Come ogni anno, la “Giornata del ricordo” rappresenta l’occasione per il revanscismo fascista di rialzare la testa tentando in questo modo, attraverso lo specchietto delle allodole delle “foibe”, di sviare l’attenzione della pubblica opinione dai crimini che il regime fascista commise nei territori dell’ex Jugoslavia.
Già in passato abbiamo affrontato questo tema attraverso l’articolo “Foibe, giornata del ricordo e manipolazione storica”, al quale rinviamo i nostri lettori.
Oggi, invece, pubblichiamo uno scritto della ricercatrice Claudia Cernigoi, che spiega dettagliatamente la matrice fascista che è alla base di questo vero e proprio disegno di manipolazione storica.
Buona lettura.
La redazione
Il filo nero nella costruzione del “processo per le foibe”
Claudia Cernigoi
Come fu creata la documentazione sui “crimini degli jugoslavi contro gli italiani”
C’è un fondo documentale conservato nell’Archivio del Ministero per gli Affari Esteri (MAE) che è stato più volte portato quale fonte per i presunti crimini attribuiti all’Esercito di Liberazione jugoslavo, all’intera Resistenza jugoslava ed alla Jugoslavia intesa come Stato. Sono stati acquisiti nel processo cosiddetto “delle foibe” istruito dal PM romano Giuseppe Pititto a seguito di una denuncia presentata nel 1994 dall’avvocato (già piduista) Augusto Sinagra[1]; sono stati utilizzati dal goriziano Luca Urizio per dimostrare l’esistenza di una “foiba” contenente centinaia di vittime, circostanza poi smentita dalle indagini della Procura di Udine; vengono di tanto in tanto tirati fuori acriticamente da chi ha come scopo la criminalizzazione del movimento antinazifascista jugoslavo, ed ogni volta “dimenticando” che si tratta di documenti noti da tempo e la cui attendibilità è stata più volte messa in dubbio.
Abbiamo in altre sedi detto che tali documenti, peraltro già analizzati dagli storici, non possono costituire “prove” in quanto si tratta sostanzialmente di “informative”, che di per se stesse non hanno valore di prova, sono semplici rapporti nei quali agenti di polizia o dei servizi informano i propri superiori di cose di cui sono venuti a conoscenza (anche le semplici “voci” circolanti tra la gente). Quindi, se non vengono suffragate da altra documentazione valida non possono essere considerate documenti definitivi.
Spieghiamo innanzitutto la genesi di questi documenti, affidandoci a quanto scritto dalla ricercatrice Valeria Barresi.
«Nel 1942 gli alleati in seguito alle numerose notizie relative ad eccidi commessi dalle truppe dell’Asse nei territori occupati, presero la decisione di costituire una commissione incaricata di indagare sui crimini di guerra, la United Nations Crimes Commission. Tra i criminali di guerra vennero indagati numerosi ufficiali italiani che avevano operato in Jugoslavia, Albania e Grecia. Di fronte a quelle accuse, il 22 settembre 1944 il Capo di Stato Maggiore, Maresciallo Giovanni Messe, incaricò i capi di Stato Maggiore delle tre forze armate di fare una puntuale verifica e parallelamente raccogliere dati e documentazione sui crimini commessi ai danni di militari e civili italiani». Fu quindi formato, all’interno della Sezione Zuretti del SIM (Servizio Informazioni Militare del Regno del Sud) il “Gruppo ricerche”, diretto dal 1944 al 1947 dal maggiore Domenico Lo Faso «con il compito di ricercare documenti e materiali nei territori occupati e fornire notizie sull’attività svolta da parte di personalità ed enti vari durante il periodo dell’occupazione».
In sintesi, di fronte all’eventualità di dover procedere per crimini di guerra nei confronti di ufficiali italiani che avevano operato sotto il passato regime, il Regno del Sud decise di raccogliere notizie in merito a crimini commessi da esercito e popolazione dei Paesi aggrediti nei confronti di chi li aveva invasi. E l’incarico per la costituzione di questo Gruppo Ricerche fu dato proprio da un ufficiale (Giovanni Messe) che nel 1939 era stato nominato vicecomandante del corpo di spedizione in Albania e partecipò, in questa veste, alle operazioni per la conquista del Paese nel periodo immediatamente precedente lo scoppio della guerra; successivamente fu inviato nuovamente nei Balcani e fu a capo del Corpo d’armata speciale nella campagna greco-albanese.
Il risultato di questa attività risulta da un «promemoria del Gruppo del 5 novembre 1945»: sarebbero stati recuperati «atti per comprovare le violenze commesse a danno dei militari italiani dai nemici», nello specifico i seguenti documenti: «106 (attestanti, N.d.A.) atrocità da parte francese, 127 da parte tedesca, 25 da parte greca, 10 da parte albanese e 108 da parte jugoslava»[2].
