La guerra in Ucraina e il social‑sciovinismo dei giorni nostri
Valerio Torre
Com’è noto, la guerra rappresenta uno spartiacque per chi si proclama marxista. È proprio la guerra l’argomento rispetto al quale la discussione teorica separa il grano dal loglio mettendo a nudo le debolezze, le contraddizioni e le mancanze teoriche di coloro i quali questa discussione affrontano sulla base di letture impressioniste ed eclettiche della realtà.
Nei giorni scorsi ci siamo occupati della delirante posizione di una delle piccole organizzazioni che in Italia si richiamano al marxismo rivoluzionario. Oggi, invece, esamineremo quella di un’altra “scheggia” della galassia trotskista: una posizione che è solo apparentemente più articolata, ma sostanzialmente contraddittoria e decisamente errata[1].
Che guerra è quella in corso in Ucraina?
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e la guerra aperta che questa ha scatenato per soddisfare i suoi disegni annessionistici e di restaurazione imperiale in funzione di una più efficace resistenza alla penetrazione dell’imperialismo statunitense e dei Paesi dell’Ue in Europa orientale; il posizionamento in un solo blocco degli Usa, della Nato e dell’Ue e la guerra sotterranea[2] che questa coalizione sta conducendo “per interposta nazione” (e cioè la stessa Ucraina) contro Putin per poter dare una base alle proprie mire espansionistiche verso est; le politiche che entrambi i campi hanno, sia pure contraddittoriamente, messo in campo da anni in funzione degli obiettivi rispettivamente perseguiti; la crisi economica che spinge sempre più le economie capitalistiche a cercare nuovi sbocchi in un mondo di fatto già ripartito e le frizioni che questa spasmodica ricerca crea fra Stati che rappresentano le proprie borghesia nazionali[3]: sono questi gli elementi determinanti per dare una corretta caratterizzazione della guerra in atto.
Non a caso, Trotsky scriveva:
«Il carattere della guerra non è determinato dall’episodio iniziale in sé (“violazione della neutralità”, “invasione nemica”, ecc.), bensì dalle principali forze motrici della guerra, da tutto il suo sviluppo e dalle conseguenze che essa alla fine comporta. […] Il nostro atteggiamento nei confronti della guerra non è determinato dalla formula legalistica dell’“aggressione”, bensì dalla questione di quale classe conduce la guerra e per quali scopi. In un conflitto tra Stati, proprio come nella lotta di classe, quelle dell’“aggressione” e della “difesa” sono soltanto questioni di opportunità pratica e non di norma giuridica o etica. Il semplice criterio di aggressione rappresenta una pezza d’appoggio per la politica socialpatriottica […]»[4].
Ancora più chiaro il suo giudizio al riguardo in un altro testo, in cui specificava:
«Per definire in ogni caso concreto la natura storica e sociale di una guerra non bisogna basarsi su impressioni e congiunture, ma sull’analisi scientifica della politica che ha preceduto e condizionato il conflitto stesso»[5].
E dunque, alla luce degli elementi che abbiamo in precedenza sinteticamente elencato, la guerra in Ucraina può ben essere definita non solo e non tanto “imperialista”, come se si trattasse soltanto di una guerra di rapina da parte della Russia ai danni del Paese confinante, ma anzi “interimperialista”[6], perché, al di là dell’apparenza dell’aggressione militare da parte delle truppe di Putin, il processo bellico si svolge in realtà fra i due campi: la Russia da una parte e il blocco Usa/Nato/Ue dall’altro, con l’Ucraina che svolge il ruolo di punta di lancia delle potenze capitaliste occidentali nella “contro‑aggressione” (se ci è consentito così definirla)[7] alla Russia.
La contraddittoria (ed errata) posizione del Pcl
L’articolo del Pcl da cui abbiamo preso le mosse per criticarne la tesi parte anch’esso dalla considerazione che la guerra in Ucraina delinea uno scontro fra blocchi imperialistici contrapposti, sicché i rivoluzionari debbono adottare la classica parola d’ordine “il nemico principale è in casa nostra”. Eppure, dopo tale corretta caratterizzazione, aggiunge un distinguo: poiché nel conflitto è condensata anche una “specificità nazionale” che «contrappone una potenza imperialista alla nazione ucraina, con l’obiettivo dichiarato di negarne identità e autonomia […], in questo quadro, di fronte a questa guerra, non possiamo non prendere posizione a difesa dell’Ucraina e del suo diritto alla resistenza contro l’invasione dell’imperialismo russo. Ciò in piena coerenza con la difesa di ogni Paese aggredito dall’imperialismo».
Per giustificare siffatto contraddittorio (e non certo dialettico) distinguo, il testo ci propina una sfilza di “esempi storici” che, a dire dei suoi autori, spiegherebbero e giustificherebbero la presa di posizione: per restare ai tempi più recenti, l’Iraq del 1991 e del 2003, la Serbia del 1999, l’Argentina del 1982 nello scontro con la Gran Bretagna sulle Malvinas; fino a risalire – per dare un peso “teorico” all’argomentazione – alla difesa, da parte di Lenin, della Turchia di Kemal Atatürk contro l’imperialismo britannico e a quella, ad opera di Trotsky, della Cina del Kuomintang nel conflitto col Giappone e del Brasile del reazionario Vargas sempre rispetto all’imperialismo britannico.
