La sinistra alla prova della guerra
Valerio Torre
Era il 2013, i fatti di Piazza Majdan non si erano ancora verificati benché l’Ucraina fosse già da molto tempo un calderone che ribolliva, pieno di contraddizioni, e Ruslan Pukhov, già all’epoca consulente del ministero della Difesa russo, scriveva in un articolo che potrebbe essere considerato l’epigrafe di quanto sta accadendo oggi nell’Est europeo:
«La possibile entrata dell’Ucraina nella Nato equivale a un’esplosione nucleare tra Mosca e i Paesi occidentali. I tentativi di tirare Kiev dentro l’Alleanza Atlantica porteranno a una crisi di enormi proporzioni in Europa, in campo sia militare sia politico. E la stessa Ucraina assisterà a una profonda crisi interna visti i diversi orientamenti culturali della sua popolazione. L’Occidente sottovaluta l’importanza della questione ucraina per la Russia e non percepisce a dovere come Kiev possa rappresentare un grave fattore di destabilizzazione nelle sue relazioni con Mosca. Credere che la Russia sarà prima o poi costretta a mandar giù l’entrata dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica è pratica pericolosa che può portare a un’evoluzione catastrofica degli eventi. Del resto molti in Occidente non credevano, fino ad agosto 2008, che la Russia osasse condurre un intervento militare in Georgia»[1].
Questa dichiarazione non deve essere letta, nell’equilibrio del testo che segue, come la giustificazione preventiva dell’odierna aggressione russa all’Ucraina. Essa deve essere intesa, piuttosto, come un tassello per la comprensione della complessa e dolorosa vicenda che si sta dipanando ai danni di una popolazione che da molti anni è afflitta da una pesante crisi economica, aggravata dalle draconiane misure di austerità imposte dal Fmi in cambio dei prestiti ottenuti.
Allo stesso modo, quanto scriviamo di qui in avanti è ben lungi dal fornire una chiave di lettura del conflitto bellico in termini di “azione‑reazione” (allargamento a est della Nato‑invasione dell’Ucraina da parte della Russia): una spiegazione abbastanza diffusa in certi ambienti della sinistra, ma assolutamente superficiale; e che, soprattutto, eludendo il segno imperialista dell’epoca che stiamo vivendo, confina chi la assume nel ruolo di spettatore che si limita a commentare soltanto gli aspetti congiunturali di un processo storico dagli sviluppi ancora imprevedibili.
La “guerra d’inverno” del 1939
Dopo la conclusione – agli inizi di ottobre del 1939 – della “Campagna di Polonia”, con la spartizione di quei territori fra la Germania nazista e l’Urss staliniana come conseguenza del patto Molotov‑Von Ribbentrop, il conflitto che sarebbe poi sfociato nella Seconda guerra mondiale entrò in una fase di stasi delle operazioni militari. Questa fase, che durò fino al maggio 1940, quando infine la Germania attaccò i Paesi Bassi, venne chiamata la “strana guerra” perché gli eserciti si fronteggiavano lungo il confine della Francia senza combattere[2].
Nel bel mezzo di questo periodo, il 30 novembre 1939 l’Unione Sovietica invase la Finlandia. Le mire annessionistiche di Stalin non erano solo dovute al timore che una qualche potenza straniera potesse approfittare, per sferrare un attacco all’Urss, di una Finlandia troppo vicina a Leningrado; e neppure erano giustificate dalla volontà di acquisire territori di importanza strategica da un punto di vista militare. Era invece proprio il “Protocollo segreto” stilato in occasione della firma del patto Molotov‑Von Ribbentrop ad assegnare ai sovietici, nel delineare il quadro delle sfere di influenza fra i due Paesi, il controllo della regione baltica:
«[…] Nel caso di un cambiamento politico territoriale nei territori appartenenti agli Stati baltici – Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania – la frontiera settentrionale della Lituania formerà la linea di demarcazione delle sfere di interesse tra la Germania e l’Urss […]»[3].
