare la stampa ucraina, che ci rivela tranquillamente che dopo il viaggio a Kiev del primo ministro britannico Boris Johnson la possibilità di un incontro tra Putin e Zelens’kyj è semplicemente saltata, perché – come riporta Ukrainska Pravda citando fonti vicine al governo – Johnson ha riferito a quest’ultimo che, se anche egli avesse voluto raggiungere un’intesa con la Russia, l’Occidente non sarebbe stato d’accordo sentendosi impegnato nel continuare lo scontro con Mosca.
Be’ sì, è proprio una “guerra di liberazione nazionale”. Vero?
Due classi …
È chiaro che non ci muove un interesse accademico se insistiamo in questa polemica. Siamo ben consapevoli che la prassi che una forza politica mette in campo deriva dalla caratterizzazione in un senso o nell’altro di un fenomeno o di un processo. Ed è evidente che la differente analisi dei sostenitori della “guerra di liberazione nazionale” e del “diritto di autodeterminazione” comporta come conseguenza il sostegno alla “resistenza”.
Noi siamo convinti che si tratti di una politica concreta erronea che deriva da una caratterizzazione altrettanto erronea e che è destinata ad ulteriormente aggravare il già disastrato campo di chi crede nella necessità del socialismo. Non siamo fideisti credenti nella “verità” dei sondaggi, ma se – come pare dai numeri – la stragrande maggioranza degli italiani, nonostante la massiccia operazione ideologica dei mezzi di comunicazione, crede necessario un accordo di pace, manifesta un profondo dissenso rispetto alle sanzioni perché ne percepisce la ricaduta sulle classi lavoratrici ed è inoltre contraria all’invio di armi in Ucraina, è chiaro che chi sostiene le folli posizioni che stiamo criticando si pone contro un sentimento popolare che invece dovrebbe essere coltivato, fatto maturare, reso consapevole e indirizzato contro i veri responsabili di ciò che sta accadendo in Ucraina.
E se è vero – come è vero – che le borghesie europee, messe di fronte alle pesanti conseguenze negative di quelle stesse sanzioni sulle proprie economie, stanno cominciando a percepire che un sia pur confuso malcontento sta germogliando nelle viscere della società, e tentano timidamente di attenuarne gli effetti cercando di convincere il loro potente padrone statunitense della necessità di smussare gli angoli per il timore che il quadro sociale possa “destabilizzarsi” (perché in fondo è proprio così che si crea il brodo di coltura delle rivoluzioni), quale legittimità potrebbero avere quelle piccole organizzazioni a rivolgersi ad un’eventuale popolazione in rivolta? Direbbero forse “noi che abbiamo preteso dall’imperialismo che vi sta affamando l’invio delle armi che hanno prodotto la situazione contro cui oggi vi state ribellando, ora vi diciamo «cacciate via quel governo imperialista»”? Crediamo proprio che i loro dirigenti verrebbero giustamente presi a pedate nel fondoschiena e buttati fuori dalle manifestazioni.
Perché aveva ragione il soldato russo così efficacemente tratteggiato da John Reed nel suo libro I dieci giorni che sconvolsero il mondo: «Ci sono solo due classi. E chi sceglie di stare con una è nemico dell’altra».
Note
[1] Solo a mo’ d’esempio, richiamiamo qui e qui due nostri precedenti scritti.
[2] La metrologia è la branca della scienza che si occupa delle misurazioni in ogni campo.
[3] V.I. Lenin, “Risultati della discussione sull’autodecisione”, in Opere, vol. 22, Edizioni Lotta comunista, p. 356.
[4] Edvard Beneš era il presidente della Cecoslovacchia e si dimise dopo gli Accordi di Monaco. Ricostituì a Londra il governo cecoslovacco in esilio l’anno successivo (NdA).
[5] L. Trotsky, “Dopo la ‘pace’ imperialista di Monaco”, in Guerra e rivoluzione, Arnoldo Mondadori Editore, 1973, pp. 30‑31.
[6] Trotsky ipotizzò che verosimilmente si sarebbe potuto produrre dopo un certo tempo un allargamento del conflitto su base europea. Dialetticamente, però, riteneva che un’eventuale guerra tra Cecoslovacchia e Germania avrebbe dovuto essere inquadrata nel «contesto dei rapporti imperialistici europei e mondiali, da cui avrebbe tratto origine come un episodio» (Ibidem). Ma questo, ovviamente, è cosa ben diversa dall’affermare che una guerra interimperialista è tale solo se è mondiale.
[7] Noi avevamo utilizzato l’espressione “per interposta nazione”.
[8] Così, espressamente, L. Trotsky, op. cit., p. 31.
[9] L’equivalente della nostra Camera dei Deputati.
[10] Così definisce quella attuale.