Il 24 e 25 novembre 1912 si svolse a Basilea il Congresso straordinario della Seconda Internazionale, convocato espressamente perché i socialisti dell’epoca potessero prendere una posizione specifica sulla guerra appena scoppiata.
Da poche settimane, infatti, era iniziata la Prima guerra balcanica (8 ottobre 1912‑30 maggio 1913) che, insieme alla Seconda (29 giugno‑30 agosto 1913), avrebbe determinato lo scenario su cui si sarebbe poi sviluppato il conflitto fra l’Impero austro‑ungarico e la Serbia (28 luglio 1914). Un conflitto che, cominciato su scala continentale europea, avrebbe poi visto allargare i suoi confini a Paesi extra‑europei (Giappone, fra gli altri), fino all’ingresso in scena degli Stati Uniti d’America (1917): cosa che lo consacrò come “Prima guerra mondiale”.
In realtà, le due Guerre balcaniche costituirono il quadro della contesa interimperialistica fra le potenze europee che, con il pretesto di aiutare i piccoli Stati balcanici (Serbia, Montenegro, Bulgaria, Grecia e Romania) nella realizzazione dei rispettivi interessi nazionali, li avevano trasformati in strumenti della loro politica predatoria nella regione.
Ed era esattamente questo il telone sullo sfondo del quale venne celebrato il Congresso straordinario di Basilea, in cui i partiti socialisti adottarono un Manifesto che dettava i principi ai quali i partiti operai avrebbero dovuto attenersi se fosse scoppiata – come poi meno di due anni dopo effettivamente scoppiò – la guerra interimperialista che sarebbe diventata la Prima guerra mondiale.
L’estratto del testo di Lenin che presentiamo di seguito – scritto nel gennaio 1916 – evidenzia che, all’epoca in cui venne approvato il Manifesto di Basilea, le organizzazioni socialiste riunite nella Seconda Internazionale già avevano inquadrato il coacervo delle pulsioni interimperialistiche che si fronteggiavano a livello continentale europeo, e prescindevano totalmente, nell’analisi politica, dal conflitto regionale che pure era in corso fra gli Stati riuniti nella Lega balcanica (Serbia, Montenegro, Bulgaria, Grecia e Romania) contro l’Impero ottomano. Come Lenin rimarca, nel Manifesto «non vi è una parola né sulla difesa della patria, né su ciò che distingue una guerra offensiva da una guerra difensiva; non una parola di tutto ciò che ripetono ora a tutti i venti gli opportunisti e i kautskiani».
Come suonano attuali le riflessioni del grande rivoluzionario russo se paragonate all’oggi, quando v’è chi nega che lo sfondo su cui si dipana l’aggressione della Russia all’Ucraina sia una guerra interimperialista, sol perché … “non è mondiale”, mentre la caratterizza come “guerra di liberazione nazionale” in cui sarebbe in gioco un supposto “diritto di autodeterminazione”!
E quanto erano più approfondite le analisi formulate da partiti socialisti tutt’altro che rivoluzionari (come poi la Storia si sarebbe incaricata di dimostrare il 4 agosto 1914) rispetto a quelle di organizzazioni che oggi salgono sul carro dei rispettivi imperialismi inneggiando alla “resistenza ucraina” o rivendicando l’invio di armi a quella che è la fanteria d’assalto di quegli stessi imperialismi, affinché combatta contro l’imperialismo contrapposto!
E d’altro canto farebbe una fatica inutile chi volesse ricercare nei testi scritti in quel periodo da Lenin e da Trotsky una sola parola di sostegno alle posizioni nazionali degli Stati balcanici coinvolti prima nel conflitto regionale e poi in quello che sarebbe diventato la Prima guerra mondiale: lo stesso Trotsky, che all’epoca si trovava nei Balcani come corrispondente di guerra, scrisse molti articoli che descrivevano lo sviluppo della tragedia che andava consumandosi in quel teatro (raccolti nel volume L. Trotsky, Le guerre balcaniche 1912‑1913, Edizioni Lotta comunista, 1999), ma in nessuno di essi esprimeva il benché minimo appoggio alle parti contendenti, aggressori o aggrediti che fossero. Anzi, segnalava che la soluzione della questione balcanica nell’interesse dei popoli che abitavano la regione confliggeva apertamente con «gli interessi e gli intrighi delle potenze capitalistiche europee» e «con gli interessi delle dinastie e delle borse europee».
Qualcuno potrebbe dire – e dirà certamente, pur di continuare a sostenere la propria lettura della realtà di oggi – che la questione balcanica e il successivo scoppio della Prima guerra mondiale non sono paragonabili all’attuale conflitto russo‑ucraino. Ma sbaglierebbe, perché la sua sarebbe una visione limitata ai soli aspetti superficiali della situazione odierna, senza un’analisi approfondita delle dinamiche sotterranee del conflitto interimperialistico esistente (che non necessariamente deve svolgersi attraverso una guerra apertamente guerreggiata fra le potenze contrapposte).