Dopo aver imposto a Estonia, Lettonia e Lituania “patti di mutua assistenza” e ottenuto il controllo di alcune basi militari che gli consentirono di stabilire truppe sovietiche in quei territori, Stalin pretese di instaurare in Finlandia una sorta di protettorato e di assicurarsi delle modifiche territoriali in Carelia e in certe zone dell’Artico. Il rifiuto da parte finlandese di soggiacere a tali richieste gli offrì il destro per invadere la Finlandia iniziando così quella che venne chiamata la “guerra d’inverno”, o anche la “piccola guerra”[4]: iniziata, appunto, il 30 novembre 1939 e conclusasi il 12 marzo 1940 con la firma del Trattato di Mosca, in virtù del quale la Finlandia dovette cedere all’Urss una vasta area dei propri territori sudorientali, inclusa la città di Viipuri (ribattezzata Vyborg), e affittare alla controparte la penisola di Hanko per 30 anni.
Trotsky sulla “indipendenza nazionale” in epoca di guerre imperialiste
Trotsky si occupò di questa vicenda in alcuni brevi testi scritti nel quadro della violenta polemica teorica che nel 1939 squassò il Socialist Workers Party, sezione statunitense della Quarta Internazionale[5]. Al centro di questa discussione c’era, dopo la firma del patto Molotov‑Von Ribbentrop e l’invasione e la spartizione della Polonia, la caratterizzazione della natura sociale dell’Unione Sovietica: se cioè essa potesse ancora essere considerata uno Stato operaio degenerato e perciò dovesse essere incondizionatamente difesa in caso di guerra.
Una consistente minoranza del Swp si espresse negativamente, ritenendo, «in una risoluzione presentata al Comitato nazionale, che “con l’invasione della Polonia, l’Armata rossa partecipa integralmente a una guerra di conquista imperialista”»[6]. E la guerra dell’Urss contro la Finlandia non fece altro che rafforzare in questa minoranza tale convinzione.
Per quello che qui ci interessa, ci limiteremo a segnalare alcuni passaggi di uno degli scritti con cui Trotsky condusse la polemica contro questa tendenza: si tratta di quello intitolato “Bilancio degli avvenimenti finnici”[7].
Nel paragrafo dal titolo “I piccoli Paesi nella guerra imperialista”, Trotsky spiega:
«Nelle condizioni di guerra mondiale, affrontare la questione del destino dei piccoli Paesi dal punto di vista dell’indipendenza nazionale, della neutralità, etc., significa restare nella sfera della mitologia imperialista. La lotta è per il dominio del mondo […]. Per ciò che riguarda gli Stati piccoli e medi, sono già pedine nelle mani delle grandi potenze. La sola libertà che conservano, e per di più in misura limitata, è quella di scegliersi il padrone».
Subito dopo, Trotsky accenna a un evento che rappresentò il primo segnale che la “strana guerra” stava per volgere al termine: l’invasione della Norvegia da parte delle truppe di Hitler, che costituì l’occasione del primo scontro diretto tra la Francia e il Regno Unito da una parte e la Germania dall’altra.
Dopo l’aggressione tedesca, la famiglia reale e il governo norvegese furono fatti evacuare, mentre si era insediato un esecutivo che rispondeva direttamente alla Germania nazista. E Trotsky parla della coesistenza di questi due governi applicando un principio generale che aveva già in precedenza espresso[8]:
«Due governi si sono combattuti per breve tempo in Norvegia: il governo dei nazisti norvegesi, al riparo delle truppe tedesche, nel sud, ed il vecchio governo socialdemocratico con il re, nel nord. Gli operai norvegesi avrebbero dovuto appoggiare il campo democratico contro quello fascista? Se si segue l’analogia con la Spagna sembra che a prima vista la questione dovrebbe avere una risposta affermativa. In realtà questo sarebbe l’errore più grossolano. In Spagna c’era una guerra civile isolata e l’intervento delle potenze imperialiste straniere, per quanto importante in sé, restava tuttavia di importanza secondaria. In Norvegia si sta verificando un conflitto diretto e immediato fra due campi imperialisti nelle cui mani i due governi norvegesi in lotta non sono che attori secondari. In campo mondiale non appoggiamo né il campo degli Alleati né quello della Germania. Di conseguenza non abbiamo la minima ragione o giustificazione per appoggiare sia l’uno sia l’altro dei loro strumenti temporanei nella stessa Norvegia».