In tal modo, quella che si sta svolgendo in Ucraina non sarebbe più soltanto una guerra imperialistica “pura”, ma sul terreno dello scontro armato si starebbe dipanando anche una “guerra di liberazione nazionale”. Anzi, nell’analisi del Pcl, a quest’ultima viene attribuita una patente di “specificità” e, addirittura, di “centralità”. Nientedimeno, a questo punto del testo, la conclusione è che saremmo in presenza di una guerra di liberazione nazionale che “accidentalmente” si è incrociata con un’aggressione militare imperialista, e che, laddove il teatro dovesse allargarsi fino alla diretta entrata in scena dal punto di vista militare delle potenze occidentali e della Nato, solo in quel momento la “guerra di liberazione nazionale” si “dissolverebbe” in quella interimperialistica cedendole il posto. E solo allora – e non oggi – i rivoluzionari potrebbero agitare la parola d’ordine del disfattismo. Al riguardo, viene invocata una pretesa “similitudine” con analogo atteggiamento che i bolscevichi avrebbero tenuto di fronte all’aggressione dell’impero austro‑ungarico ai danni della Serbia nel 1914.
Arrivano i nostri!
Evidentemente, l’articolo che stiamo commentando deve avere avuto qualche ripercussione nel campo largo della sinistra. Anche da una rapida lettura dei commenti sui social sono apparse diverse critiche a un simile atteggiamento.
Forse è per questo motivo che il Pcl si è sentito in dovere di far scendere in campo il suo principale dirigente, il quale ha firmato personalmente, a supporto del precedente, un lungo testo[8] nel quale vengono addotti numerosi esempi storici in cui Lenin e i bolscevichi hanno agitato la parola d’ordine della difesa nazionale, della guerra di liberazione nazionale e del diritto di resistenza: vengono citati i casi dell’Ucraina stessa, della Finlandia, della Polonia, dell’Irlanda (chiamando in causa anche Marx), ancora una volta della Serbia del 1914, della Cina e della Turchia.
E però, tutti questi esempi sono assolutamente mal posti, in quanto, come vedremo di seguito, decontestualizzati dalla specifica vicenda storico‑politica che li riguarda: per cui, a nostro avviso, la posizione espressa nei due testi esaminati scivola, attraverso la difesa di un supposto “diritto di autodeterminazione” della nazione ucraina (che viene elevata a compito primario dei comunisti in questa fase), verso quello che Lenin definiva “socialsciovinismo”.
Guerre progressive e guerre reazionarie
Dunque, dal momento che le riflessioni di Lenin sono state malamente sparse a piene mani, ci permettiamo anche noi di fare qualche riferimento al pensiero del grande rivoluzionario russo.
Partiamo da un suo testo basilare, non solo per l’importanza teorica che riveste, ma perché scritto nel pieno del primo anno della Prima guerra mondiale: si tratta dell’opuscolo intitolato “Il socialismo e la guerra”[9].
In esso Lenin distingue un tipo di guerre, effettivamente nazionali, «a carattere borghese progressivo, di liberazione nazionale»[10], che si svolsero specialmente fra il 1789 e il 1871 e che avevano come base una lunga successione di movimenti nazionali di massa, di lotte contro l’assolutismo e il feudalesimo, per l’abbattimento del giogo nazionale e la creazione di Stati su base nazionale, i quali costituivano la premessa dello sviluppo capitalistico. Per Lenin, le guerre «di tale epoca» erano “guerre difensive” e si potevano definire “guerre giuste”. Solo le guerre attraverso le quali la classe operaia deve «costituirsi in nazione»[11] sono, appunto, “giuste” e devono essere patrocinate dai rivoluzionari. È per questo che Lenin scrive:
«Soltanto in questo senso i socialisti hanno riconosciuto e riconoscono oggi la legittimità, il carattere progressivo e giusto della “difesa della patria” o della guerra “difensiva”. Per esempio, se domani il Marocco dichiarasse guerra alla Francia, l’India all’Inghilterra, la Persia o la Cina alla Russia, ecc., queste sarebbero delle guerre “giuste”, delle guerre “difensive” indipendentemente da chi avesse attaccato per primo, ed ogni socialista simpatizzerebbe per la vittoria degli Stati oppressi, soggetti e privi di diritti, contro le “grandi” potenze schiaviste che opprimono e depredano. Ma immaginate che un padrone di cento schiavi guerreggi con un altro che ne possiede duecento per una più “giusta” ripartizione degli schiavi stessi. È chiaro che, in un simile caso, la qualifica di guerra “difensiva” o di “difesa della patria” costituirebbe una falsificazione storica e, in pratica, solo un inganno del popolo semplice, della piccola borghesia, della gente ignorante, da parte degli astuti padroni di schiavi. È proprio così che la borghesia imperialista del nostro tempo inganna i popoli, servendosi dell’ideologia “nazionale” e del concetto di difesa della patria nell’attuale guerra fra i padroni di schiavi, per il consolidamento ed il rafforzamento della schiavitù»[12].