Le “informative” raccolte dalla Sezione Zuretti del SIM per dimostrare le violenze compiute dagli jugoslavi nei confronti degli italiani che avevano invaso il loro territorio confluirono nel dossier “Trattamento degli italiani da parte jugoslava 1943‑1947”, curato dal Ministero per gli Affari Esteri nel 1947, da presentare alla conferenza di Parigi per la definizione del trattato di pace. Il dossier è stato ristampato nel 2011 a cura dell’Istituto Fiumano di cultura con i finanziamenti della Regione Lazio (all’epoca guidata dall’ex sindacalista della CISNAL e poi dell’UGL Roberta Polverini, usa a salutare romanamente), e nella prefazione leggiamo che «il lavoro fu coordinato e realizzato nel convento dei SS. Apostoli a Roma, da Padre Alfonso Maria Orlini, Ministro generale dell’Ordine francescano dei minori conventuali, dal sig. Luigi Papo, dal dottor Manlio Cace e dal sig. Mario Rosa[3] (…) Fu stampato con carta patinata in oltre mille copie che furono requisite tutte dal governo italiano per essere distribuite alla Conferenza di pace. Ogni autore ricevette una copia con l’obbligo di non farla circolare (…) Grazie alle copie possedute dagli autori una parte del materiale contenuto nel volume fu pubblicato con l’appoggio morale e materiale del Tempo di Roma diretto da Gaetano Angiolillo[4] e fu diffuso in opuscoli a cura del Centro Studi adriatici»[5].
La documentazione raccolta comprende, oltre a documenti militari (relazioni dei Servizi della Marina, del SIM e dei Carabinieri), anche relazioni stese dal CLN triestino ed istriano dopo il maggio ’45 da Biagio Marin e Diego De Castro, e le relazioni di Maria Pasquinelli[6], la prima redatta nell’inverno ’43‑’44, la seconda dopo la fine della guerra. Però è in gran parte inattendibile, in quanto alcune informative si limitano a riferire una parte dei fatti senza inquadrarli nel contesto in cui sono svolti ed alcune relazioni sono invece del tutto apocrife, smentite dalle persone cui furono attribuite.
Emblematica a questo proposito la questione della cosiddetta “relazione Chelleri” (spesso citata per descrivere i presunti “infoibamenti” di Basovizza), attribuita al tenente Carlo Chelleri che ha però smentito di averla scritta[7]. Ma parimenti falsa anche una testimonianza attribuita al partigiano friulano Federico Vincenti relativa a presunte violenze commesse dagli Jugoslavi su prigionieri italiani internati nell’isola di Lissa (Dalmazia). Vincenti, che nel dopoguerra fu dirigente dell’ANPI, fu interrogato proprio nell’ambito delle indagini di Pititto e dichiarò ai Carabinieri di Udine di non essere mai stato internato in campi di concentramento jugoslavi, né era mai stato prigioniero di guerra in Jugoslavia, ma partigiano combattente, e che nell’isola di Lissa dal 1944 ebbe sede un comando militare jugoslavo, dove si trovavano militari jugoslavi, ufficiali di collegamento alleati ed anche militari nemici fatti prigionieri, ma non vi furono eccessi di nessun tipo.
Va inquadrata la figura di Luigi Papo, che nel periodo dell’occupazione nazifascista fu a comando del presidio della Milizia di Montona nell’ambito del 2° Reggimento MDT Istria e si rese responsabile di eccidi e rastrellamenti. Fuggito da Montona all’approssimarsi dell’Esercito di Liberazione, Papo venne arrestato a Trieste dai partigiani nel maggio ‘45, ma avendo dato un nome falso e non essendo conosciuto in città, fu internato nel campo di Prestranek e liberato dopo due mesi. Tornato in Italia, visse per un paio d’anni sotto falso nome (Paolo De Franceschi) in quanto sapeva di essere ricercato perché era stato inserito nell’elenco dei 750 criminali di guerra di cui la Jugoslavia aveva chiesto l’estradizione, addirittura davanti, in ordine di importanza, al suo stesso superiore Libero Sauro. Così lo stesso Papo racconta come riuscì a farsi cancellare dall’elenco dei ricercati: «L’onorevole Mario Scelba, allora ministro dell’Interno, sollecitato dall’on. Nino de Totto (che fu poi fondatore del Movimento Sociale a Trieste, N.d.A.) e dall’Autore (cioè lo stesso Papo, N.d.A.) si adoperò per l’archiviazione della richiesta di estradizione presentata dalla Jugoslavia»[8].