Sicché, prosegue Trotsky:
«Lo stesso atteggiamento deve essere assunto verso la Finlandia. Dal punto di vista della strategia del proletariato mondiale, la resistenza finlandese non costituiva un atto di difesa dell’indipendenza nazionale più di quanto non lo sia la resistenza della Norvegia. […] Fattori secondari come l’indipendenza nazionale della Finlandia o della Norvegia, la difesa della democrazia, etc., per quanto importanti in sé, sono ora intrecciati nella lotta di forze mondiali infinitamente più potenti e sono completamente subordinati ad esse. Dobbiamo fare la tara ai fattori secondari e determinare la nostra politica sulla base dei fattori fondamentali»[9].
Ecco: sono questi gli argomenti completamente ignorati dai “trotskisti” che oggi vagheggiano il sostegno alla “resistenza” ucraina: guardandosi bene, però, dall’organizzare una colonna combattente per andare a portare in quelle terre martoriate il … Verbo comunista sulla punta dei fucili[10], e accodandosi invece all’imperialismo nostrano – e cioè a uno dei “padroni” scelti dalla “pedina” ucraina, secondo la felice descrizione di Trotsky – nel chiedere più o meno esplicitamente di rifornire di armi Volodymyr Zelens’kyj.
Una guerra imperialista “dai tre volti”
Ora, è del tutto evidente che la natura sociale dell’Unione Sovietica che nel 1939 condusse la “piccola guerra” contro la Finlandia era completamente diversa da quella della Russia che in questo 2022 ha invaso l’Ucraina; così come assolutamente diverso è il quadro politico delle due epoche, diversi sono i due Paesi aggrediti e diversi gli interessi che muovevano Stalin rispetto a quelli perseguiti da Putin. E certamente i nostri critici – quelli cioè che sostengono (più o meno in armi) la “resistenza” ucraina parlando di guerra di liberazione nazionale e di “diritto all’autodeterminazione”[11] – non mancheranno di sottolinearlo.
Ma è altrettanto evidente – cosa che i nostri critici non riescono a cogliere (o, peggio, non vogliono fare) – che quella in atto è senza dubbio una guerra imperialista. Anzi, a voler essere davvero precisi, il conflitto che si sta dipanando consta di ben tre guerre:
- quella di aggressione all’Ucraina da parte della Russia, che è però, nel quadro del ben più ampio scontro, soltanto un elemento circostanziale e secondario, per quanto violento e sanguinoso ai danni della popolazione civile ucraina;
- quella imperialista che Usa e Ue con la Nato stanno combattendo contro la Russia, “per interposta nazione”, come abbiamo avuto modo di sostenere nell’articolo richiamato nelle note[12], utilizzando cioè l’Ucraina come avamposto e fanteria d’assalto; e, per converso, quella che la Russia sta combattendo sul terreno ucraino contro le potenze occidentali per impossessarsi di una posizione strategica da un punto di vista geopolitico e tenerle così lontane dai suoi confini, nonché per espandere il suo mercato e il suo peso come potenza imperialista di secondo livello, riattivando la sua economia in crisi mediante l’industria bellica;
- infine, quella imperialista che gli Usa, con il supporto della Gran Bretagna, stanno combattendo contro la Germania (e, in misura minore, la Francia) per diminuirne la capacità trainante sul resto dell’Europa, indebolendo così l’insieme del Vecchio Continente affinché esso resti nei limiti di una mera piattaforma per il dispiegamento degli interessi economici e politici a livello globale del gendarme imperialista statunitense[13].
Ed è proprio il peso e il significato di quest’ultima guerra a sfuggire ai più nel campo della sinistra, la maggior parte della quale privilegia l’elemento del “chi ha attaccato per primo” e del “chi è l’aggressore” e “chi l’aggredito”, sviluppando la propria superficiale analisi – e le politiche che ne derivano, che perciò sono errate – su questa base.