È chiaro che la Storia non si ripete uguale a se stessa, ma vi sono molti punti di contatto fra quell’esperienza storica e l’attuale scontro in corso: e noi da quella vogliamo trarre gli insegnamenti necessari per comprendere meglio questo.
È esattamente per tale ragione che presentiamo ai nostri lettori il seguente estratto dello scritto di Lenin “L’opportunismo e il fallimento della Seconda Internazionale”, che comprende un riferimento interattivo al Manifesto di Basilea da noi stessi tradotto dall’originale in lingua francese.
Buona lettura.
La redazione
L’opportunismo e il fallimento della Seconda internazionale
Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin
La II Internazionale ha realmente cessato di esistere? I suoi più autorevoli rappresentanti, come Kautsky e Vandervelde, lo negano ostinatamente. Non è accaduto nulla, se non la rottura delle relazioni; tutto va per il meglio: tale è la loro opinione.
Per stabilire la verità, rivolgiamoci al Manifesto del Congresso di Basilea del 1912, che si riferisce precisamente alla guerra imperialistica mondiale odierna e che fu approvato da tutti i partiti socialisti del mondo. Occorre osservare che nessun socialista oserà negare, in teoria, la necessità di un giudizio storico concreto su ogni guerra.
Oggi la guerra è scoppiata, e sia gli opportunisti dichiarati sia i kautskiani non osano né sconfessare il Manifesto di Basilea, né mettere a confronto le sue rivendicazioni con il comportamento dei partiti socialisti nel corso della guerra. Perché? Perché il manifesto smaschera in pieno sia gli uni che gli altri.
In esso non vi è una parola né sulla difesa della patria, né su ciò che distingue una guerra offensiva da una guerra difensiva; non una parola di tutto ciò che ripetono ora a tutti i venti gli opportunisti e i kautskiani[*] di Germania e dell’Intesa. Del resto, il manifesto non poteva parlarne, perché ciò che esso dice esclude in modo assoluto qualsiasi applicazione di questi concetti. Esso indica in modo perfettamente concreto una serie di conflitti economici e politici che durante decine di anni hanno preparato questa guerra, si sono manifestati in pieno nel 1912 e hanno provocato la guerra del 1914. Il manifesto ricorda il conflitto austro‑russo per l’«egemonia nei Balcani»; il conflitto tra «l’Inghilterra, la Francia e la Germania» (fra tutti questi paesi!) dovuto alla loro «politica di conquista nell’Asia minore»; il conflitto austro‑italiano suscitato dalla «volontà di dominare» in Albania, ecc. Esso definisce, in una parola, tutti questi conflitti chiamandoli conflitti provocati dall’«imperialismo capitalista». Cosi, dunque, il manifesto formula con lampante chiarezza il carattere di rapina, imperialista, reazionario, schiavista di questa guerra; il carattere, cioè, che trasforma l’ammissione della difesa della patria in un’assurdità teorica e un nonsenso pratico. Grandi pescecani lottano per inghiottire patrie altrui. Il manifesto trae inevitabili conclusioni da fatti storici indiscutibili: questa guerra non potrebbe «essere giustificata con il minimo pretesto di un qualunque interesse nazionale». Essa è preparata per assicurare «il profitto dei capitalisti, per soddisfare l’orgoglio delle dinastie». Sarebbe «un delitto» per gli operai «sparare gli uni sugli altri». Cosi parla il manifesto.
L’epoca capitalista è l’epoca in cui il capitalismo ha raggiunto la sua maturità, è stramaturo e si trova alla vigilia del crollo. È maturo a tal punto da dover cedere il posto al socialismo. Il periodo che va dal 1789 al 1871 fu l’epoca di un capitalismo progressivo, in cui l’abbattimento del feudalesimo e dell’assolutismo, la liberazione dal giogo straniero erano all’ordine del giorno della storia. Su questa base, e su questa unica base, si poteva ammettere la «difesa della patria», cioè la lotta contro l’oppressione. Oggi ancora si potrebbe applicare questa concezione alla guerra contro le grandi potenze imperialistiche, ma sarebbe assurdo applicarla a una guerra fra queste grandi potenze, in una guerra in cui si tratta di sapere chi saprà spogliare meglio í paesi balcanici, l’Asia Minore, ecc. Non c’è quindi da stupire che i «socialisti» i quali ammettono la «difesa della patria» nella guerra odierna eludano il Manifesto di Basilea come il ladro fugge il luogo dove ha commesso il furto. Il manifesto dimostra infatti che essi sono social‑sciovinisti, cioè dei socialisti a parole e degli sciovinisti nei fatti, che aiutano la «loro» borghesia a spogliare i paesi altrui e ad asservire le altre nazioni. L’essenziale nel concetto di «sciovinismo» è appunto la difesa della «propria» patria, anche quando i suoi atti tendono ad asservire le patrie altrui.