Ed ecco perché subito dopo Lenin scrive che quella «attuale» (si riferisce a quella scoppiata nel 1914) «è una guerra imperialista»: la quale, per essere scatenata dal capitalismo monopolista, che «da progressivo … è divenuto reazionario»[13], è anch’essa reazionaria e nient’affatto progressiva come le guerre del precedente periodo storico. E dunque, «la questione della patria […] non si può porre ignorando il carattere storico concreto della guerra attuale. È una guerra imperialistica, cioè una guerra dell’epoca del capitalismo sviluppatosi al massimo grado, dell’epoca della fine del capitalismo»[14].
L’evoluzione storica, economica e sociale impressa dalla mutazione del capitalismo dell’epoca della libera concorrenza in capitalismo monopolista rende inattuali, o estremamente residuali per il solo caso di Paesi o popoli totalmente oppressi[15], le lotte di liberazione nazionale. Proprio perché «tutta la storia economica e diplomatica degli ultimi decenni dimostra che i due gruppi di nazioni belligeranti hanno … preparato sistematicamente una guerra di questo genere», allora «la questione: quale è stato il gruppo che ha sferrato il primo colpo militare o che ha dichiarato per primo la guerra, non ha nessuna importanza nella determinazione della tattica dei socialisti. Le frasi sulla difesa della patria, sulla resistenza all’invasione nemica, sulla guerra di difesa, ecc., sono, da ambo le parti, tutti raggiri per ingannare il popolo»[16].
Chiarisce bene questo concetto anche Trotsky:
«Lo Stato nazionale creato dal capitalismo nella sua lotta contro il regionalismo medievale è diventato l’arena classica del capitalismo. Ma non appena ha preso forma, esso si è trasformato in un freno per lo sviluppo economico e culturale. La contraddizione esistente tra le forze produttive e la cornice dello Stato nazionale, unita alla contraddizione principale – tra le forze produttive e la proprietà privata dei mezzi di produzione – ha fatto della crisi del capitalismo la crisi del sistema sociale mondiale. […] La difesa dello Stato nazionale, innanzitutto nell’Europa balcanizzata, culla dello stato nazionale, è, nel pieno senso del termine, un obiettivo reazionario. Lo Stato nazionale, con le sue frontiere, i suoi passaporti, il suo sistema monetario, le sue dogane e i suoi doganieri, si è trasformato in un terribile ostacolo per lo sviluppo economico e culturale dell’umanità. Il compito del proletariato non consiste nella difesa dello Stato nazionale, bensì nella sua liquidazione completa e definitiva. Se l’attuale Stato nazionale costituisse un fattore progressivo, esso dovrebbe essere difeso indipendentemente dalla sua forma politica e, beninteso, senza badare a chi ha “incominciato” la guerra per primo. È assurdo confondere la questione della funzione storica dello Stato nazionale con quella della “colpevolezza” di un dato governo. Ci si può forse rifiutare di salvare una casa abitabile soltanto perché il fuoco vi ha attecchito per l’incuria o per la mala intenzione del suo proprietario? Ma nel nostro caso si tratta precisamente di una casa costruita non per viverci, bensì semplicemente per morirvi. Affinché i popoli possano vivere è necessario radere al suolo la struttura dello Stato nazionale. Un “socialista” che predichi la difesa nazionale è un piccolo‑borghese reazionario al servizio del capitalismo declinante. Non legarsi allo Stato nazionale in tempo di guerra, non seguire la mappa della guerra ma quella della lotta di classe è possibile soltanto a quel partito che abbia già dichiarato una guerra irreconciliabile allo Stato nazionale in tempo di pace. È soltanto rendendosi pienamente conto del ruolo oggettivamente reazionario dello Stato imperialista che l’avanguardia proletaria può immunizzarsi contro tutti i tipi di socialpatriottismo. Questo significa che una rottura effettiva con l’ideologia e con la politica della “difesa nazionale” è possibile soltanto dal punto di vista della rivoluzione proletaria mondiale»[17].
Esempi storici inappropriati
“E va bene” – ci potrebbe essere obiettato – “ma nei testi criticati vengono riportati diversi esempi in cui i marxisti hanno difeso le lotte di liberazione nazionale e la resistenza contro un Paese aggressore”.
Il fatto è che in tutti i casi riportati, dall’Iraq di Saddam Hussein, alla Serbia di Milošević, dall’Argentina di Gualtieri, alla Turchia di Atatürk, dalla Cina del Kuomintang, al Brasile di Vargas (e possiamo aggiungere anche l’Etiopia di Hailé Selassié[18]), non eravamo in presenza di una guerra interimperialista all’interno della quale l’aggressione isolata da parte di una potenza imperialista ad un Paese dipendente rappresentava soltanto un episodio. Al contrario, quell’aggressione costituiva da sé sola l’unico e centrale elemento caratterizzante del conflitto o dell’invasione. In questi casi – e solo in questi casi! – il sostegno dei rivoluzionari alla resistenza dei popoli aggrediti era un atto dovuto. Era proprio quel Lenin così maltrattato dai testi che stiamo qui contestando a dirlo. Riferendosi infatti all’aggressione alla Serbia che diede il via alla Prima guerra mondiale, scriveva:
«L’elemento nazionale, nella guerra attuale, è rappresentato solamente dalla guerra della Serbia contro l’Austria […]. Se questa guerra fosse isolata, vale a dire non collegata con la guerra europea e con gli avidi scopi di rapina dell’Inghilterra, della Russia, ecc., tutti i socialisti avrebbero l’obbligo di desiderare il successo della borghesia serba. Questa è l’unica deduzione giusta e assolutamente indispensabile, derivante dal fattore nazionale della guerra attuale»[19].