Stati Uniti: una “resa dei conti” con l’Ue
Diremo di più: a nostro avviso, è proprio questo terzo fattore a caratterizzare la guerra in atto come guerra imperialista. È fin troppo chiaro, infatti, che gli Stati Uniti, mentre cercano di spezzare la possibile alleanza tra la Russia e la Cina nella prospettiva di isolare quest’ultima per quando ci sarà il vero conflitto con la potenza asiatica[14], stanno cercando di “regolare i conti” con l’imperialismo tedesco e quello francese, disarticolando l’Unione europea. E il fulcro di questo disegno va rinvenuto nella Brexit, in cui l’uscita dall’Ue del Regno Unito ha rappresentato il rinsaldarsi dell’alleanza storica fra gli imperialismi statunitense e inglese nell’ottica di un bilanciamento e un contrasto del peso di Germania e Francia a livello continentale.
Non dimentichiamo, infatti, che questi ultimi due Paesi avevano da tempo cercato di affermare un ruolo indipendente nella scelta delle proprie politiche internazionali, accentuando un proprio smarcamento dagli interessi che il Pentagono ha sempre perseguito in Europa utilizzando soprattutto il legame forzoso della “gabbia” della Nato. La Francia, che è sempre stata insofferente rispetto alla camicia di forza del Patto atlantico[15], a partire dal 2019 ha tentato di differenziarsi rivendicando una propria centralità a livello europeo attraverso un progetto di difesa comune: non a caso, Macron allarmò gli Usa con la tranciante affermazione per cui la Nato versava in uno stato di “morte cerebrale”, sicché era necessario, da un lato, costruire «l’Europa della difesa: un’Europa che deve acquisire autonomia strategica e di capacità sul piano militare. E dall’altro, riaprire un dialogo strategico, senza alcuna ingenuità e che richiederà tempo, con la Russia»[16]. Dal canto suo, la Germania, molto più pragmaticamente, si era da tempo resa interprete di una “Ostpolitik” – una politica di lucrosa apertura commerciale verso la Russia – che favorisse gli interessi industriali e commerciali della propria borghesia, grazie alla quale ha consolidato nel lungo periodo il suo ruolo di “locomotiva d’Europa”. E già al tempo delle sanzioni a Mosca in occasione dell’annessione della Crimea, Angela Merkel iniziò a giocare per conto suo la partita energetica, preoccupata per le conseguenze che sarebbero derivate dall’approfondirsi dello scontro fra Occidente e Russia: fu per questa ragione che il ministro degli Esteri tedesco Frank‑Walter Steinmeier si oppose già allora alle sanzioni invitando al dialogo con Mosca. La stessa ragione che indusse Merkel – quando si rese conto che Putin, in risposta alle sanzioni, aveva concluso un accordo commerciale con la Cina per rifornirla con 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno per i successivi trent’anni[17] – a prendere direttamente nelle sue mani la questione dell’approvvigionamento dell’Europa con il gas russo concludendo un accordo commerciale con la Russia, negoziato fra il commissario europeo responsabile per l’energia, il tedesco Günther Hermann Oettinger, e il ministro dell’Energia russo, Alexander Novak[18].
Francia e Germania stretti fra l’obbedienza agli Usa e i propri interessi nazionali
La crisi ucraina ha offerto il destro a Joe Biden per prendere per la gola Francia e Germania attraverso il vincolo forzoso dell’Alleanza atlantica, tanto da rendere evidenti le contorsioni di Parigi e Berlino per cercare di divincolarsi dalla morsa della Nato in cui Washington le tiene costrette, alternando obbedienza all’alleato statunitense e un minimo margine di autonomia. Ad esempio, non si può non tener conto che Macron, anche approfittando del semestre francese di presidenza del Consiglio dell’Ue e della propria rielezione nelle recenti presidenziali, da una parte ha assunto su di sé il ruolo di mediatore favorito con Putin (come provano i colloqui diretti in occasione dell’invasione russa dell’Ucraina), mentre dall’altra sta privilegiando il quadro europeo, più che la Nato, come terreno su cui convogliare il principale sforzo della Francia per affrontare la sfida russa in Ucraina.