Il considerare che una guerra è una guerra di liberazione nazionale porta con sé una tattica; il considerare che essa è imperialista ne implica un’altra. Il manifesto indica chiaramente quest’altra tattica. La guerra «porterà a una crisi economica e politica», che si dovrà «utilizzare» non per attenuare la crisi, non per difendere la patria, ma, al contrario, per «far leva» sulle masse, per «affrettare la caduta del dominio capitalistico». Non si può affrettare ciò per cui le condizioni storiche non sono ancora mature. Il manifesto ha riconosciuto che la rivoluzione sociale è possibile, che le sue premesse sono mature, che essa verrà precisamente con la guerra: «le classi dirigenti» temono la «rivoluzione proletaria», dichiara il manifesto portando l’esempio della Comune di Parigi e della rivoluzione del 1905 in Russia, gli esempi, cioè, di scioperi di massa e di guerra civile. L’affermare, come fa Kautsky, che non si era definito quale doveva essere l’atteggiamento del socialismo verso questa guerra, è menzogna. La questione è stata non solamente discussa, ma risolta a Basilea, dove fu approvata la tattica della lotta di massa rivoluzionaria e proletaria.
È ripugnante ipocrisia quella di eludere il Manifesto di Basilea, completamente o nelle sue parti essenziali, per citare discorsi di capi o risoluzioni di singoli partiti che, in primo luogo, portano una data anteriore a quella del Congresso di Basilea e, in secondo luogo, non erano decisioni dei partiti di tutto il mondo e, in terzo luogo, si riferivano a differenti guerre possibili, ma non assolutamente alla guerra attuale. Il nocciolo della questione è che l’epoca delle guerre nazionali fra le grandi potenze europee ha ceduto il posto all’epoca delle guerre imperialistiche fra queste potenze, e che il Manifesto di Basilea ha dovuto, per la prima volta, riconoscere ufficialmente questo fatto.
Sarebbe erroneo supporre che non si potrebbe presentare il Manifesto di Basilea come se esso fosse unicamente una dichiarazione solenne o una minaccia in stile magniloquente. È appunto così che vorrebbero porre la questione coloro che il manifesto smaschera. Ma ciò è falso. Il manifesto è unicamente il risultato di un grande lavoro di propaganda di tutta l’epoca della II Internazionale, è unicamente un riassunto di tutto ciò che i socialisti hanno lanciato fra le masse in centinaia di migliaia di discorsi, articoli e appelli in tutte le lingue. Esso non fa che ripetere ciò che scriveva, per esempio, Jules Guesde nel 1899, quando sferzava il ministerialismo socialista in caso di guerra: egli parlava della guerra provocata dai «pirati capitalisti» (En Garde, p. 175); oppure ciò che scriveva Kautsky nel 1908 nella Via verso il potere, in cui riconosceva che l’epoca «pacifica» era finita e era cominciata l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni. Presentare il Manifesto di Basilea come una vuota frase o come un errore, è considerare come tale tutta l’attività socialista degli ultimi venticinque anni. Se la contraddizione fra il manifesto e la sua non applicazione è così intollerabile per gli opportunisti e i kautskiani, è perché essa rivela la profondissima contraddizione che esiste nell’attività della II Internazionale. Il carattere relativamente «pacifico» del periodo 1871‑1914 ha alimentato l’opportunismo, stato d’animo dapprima, tendenza in seguito e, infine, gruppo o strato composto dalla burocrazia operaia e dai compagni di strada piccolo‑borghesi. Questi elementi potevano sottomettere il movimento operaio soltanto riconoscendo a parole i fini rivoluzionari e la tattica rivoluzionaria; potevano cattivarsi la fiducia delle masse soltanto giurando che il lavoro «pacifico» non era che la preparazione alla rivoluzione proletaria. Questa contraddizione era l’ascesso che da un giorno all’altro doveva scoppiare, e che è scoppiato. Tutto il problema sta nel decidere se sia meglio tentare, come fanno Kautsky e soci, di far rifluire di nuovo questo pus nell’organismo in nome dell’«unità» (con il pus), oppure se, per contribuire alla guarigione completa dell’organismo del movimento operaio, si debba sbarazzarlo da questo pus il più presto e il più accuratamente possibile, nonostante il dolore acuto ma passeggero che questa operazione produce.
È evidente che quelli che hanno votato i crediti di guerra, che sono entrati nei ministeri e hanno difeso l’idea della difesa della patria nel 1914‑1915 hanno tradito il socialismo. Solamente degli ipocriti possono negare questo fatto. È necessario spiegarlo.
[…]
[*] Non si tratta della persona dei fautori di Kautsky in Germania, ma del tipo internazionale del pseudomarxista che oscilla tra l’opportunismo e il radicalismo e che in realtà serve solo da foglia di fico all’opportunismo (Nota originale nel testo di Lenin).