Facendo corretta applicazione di questo principio generale, Rudolf Klement, segretario di Trotsky prima in Turchia e poi in Francia, e in seguito dirigente europeo della Lega comunista internazionale (nuova denominazione dell’Opposizione di sinistra internazionale e antesignana della Quarta internazionale), spiegava perciò che il sostegno dei comunisti alla lotta di liberazione nazionale è un atto dovuto soltanto quando la guerra di aggressione rappresenta un elemento isolato e non invece quando costituisce un tassello della più composita guerra interimperialista: perché «solo quando la lotta è imperialista da un solo lato, e dall’altro lato è una guerra di liberazione di nazioni non imperialiste […] – così come nelle guerre civili tra le classi o tra la democrazia e il fascismo – il proletariato internazionale non può e non deve applicare la stessa tattica verso entrambe le parti in lotta[20]. Riconoscendo il carattere progressivo di questa guerra di liberazione, il proletariato internazionale deve combattere con decisione contro il nemico principale, l’imperialismo reazionario (o, nel caso di una guerra civile, contro il campo reazionario), deve cioè lottare per la vittoria dei politicamente o socialmente oppressi […]. Anche in questi casi, tuttavia, esso è profondamente consapevole della sua inconciliabile opposizione di classe alla “propria” borghesia […] e non rinuncia a nessuna delle sue posizioni indipendenti […]»[21]. Gli esempi storici riportati fuori contesto dal Pcl e dal compagno Ferrando, al contrario, depongono inequivocabilmente contro la tesi da loro sostenuta, perché l’odierna aggressione all’Ucraina da parte della Russia non rappresenta affatto un elemento isolato, ma è soltanto una tessera – e nemmeno la più importante – del mosaico della guerra interimperialista che il blocco Usa/Nato/Ue sta combattendo contro l’altro campo, quello russo. Sicché, delle due l’una: o il Pcl riafferma il carattere interimperialista di questa guerra, e allora deve praticare il disfattismo rivoluzionario gettando alle ortiche la rivendicazione del diritto alla resistenza e la difesa dello Stato nazionale ucraino così malamente richiamate; oppure conferma che si tratta di guerra di liberazione e di indipendenza nazionale da parte dell’Ucraina, ma deve cambiare la caratterizzazione generale della guerra.
Stupisce, insomma, dover essere costretti a spiegare una verità così elementare, da ABC del marxismo. Ma tant’è. E non essendo noi all’altezza di dirlo con parole migliori, non ci resta che ricorrere a quelle, inequivocabili, di Trotsky:
«Ogni qualvolta le forze controrivoluzionarie cercheranno di ritornare indietro dallo Stato “democratico” verso il particolarismo provinciale, verso la monarchia, la dittatura militare, il fascismo, il proletariato rivoluzionario, senza assumersi la benché minima responsabilità per la “difesa” della democrazia (che non è difendibile), contrapporrà a queste forze controrivoluzionarie una resistenza armata per dirigere la propria offensiva, in caso di successo, contro la “democrazia” imperialistica. Questa politica, tuttavia, vale solo per i conflitti interni, cioè nei casi in cui la posta della lotta sia effettivamente il regime politico: così, per esempio, si è presentata la questione in Spagna. La partecipazione degli operai spagnoli alla lotta contro Franco era un loro dovere elementare. Ma appunto perché gli operai non sono riusciti a sostituire a tempo il potere della democrazia borghese con il loro potere, la “democrazia” ha ceduto il posto al fascismo. È, però, semplicemente ingannevole e ciarlatanesco estendere le leggi e le regole della lotta tra le varie classi all’interno di un Paese alla guerra imperialista, cioè alla lotta di una stessa classe di diversi Paesi. Attualmente, a quanto sembra, non c’è bisogno di dimostrare che gli imperialisti lottano gli uni contro gli altri non per principi politici, ma per il dominio del mondo, dietro la copertura di principi che considerano convenienti»[22].
Una guerra “non puramente” imperialista? Il caso della Serbia
Il fatto è che la posizione espressa dai compagni del Pcl non è storicamente nuova.