D’altro canto, la Germania, gelosa custode dei propri rapporti commerciali con Mosca, si è a più riprese mostrata ostile a seguire pedissequamente le imposizioni statunitensi in materia di embargo energetico alla Russia e fornitura di armi a Kiev. Se da un lato ha dovuto sottostare ai desiderata di Washington sospendendo il progetto del gasdotto Nord Stream 2, dall’altro ha frapposto notevoli resistenze sia rispetto all’eventualità di un embargo al petrolio e al gas russi, sia all’invio di armamenti pesanti all’Ucraina, adottando la politica dell’elastico, cioè a volte tirando un po’ e a volte cedendo un po’ la corda. Ad esempio, rispetto alle forniture di gas si è fatta forte di un documento congiunto industriali‑sindacati in cui viene ipotizzato – nel caso di sospensione degli approvvigionamenti – un crollo dell’economia tedesca, con chiusure a catena di impianti produttivi e licenziamenti di massa[19]; rispetto invece a quelle di petrolio – per le quali la dipendenza tedesca da Mosca è di gran lunga inferiore – ha dato in sede Ue un cauto via libera al blocco, però a partire dal gennaio 2023, in ciò sostenuta da Slovacchia, Romania e Ungheria, ma con quest’ultimo Paese che ha gettato sul tavolo il proprio veto. In ogni caso, Berlino resta sottoposta a fortissime pressioni da parte dell’asse Washington‑Londra: non a caso, il quotidiano conservatore inglese The Telegraph ha rivolto un violentissimo attacco alla guardinga posizione tedesca a proposito del gas e del petrolio russi sostenendo la necessità di … imporre sanzioni alla Germania per questo suo “incomprensibile” (dal punto di vista dell’imperialismo anglo‑americano) atteggiamento non collaborativo, fino al punto di introdurre dazi e addirittura un embargo (sic!) alle esportazioni tedesche[20].
Rispetto invece alla fornitura di armi pesanti all’Ucraina, il cancelliere tedesco Scholz ha resistito finché ha potuto. Poi, quando Biden ha organizzato un vertice straordinario dei ministri della Difesa di 40 Paesi proprio in Germania, a Ramstein, la seconda più grande base statunitense all’estero, quasi a voler fare intendere allo stesso Scholz che «sulle questioni strategiche la sovranità tedesca è limitata»[21], allora ha dovuto cedere, anche per le pressioni di un pezzo della maggioranza che sostiene il suo governo: cioè dei Verdi, che sono passati dalle posizioni storicamente pacifiste di un tempo a quelle virulentemente guerrafondaie di oggi.
E così, a malincuore[22], ha dovuto disporre l’invio di una cinquantina di carri armati “Gepard”. Eppure, chi pensasse ad una capitolazione tedesca sulla fornitura di armi pesanti a Kiev dovrà rapidamente ricredersi. Come spiega infatti un ex militare della Bundeswehr (l’esercito federale della Germania)[23], innanzitutto questi mezzi non sono veri carri armati, ma sistemi antiaereo a corto raggio (5 km) e dunque utili solo contro velivoli a bassa quota. Poi sono datati, essendo stati progettati cinquant’anni fa e dismessi da più di dieci anni, da allora essendo rimasti in deposito. Inoltre, il loro utilizzo richiede un addestramento di non meno di dodici mesi (anche di più per il comandante del mezzo), il che significa che l’esercito ucraino potrà utilizzarli quando la guerra sarà probabilmente finita. E infine – ciliegina sulla torta! – questi veicoli verranno forniti disarmati, dato che le loro munizioni sono fabbricate in Svizzera, che però ha proclamato la propria neutralità e ha posto il veto alla loro esportazione in Ucraina[24]. L’autore delle spiegazioni sulle caratteristiche dei “Gepard” rivela ironicamente che negli hangar tedeschi sono depositati alcuni Lockheed F‑104 Starfighter, da lui denominati “bare volanti”, e che, verosimilmente, la Germania offrirà anche quelli a Kiev quando si vedrà costretta a cedere ancora un altro po’.