Lenin si trovò a contestare efficacemente una tesi assolutamente simile esposta da Kautsky, il quale riteneva che la guerra scoppiata nel 1914 non fosse “puramente imperialista”: «Un nuovo sofisma e un nuovo inganno per gli operai: vedete – scrive Lenin – la guerra non è “puramente” imperialista! […] Ma allora che cosa diamine è? Veniamo a sapere che essa è anche … nazionale!». Per lui si tratta di «un altro esempio di prostituzione del marxismo», dato che «la guerra attuale … non libera alcuna nazione e …, indipendentemente dal suo esito, ne asservirà parecchie […]. Il fattore nazionale della guerra serbo‑austriaca non ha e non può avere alcuna seria importanza nella guerra europea». Qualunque risultato si fosse potuto ipotizzare – vittoria dell’uno o dell’altro campo, o un sostanziale “pareggio”, dice Lenin – «per la Serbia, ossia per questa centesima parte dei partecipanti alla guerra odierna, la guerra è la “continuazione della politica” del movimento di liberazione borghese. Per il resto (99 per cento) la guerra è la continuazione della politica imperialista, ossia della politica di una borghesia giunta allo stato di senescenza, la quale è capace di violentare le nazionalità e non di liberarle. […] Perciò, rammentare che la guerra non è “puramente” imperialista quando si tratta di un vergognoso inganno delle “masse popolari” da parte degli imperialisti, i quali nascondono deliberatamente i loro scopi di pura rapina con una fraseologia “nazionale”, significa essere un pedante infinitamente ottuso oppure un frodatore e un imbroglione»[23].
E così pure, non è storicamente nuovo il tentativo di “tirare per la giacchetta” il povero Karl Marx e utilizzarne l’autorità allo scopo di supportare una tesi che altrimenti non sta in piedi.
Sempre Lenin smascherò questa manovra nel testo “Il socialismo e la guerra” già citato (nota 9), un cui paragrafo significativamente si intitola “Falsi richiami a Marx e a Engels”:
«Tutte queste citazioni rappresentano di per sé una ripugnante deformazione a profitto della borghesia e degli opportunisti, delle teorie di Marx ed Engels […]. Chi si richiama adesso all’atteggiamento di Marx verso le guerre del periodo progressivo della borghesia e dimentica le parole di Marx: “gli operai non hanno patria” – parole che si riferiscono precisamente all’epoca della borghesia reazionaria, superata, all’epoca della rivoluzione socialista – deforma spudoratamente Marx e sostituisce al punto di vista socialista il punto di vista borghese»[24].
E anche un altro argomento tirato in ballo nei due testi che stiamo commentando è parecchio “claudicante”: quello per cui, quando la Serbia fu attaccata dall’Austria, i bolscevichi difesero contro l’imperialismo austriaco i diritti nazionali della Serbia nonostante i suoi forti legami con la Russia zarista.
Dobbiamo candidamente confessare che non conosciamo i testi dai quali gli autori dei due articoli hanno tratto le ragioni fondative di una simile affermazione. Per quanto ci consti, i diritti nazionali della Serbia erano stati difesi dai bolscevichi in tutto il lungo periodo di incubazione della guerra interimperialistica[25], ma sempre e solo nei limiti espressi da Lenin negli scritti ai quali fino ad ora abbiamo fatto riferimento. E però, voler far credere che i bolscevichi siano stati fautori della “difesa della patria” il 30 luglio 1914 (giorno dell’ingresso delle truppe austroungariche a Sarajevo), e che abbiano poi abbandonato questa rivendicazione il 4 agosto successivo abbracciando invece la tesi del disfattismo rivoluzionario, significa dipingerli come banderuole al vento, eclettici e impressionisti privi di saldi principi internazionalisti. E infatti sarebbe bastato riferirsi alle parole con cui Lenin parlava del “Manifesto di Basilea” adottato nel 1912 dalla Seconda Internazionale[26] per non sostenere una simile amenità.
Per quanto ci riguarda, ci rifacciamo invece al “Manifesto dei socialisti di Turchia e dei Balcani” (14 ottobre 1912) in cui i piccoli partiti balcanici denunciavano apertamente «l’ideale sanguinoso delle nazionalità»[27]. E se è vero che il 1° agosto 1914, votando nel parlamento serbo contro i crediti di guerra, il deputato socialista Dragiša Lapčević (che era addirittura un antibolscevico e seguace di Kautsky!) rilasciò una dichiarazione nella quale rivolgeva al proprio governo l’accusa di «aver fatto della Serbia un ponte tra la Russia e la Francia e uno strumento di cui questi Paesi si servono per i loro propri interessi»[28], allora è davvero proprio difficile immaginare che i bolscevichi fossero – per come ci vengono presentati nei due testi che stiamo commentando – alla retroguardia di questi socialisti serbi.
Né possiamo fare a meno di osservare come Trotsky abbia descritto la situazione in Serbia, da lui vissuta sul campo:
«I socialisti erano influenzati nella loro condotta da diverse ragioni. Innanzitutto, il proletariato, benché non discutesse il diritto storico della Serbia di sforzarsi per ottenere la sua unione nazionale, non poteva affidare la soluzione di questo problema ai poteri che allora reggevano i destini del regno serbo. In secondo luogo (e questo era per noi un fattore decisivo), la socialdemocrazia internazionale non poteva sacrificare la pace in Europa alla causa nazionale dei serbi […]. In altre parole, per noi socialisti non c’era la minima ragione per identificare la nostra causa con quella dell’esercito serbo. Questa era l’idea che animava i socialisti serbi Lapčević e Kaclerović quando decisero eroicamente di votare contro i crediti di guerra».