“Né guerra tra i popoli, né pace tra le classi”: rifiutare la complicità con l’imperialismo, denunciare il socialsciovinismo di chi chiede l’invio di armi in Ucraina
Per concludere, non ci resta che ribadire la caratterizzazione di questo conflitto come guerra imperialista nel composito significato che abbiamo cercato di illustrare: allo scontro fra Russia da un lato e Usa/Nato/Ue dall’altro va affiancato quello che vede gli Stati Uniti contrapporsi a Francia e Germania per indebolire e disarticolare l’Ue. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia resta invece un elemento congiunturale e assolutamente secondario della complessiva vicenda: ciò, ovviamente, non vuol dire sottovalutare le migliaia di morti, la distruzione, la miseria che l’aggressione russa ha comportato, così come certamente Trotsky non sottovalutava gli oltre 25.000 morti e i quasi 45.000 feriti finlandesi durante la “guerra d’inverno” del 1939 cui abbiamo fatto cenno all’inizio di questo testo; né vuol dire sottovalutare le mire espansioniste dell’imperialismo russo, così come Trotsky non sottovalutava – e anzi denunciava – i metodi burocratici dello Stato operaio degenerato sovietico che aveva invaso la Finlandia per “sovietizzarla” sulla punta delle baionette[25].
Se insistiamo, anche in polemica con altre organizzazioni, su questa caratterizzazione, è perché da una corretta definizione della natura della guerra scaturisce come conseguenza la politica che i marxisti debbono tenere.
Per noi, come abbiamo già avuto modo di argomentare[26], la definizione di questa guerra come uno scontro interimperialistico implica l’adozione della politica del disfattismo rivoluzionario, e cioè la lotta di classe da parte di ogni proletariato contro il nemico di casa propria, la “propria” borghesia: solo la sconfitta politica – e, auspicabilmente, militare – di ogni borghesia nazionale ad opera del proprio proletariato può condurre alla fine della guerra. Lo slogan che deve innervare l’atteggiamento di ogni proletariato deve essere “né guerra tra i popoli, né pace tra le classi”.
Chi invece, pur evocando “per amor di bandiera” e senza convinzione la natura imperialista della guerra in atto, la caratterizza soprattutto come “guerra di liberazione nazionale” invocando un preteso “diritto di autodeterminazione”, e mette al centro della propria politica il sostegno alla “resistenza” ucraina rivendicando dal proprio governo imperialista l’invio di armi in quel teatro bellico, commette due crimini assolutamente ingiustificabili.
Il primo è quello contro la stessa popolazione e il proletariato ucraini, che, mentre vengono massacrati dalle bombe russe, sono contemporaneamente utilizzati come agnello sacrificale dalle potenze imperialiste occidentali sull’altare della loro guerra contro Putin (e da quest’ultimo contro quelle). Le organizzazioni che, pur richiamandosi al marxismo rivoluzionario, esigono l’invio di armi a Kiev a cosa credono che servano i 20,4 miliardi di dollari stanziati da Biden[27], se non a prolungare il più possibile la guerra con l’intenzione di annichilire economicamente la Russia[28], ma a spese di ulteriori migliaia di morti? Come spiegano costoro che l’idea stessa di una soluzione diplomatica al conflitto sia completamente sparita dai radar della politica internazionale di tutte le parti in causa? Come pensano che il prolungamento ad oltranza della guerra possa giovare alle masse popolari ucraine? Credono forse questi “rivoluzionari” che esse saranno “autodeterminate” quando saranno state sterminate dal fuoco incrociato delle armate di Mosca e dei battaglioni paramilitari di Kiev foraggiati dalle armi di cui loro stessi hanno rivendicato l’invio?
Non a caso, Jacques Baud, generale dell’intelligence svizzera che ha lavorato per conto della Nato in Ucraina dal 2014 con lo scopo di migliorare la capacità delle sue forze armate e la gestione delle truppe, ha spiegato efficacemente che, ogni volta che Zelens’kyj ha manifestato la propria disponibilità a trovare con la Russia una soluzione negoziata, subito le potenze imperialiste occidentali lo hanno dissuaso fornendogli finanziamenti e armi per combattere[29]. Ciò, a conferma del fatto che egli e il suo popolo vengono biecamente usati come ostaggi e carne da cannone nello scontro Usa/Ue/Nato con la Russia.