E, di seguito, spiega che, dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando e l’ultimatum che l’Austria‑Ungheria diede alla Serbia, la guerra venne lo stesso dichiarata dall’impero asburgico nonostante le straordinarie concessioni da parte del governo serbo:
«Se l’idea di “guerra di difesa” – dice Trotsky – ha un qualche significato, in questo caso avrebbe dovuto essere applicata alla Serbia. Tuttavia, i nostri amici Lapčević e Kaclerović, fermi nella loro convinzione della linea di condotta che come socialisti dovevano tenere, negarono il voto di fiducia al governo. Chi scrive si trovava in Serbia all’inizio della guerra. Nella Skupchina (il parlamento serbo: N.d.A.), in un’atmosfera di indescrivibile entusiasmo, fu sollecitato un voto per i crediti di guerra. La votazione fu nominale. Duecento membri risposero affermativamente. Allora, in un momento di grande silenzio, si udì la voce del socialista Lapčević, che disse: “No!”. Tutti avvertirono la forza morale di questa protesta ed io ho conservato, inciso indelebilmente nella mia memoria, il ricordo di questa scena»[29].
Trasformare la guerra imperialista in guerra civile
Insomma, al termine di questa lunga cavalcata tra i testi dei grandi pensatori marxisti che si sono trovati a fronteggiare una realtà – la guerra interimperialista che sfociò poi nella Prima guerra mondiale – che ha diversi punti di contatto con la situazione che stiamo vivendo in queste settimane, possiamo concludere che la posizione espressa dal Pcl – dare centralità a una pretesa guerra di liberazione nazionale dell’Ucraina aggredita a scapito del necessario disfattismo rivoluzionario – è profondamente errata per le ragioni che infinitamente meglio di noi hanno esposto quei grandi pensatori. E l’errore di questa posizione è reso in tutta la sua evidenza in ciò: che il Pcl considera che nella fase attuale quella in essere sia «una guerra di difesa dell’Ucraina contro un’aggressione imperialista» e che se vi fosse «un arretramento della Russia sul terreno diplomatico in direzione della difesa dei vecchi accordi di Minsk, e […] il governo ucraino decidesse, in quel contesto, la prosecuzione della guerra contro la Russia», allora e solo allora la pretesa “guerra difensiva” dell’Ucraina si trasformerebbe in una guerra offensiva del Paese aggredito, «col sostegno NATO contro la Russia». E solo in quel caso «si imporrebbe una posizione di disfattismo bilaterale»[30].
Si tratta di un palese esempio di miopia politica nel quadro di una lettura impressionistica della vicenda ucraina. Come si fa, infatti, a non vedere che la guerra offensiva del blocco Usa/Nato/Ue contro la Russia è già iniziata con l’Ucraina che assolve al ruolo di fanteria d’assalto? Solo perché le potenze occidentali non vogliono dichiarare la no‑fly zone, come gli stessi testi del Pcl sostengono? Come si fa a dichiarare che «oggi resta all’ordine del giorno la guerra della Russia contro l’Ucraina e il diritto di resistenza ucraina alla Russia» quando invece le potenze occidentali – e l’Italia tra esse – stanno rifornendo l’Ucraina, e non da oggi, di armi letali e tecnologicamente avanzate perché combatta per loro conto la guerra per la penetrazione dei loro capitali sempre più ad est? E no, cari compagni del Pcl! All’ordine del giorno c’è proprio la guerra interimperialista che viene combattuta, come abbiamo già detto “per interposta nazione”.
Sia chiaro: come affermava Trotsky, «la classe operaia non è indifferente alla sua nazione». Ma, aggiungeva, «è proprio perché la storia pone tra le sue mani il destino della nazione che la classe operaia rifiuta di affidare l’obiettivo della libertà e dell’indipendenza nazionali all’imperialismo, il quale “salva” la nazione soltanto per sottoporla il giorno dopo a nuovi pericoli mortali nell’interesse di un’insignificante minoranza di sfruttatori»[31]. Ed è evidente che una posizione come quella che stiamo qui criticando finisce per affidare proprio al blocco imperialista Usa/Nato/Ue la “salvezza” dell’Ucraina.
Crediamo perciò che il criterio che deve orientare i rivoluzionari nell’attuale scenario di guerra non debba essere un riduttivo “Né con la Russia, né con la Nato”. È necessario invece imprimere a questo slogan poco efficace una forza diversa e potenzialmente dirompente. E dunque, per quanto riguarda l’Italia, “CONTRO la Russia e CONTRO la Nato. E perciò, CONTRO l’Italia!”.
Noi dobbiamo puntare, applicando il disfattismo rivoluzionario, sulla sconfitta politica – e possibilmente militare – della “nostra borghesia”. Analogamente dovrebbero comportarsi i proletari statunitensi, francesi, tedeschi, spagnoli e di ogni altro Paese europeo implicato (sia pure ancora non apertamente) nella guerra in Ucraina. Ma soprattutto il disfattismo rivoluzionario è compito che incombe principalmente sul proletariato del Paese invasore utilizzando i metodi della lotta di classe (blocco della produzione, soprattutto militare e di ogni altro bene o servizio che sia funzionale all’aggressione e alla sua prosecuzione; boicottaggio del trasporto di armi verso il teatro di guerra; agitazione in favore del Paese aggredito e contro il proprio): a ben vedere, è questa l’unica forma di concreto e valido aiuto che il proletariato russo può fornire ai lavoratori e alle masse popolari ucraine.