E dunque, rivendicare armamenti per l’Ucraina significa non solo salire sul carro dell’imperialismo, ma addirittura essere complici di questo nella mattanza del proletariato di quel Paese.
Il secondo crimine di cui tali organizzazioni si macchiano è quello contro i principi dell’internazionalismo proletario e del marxismo stesso, a cui indegnamente si richiamano. Assumendo una siffatta posizione, esse dimostrano che non lottano per l’abbattimento del sistema capitalista internazionale che oggi in Ucraina (e contemporaneamente in decine di altre regioni del pianeta) sta massacrando civili inermi; al contrario, legandosi all’imperialismo di casa nostra nella rivendicazione di più armi e più letali, contribuiscono a schiacciare col loro (piccolo, molto piccolo) tallone il proletariato di quel Paese e a favorire le borghesie imperialiste in lotta fra loro nella spartizione del mondo. È per questo che finiscono col negare i principi stessi del marxismo.
Vogliamo essere chiari al riguardo. Un attivista di una di tali organizzazioni ci ha scritto in privato per criticare la nostra posizione, sostenendo che se davvero siamo convinti che il suo gruppo è diventato socialsciovinista dovremmo denunciarlo apertamente.
Abbiamo finora esitato, credendo che un ripensamento fosse ancora possibile. Ma, a questo punto, con l’incalzare delle rivendicazioni di armamento, non ci resta – con rammarico – che accontentarlo. Certo, non crediamo che la cosa riguardi soltanto la sua organizzazione: in Italia, con qualche piccola eccezione, tutti i gruppi che si richiamano al trotskismo hanno assunto questa vergognosa posizione.
Per cui, sì, lo denunciamo apertamente: salvo qualche organizzazione, la sinistra rivoluzionaria italiana ha celebrato il proprio definitivo 4 agosto.
Note
[1] R. Pukhov, “Dobbiamo riprenderci lo spazio sovietico”, Limes, vol. 11, 2013.
[2] In Francia venne coniata l’espressione “drôle de guerre” (guerra farsa); in Italia, “guerra dei coriandoli”, perché gli aerei non lanciavano bombe ma volantini propagandistici.
[3] A. Peregalli, Il patto Hitler‑Stalin, Erre Emme Edizioni, 1989, p. 18.
[4] Così definita da Molotov dinanzi al Soviet supremo (A. Peregalli, op. cit., p. 40).
[5] Si tratta degli articoli raccolti nel volume L. Trotsky, In difesa del marxismo, PGreco edizioni, 2021.
[6] P. Broué, La rivoluzione perduta. Vita di Trockij. 1879‑1940, Bollati Boringhieri, 1991, p. 885.
[7] L. Trotsky, op. cit., pp. 283 e ss. Questo testo reca la data del 25 aprile 1940, all’indomani cioè della firma del Trattato di Mosca.
[8] Ci riferiamo qui al testo L. Trotsky, “Une leçon toute fraîche (Sur le caractère de la guerre prochaine)”, 10 ottobre 1938, in Œuvres, vol. 19, pp. 53 e segg., estratti del quale sono stati pubblicati in italiano nel volumetto L. Trotsky, Guerra e rivoluzione, Arnoldo Mondadori Editore, 1973, pp. 24 e segg. con il titolo “Dopo la ‘pace’ imperialista di Monaco”. In questo testo Trotsky aveva già spiegato (pp. 67‑68) la peculiarità della situazione in Spagna, che prenderà ad esempio per trattare il tema della Norvegia: «Ogni qualvolta le forze controrivoluzionarie cercheranno di ritornare indietro dallo Stato “democratico” verso il particolarismo provinciale, verso la monarchia, la dittatura militare, il fascismo, il proletariato rivoluzionario, senza assumersi la benché minima responsabilità per la “difesa” della democrazia (che non è difendibile), contrapporrà a queste forze controrivoluzionarie una resistenza armata per dirigere la propria offensiva, in caso di successo, contro la “democrazia” imperialistica. Questa politica, tuttavia, vale solo per i conflitti interni, cioè nei casi in cui la posta della lotta sia effettivamente il regime politico: così, per esempio, si è presentata la questione in Spagna. La partecipazione degli operai spagnoli alla lotta contro Franco era un loro dovere elementare. […] È, però, semplicemente ingannevole e ciarlatanesco estendere le leggi e le regole della lotta tra le varie classi all’interno di un Paese alla guerra imperialista, cioè alla lotta di una stessa classe di diversi Paesi. Attualmente, a quanto sembra, non c’è bisogno di dimostrare che gli imperialisti lottano gli uni contro gli altri non per principi politici, ma per il dominio del mondo, dietro la copertura di principi che considerano convenienti».