E neppure sfuggono a quest’obbligazione i proletari ucraini, i quali dovrebbero combinare metodi di guerra civile contro il proprio governo: indebolendolo sul versante politico ed economico e disarticolando il proprio esercito con il disarmo delle bande paramilitari naziste in esso integrate, creando invece distaccamenti operai armati per l’autodifesa. È questo, infatti, l’autentico senso della difesa nazionale: la difesa, cioè, della propria casa, della propria famiglia e della propria vita; non invece – perché è questo ciò che si sta dipanando sul terreno dello scontro militare – la difesa della politica della propria borghesia, quantunque sia in questo momento attaccata da un’altra borghesia meglio armata e più aggressiva.
Quando Lenin sosteneva che “la sconfitta è il male minore” non intendeva dire che la sconfitta del proprio Paese è un male minore rispetto alla sconfitta del Paese invasore, ma che una sconfitta militare risultante dallo sviluppo del movimento rivoluzionario è infinitamente più benefica per il proletariato e per tutto il popolo, rispetto a una vittoria militare che però perpetui la schiavitù dei lavoratori ad opera della propria borghesia.
Insomma, è questo il significato della parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. E rappresenta il nucleo del compito strategico dei rivoluzionari durante la guerra.
Anche in questa.
Note
[1] Si tratta dell’articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori (Pcl), intitolato “Guerra imperialista, guerra nazionale e resistenza in Ucraina”.
[2] Una guerra che è “sotterranea” sol perché le potenze occidentali allo stato non possono e non vogliono (ancora) intervenire direttamente sul campo di battaglia e che perciò è basata sull’armamento diretto del governo Zelens’kyj – che non è solo di queste settimane, ma dura da anni – e su un pacchetto di pesanti sanzioni economiche e finanziarie le quali, pur riverberandosi contraddittoriamente sulle economie degli stessi Paesi europei che le sostengono (e non certamente, o solo in misura davvero residuale, degli Usa), appaiono particolarmente incisive ai danni della Russia, benché per ora Putin disponga delle risorse per farvi fronte in qualche modo.
[3] «La vita del capitalismo monopolista della nostra epoca è una catena di crisi. Ognuna delle crisi è una catastrofe. La necessità di sfuggire a queste catastrofi parziali mediante barriere doganali, l’inflazione, l’aumento delle spese governative e del debito spiana la strada ad altre crisi più profonde e più estese. La lotta per nuovi mercati, materie prime e colonie rende inevitabili le catastrofi militari. E queste ultime preparano ineluttabilmente catastrofi rivoluzionarie» (L. Trotsky, “Le marxisme et notre époque”, 26 febbraio 1939, in Œuvres, vol. 20, Institut Léon Trotsky, p. 166.
[4] L. Trotsky, “La guerre et la IVe Internationale, 10 giugno 1934, in op. ult. cit., vol. 4, pp. 58‑59 e 65.
[5] L. Trotsky, “Une leçon toute fraîche (Sur le caractère de la guerre prochaine)”, 10 ottobre 1938, in op. ult. cit., vol. 19, pp. 53 e segg. Estratti di questo testo si trovano, in italiano, nel volumetto L. Trotsky, Guerra e rivoluzione, Arnoldo Mondadori Editore, 1973, pp. 24 e segg. con il titolo “Dopo la ‘pace’ imperialista di Monaco”.
[6] Per “interimperialista” non intendiamo il conflitto armato tra Russia e Ucraina, dal momento che è del tutto evidente che quest’ultima non può essere sussunta nella categoria di “potenza coloniale” o di “potenza del capitale finanziario”; né si può dire, per farvela rientrare, che essa sfrutti altri Paesi attraverso l’interscambio disuguale, o il debito estero, o attraverso gli investimenti esteri. Si tratta invece, in buona sostanza, di un Paese capitalista dipendente. In questo senso, la guerra, sul piano della relazione bellica fra Russia e Ucraina, non può essere definita “interimperialista”, proprio perché, come appena detto, l’Ucraina non è un Paese imperialista. Ma la guerra è sì interimperialista sul diverso piano dello scontro fra un campo (Russia) e l’altro (blocco Usa/Nato/Ue), come immediatamente spieghiamo nel testo.
[7] Utilizziamo questa espressione solo per restare ai fatti delle ultime settimane: in realtà, com’è noto, le mire espansionistiche verso est delle potenze occidentali, che rappresentano uno degli elementi caratterizzanti la guerra in corso, erano iniziate già da molto tempo, addirittura da prima delle proteste di Piazza Maidan. Già nel 1997, nel suo libro The grand chessboard, Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza degli Stati Uniti, sosteneva che l’Ucraina sarebbe stata l’ultima frontiera dell’Europa verso est e che la sua scelta fra Ue e Russia avrebbe determinato una volta per tutte una redistribuzione globale delle forze nello scenario mondiale, aggiungendo che l’Ucraina avrebbe dovuto prepararsi per una discussione seria con la Nato. Non solo: nel dicembre 2013, al termine dell’incontro della Commissione bilaterale Nato‑Ucraina, il generale Alexander Vershbow, all’epoca numero due della Nato, dichiarò che il futuro dell’Ucraina sarebbe stato in Europa; e il suo portavoce aggiunse che un’Ucraina stabile e indipendente sarebbe stata fondamentale per la sicurezza europea.