[9] Le evidenziazioni sono nostre.
[10] “Making the most of foreign volunteers in Ukraine”, War on The Rocks, 7/3/2022.
[11] Abbiamo già trattato questi temi nell’articolo “La guerra in Ucraina e il social‑sciovinismo dei giorni nostri”, pubblicato sempre su questo sito, al quale rinviamo.
[12] V. nota precedente. Altrettanto efficacemente, Sergej Lavrov, ministro degli Esteri russo, l’ha definita una “guerra per procura”.
[13] Ci dilungheremo in particolare su quest’aspetto nel prosieguo del testo.
[14] Il “nodo” che è sullo sfondo del confronto tra Usa e Cina è la riannessione a quest’ultima dell’isola di Taiwan: un’eventualità che potrebbe essere foriera di conseguenze a livello planetario inimmaginabili.
[15] Ricordiamo che nel 1966, il generale De Gaulle portò la Francia fuori dal Comando integrato della Nato in nome della “sovranità” nazionale. Nel 2009 l’allora presidente francese Sarkozy fece marcia indietro, riammettendovela.
[16] “Pour Emmanuel Macron, l’Otan est en état de «mort cérébrale»”, Le Figaro, 7/11/2019.
[17] Un accordo del valore di ben 456 miliardi di dollari.
[18] Qui la dichiarazione ufficiale.
[19] “Embargo sul gas russo, no di aziende e sindacati tedeschi”, il manifesto, 18/4/2022.
[20] “If Germany won’t stop buying Russian gas, it should face sanctions too”, The Telegraph, 19/4/2022: un articolo raccapricciante, in cui l’autore, Matthew Lynn, è giunto al punto di scrivere che «chiunque compri una nuova Bmw o una Volkswagen paga indirettamente per l’esercito di Putin, una cosa che vale la pena tenere a mente quando si sceglie una nuova auto».
[21] Così, espressamente, N. Locatelli, “La guerra per procura”, Limes, 29/4/2022.
[22] Sia pure simulando una forte critica al pacifismo.
[23] “Politico: «Germany approves tank sales to Ukraine, bowing to pressure»”, Moon of Alabama, 27/4/2022.
[24] “Schweiz verhindert deutsche Waffenlieferung in die Ukraine”, Tages Anzeiger, 23/4/2022.
[25] In particolare, Trotsky poneva in evidenza che la “sovietizzazione” forzosa della Finlandia era dovuta al fatto che «l’attuale regime dell’Urss è incapace di esercitare la propria forza d’attrazione» sulla classe operaia e che l’invasione di quel Paese rappresentava un atto di autodifesa, da parte della burocrazia bonapartista del Cremlino, del «proprio potere, il proprio prestigio e il proprio reddito … a spese del proletariato mondiale» (L. Trotsky, op. cit., pp. 288 e 291).
[26] V. precedente nota 11.
[27] “Ucraina: Biden chiede al Congresso altri 33 miliardi in aiuti, oltre 20 in armi”, Il Sole 24 Ore, 28/4/2022.
[28] “Austin, vogliamo Russia indebolita per evitare altre guerre”, Ansa, 25 aprile 2022.
[29] “Our Interview with Jacques Baud”, The Postil Magazine, 1/5/2022.