[8] M. Ferrando, “Lenin e l’Ucraina. La questione nazionale e la guerra”, 20 marzo 2022.
[9] V.I. Lenin, “Il socialismo e la guerra”, in Opere, vol. 21, Edizioni Lotta comunista, pp. 269 e ss.
[10] Ivi, p. 274.
[11] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, 1996, p. 31.
[12] V.I. Lenin, op. cit., pp. 274‑275.
[13] Ibidem.
[14] V.I. Lenin, “Situazione e compiti dell’Internazionale, in Opere, cit., vol. 21., p. 30.
[15] Possiamo pensare, ad esempio, alla questione palestinese, o a quelle kurda o sahrawi.
[16] V.I. Lenin, Conferenza delle sezioni estere del Posdr, in Opere, cit., vol. 21., p. 142.
[17] L. Trotsky, “La guerre et la IVe Internationale, cit., pp. 54‑55.
[18] L. Trotsky, “Le conflit italo‑éthiopien”, 17 luglio 1935, in Œuvres, cit., vol. 6, p. 51.
[19] V.I. Lenin, “Il fallimento della II Internazionale”, maggio‑giugno 1915, in Opere, cit., vol. 21, p. 210.
[20] Klement si riferisce qui alla tattica del disfattismo rivoluzionario.
[21] R. Klement, “Principles and Tactics in War”, in The New International, vol. 4, n. 4, maggio 1938, pp.144 e ss. Questo testo fu pubblicato dopo essere stato personalmente rivisto da Trotsky che suggerì alcune modifiche. Klement fu assassinato da sicari della Nkvd staliniana presumibilmente dopo il 12 luglio 1938, quando venne rapito. Il suo cadavere, smembrato, fu ritrovato nella Senna verso la fine di agosto.
[22] L. Trotsky, “Une leçon toute fraîche (Sur le caractère de la guerre prochaine)”, cit., pp. 67‑68. Le evidenziazioni sono nostre.
[23] V.I. Lenin, “Il fallimento della II Internazionale”, cit., pp. 210‑213.
[24] V.I. Lenin, “Il socialismo e la guerra”, cit., pp. 281‑282.
[25] Come infatti sostiene G.D.H. Cole nella sua monumentale Storia del pensiero socialista (Editori Laterza, vol. III, 1, pp. 120‑121), «nel considerare la situazione nel suo complesso non bisogna pensare che tutto fosse cominciato con l’assassinio di Sarajevo; quella situazione va vista invece come la fase finale di una guerra fredda internazionale molto complessa, che si protraeva ormai da parecchi anni peggiorando di giorno in giorno, e che da tempo i dirigenti socialisti studiavano con sempre maggiore preoccupazione. Dietro la controversia austro‑serba c’era la lunga storia delle rivalità imperialistiche nei Balcani, in cui erano implicate non solo la Russia e l’Austria‑Ungheria, ma anche la Germania e la Gran Bretagna […]».
[26] V.I. Lenin, op. ult. cit., p. 281.
[27] Cit. da M. Rébérioux, “Il dibattito sulla guerra”, in E.J. Hobsbawn e altri, Storia del marxismo, vol. II, p. 923. Dal canto suo, l’autrice del saggio “La Fédération contre l’alliance militaire: les socialistes balkaniques et les guerres balkaniques” (Le Mouvement Social, n. 147, aprile‑giugno 1989, Les Éditions ouvrières, Parigi, pp. 69‑70), J. Damianova, osserva che «il Manifesto non fu un atto isolato, né una dichiarazione formale. Alla vigilia dello scoppio della guerra dei Balcani, i socialisti dei Paesi balcanici dispiegarono una vasta attività contro la guerra. I congressi del Partito socialdemocratico serbo e del Partito socialdemocratico operaio bulgaro (i cosiddetti “socialisti stretti”) si svolsero nel 1912 sotto il segno della lotta contro la guerra e si pronunciarono per il regolamento pacifico dei problemi nazionali, per una federazione balcanica democratica. Nel settembre dello stesso anno, nel corso della mobilitazione, i socialisti organizzarono delle assemblee e delle riunioni di massa contro la guerra a Belgrado, Sofia, Bucarest e Salonicco. […] Al parlamento serbo, i due deputati socialisti Lapčević e Kaclerović votarono contro i crediti di guerra e lasciarono agli atti una dichiarazione speciale nella quale condannavano la politica militare serba e l’alleanza militare balcanica. In Bulgaria, l’unico deputato socialista dell’epoca, Yanko Sakazov, dirigente del Psdob (detto dei “socialisti larghi”), fu anch’egli l’unico deputato a votare contro la mobilitazione e contro la politica militare».
[28] J. Destréès, Les socialistes et la guerre européenne. 1914‑1915, G. Van Oest et Cie Éditeurs (1916), p. 71.
[29] L. Trotsky, La guerra y la Internacional (1914), Edicions Internacionals Sedov, pp. 14‑15 e nt. 3.
[30] Testo a firma Ferrando (v. nt. 8).
[31] L. Trotsky, “La guerre et la IVe Internationale, cit., p. 55.