Nel 1946 fu assunto dalla Croce Rossa Internazionale a Roma che gli diede l’incarico di occuparsi dell’Associazione Schedario Mondiale dei Dispersi, dove chiamò a lavorare con sé, tra gli altri, come contabile Elio Eliogabalo che era stato ufficiale d’amministrazione del reggimento Istria; a dirigere l’Archivio Schedario mise un altro ex ufficiale del suo reggimento, Giovanni Stagni; infine, come segretario, assunse un altro “reduce” da Prestranek, Mario Scapin, che dopo essere stato ufficiale pilota all’epoca del fascismo, dopo l’8 settembre divenne questore di Varese «ma prima era stato uno dei triumviri che avevano ricostituito il Fascio a Trieste». Furono dunque queste persone ad occuparsi istituzionalmente del problema delle deportazioni e delle “foibe” nella Venezia Giulia, ma non solo: difatti l’ufficio era nato per i “dispersi” a livello mondiale.
La ristampa del volume fu presentata a Roma il 26/5/11, a cura dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia[9], nella sede de Il Tempo e con la presenza di Maurizio Gasparri (l’esponente missino all’epoca parlamentare del Popolo della Libertà), Guido Cace (figlio di Manlio), Aimone Finestra (ex sindaco di Latina, senatore dell’MSI che nel comunicato stampa viene indicato quale «comandante delle truppe cetniche anticomuniste sui monti della Dalmazia», il che presuppone una diserzione dall’Esercito italiano, ma nei fatti ex ufficiale del battaglione “Venezia Giulia” della divisione “Etna” della GNR, condannato ed amnistiato dal Tribunale di Novara), Lucio Toth (presidente nazionale dell’ANGVD) e Marino Micich (dell’Archivio del Museo Storico di Fiume, fondato da Amleto Ballarini e Claudio Schwarzemberg).
La costruzione di un’inchiesta
Facendo un balzo indietro nel tempo, vediamo i partecipanti ad un dibattito organizzato dall’MSI il 14/1/92 (in occasione del riconoscimento da parte dell’Italia della Croazia indipendente, per chiedere la ridiscussione del trattato di pace definito “diktat” e del trattato di Osimo e per rivendicare l’appartenenza all’Italia delle terre cedute). Il titolo era “Dalla fine della Jugoslavia al ritorno dell’Italia in Istria, Fiume e Dalmazia”, voluto fortemente da Gianfranco Fini, come stigmatizzato dal primo relatore, Nino De Totto, cui sono seguiti, tra gli altri, Amleto Ballarini (MSI), Roberto Menia (FUAN), gli avvocati Oddone Talpo (autore di testi sulla Dalmazia per conto dell’ufficio storico dell’esercito, collaboratore di Difesa Adriatica), ed Augusto Sinagra ed infine il senatore missino Aimone Finestra.
Consideriamo che il cosiddetto “processo per le foibe” prese il via da una denuncia presentata nel 1994 dall’avvocato Sinagra; che tra i primi testimoni ad essere sentiti ci fu Amleto Ballarini (presidente della Società di Studi Fiumani) assieme a Claudio Schwarzemberg; che Talpo fu indicato da Sinagra quale teste di parte civile; che Menia presenterà (19/7/96) una proposta di legge per la concessione di una medaglia d’oro al valor militare all’Associazione “Comune di Fiume in esilio” e successivamente sarà uno dei “padri” della Legge istitutiva del Giorno del ricordo (10 febbraio).
Consideriamo inoltre che il PM Pititto baserà le “prove” per chiedere l’incriminazione dei tre imputati sostanzialmente sui testi di Papo, Pirina e padre Flaminio Rocchi; che tra i testimoni (oltre a quelli citati) vi furono Papo, Pirina, Rocchi, Schwarzemberg e Toth, ed i giornalisti Fausto Biloslavo e Lucia Bellaspiga (che millantarono, ambedue, interviste ad Oskar Piškulić in realtà mai rilasciate dall’interessato, e resero quindi falsa testimonianza in sede processuale); e che al processo “per le foibe” cercarono di costituirsi come parti civili anche il Libero Comune di Fiume in esilio (difeso dall’avvocato Giuseppe Valentini di Roma); l’Associazione amici e discendenti degli esuli giuliani, istriani, fiumani e dalmati (difesa dall’avvocato Marcantonio Bezicheri di Bologna, già di Ordine Nuovo e noto per essere stato, a suo tempo, difensore del neofascista Franco Freda); l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (difesa dall’avvocato Guido Calvi di Roma, esponente diessino); l’Unione degli istriani e la Federazione delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati (difese dall’avvocato Francesco Caroleo Grimaldi di Roma[10]) ed infine la Consulta nazionale dei combattenti per la RSI (difesa dall’avvocato Luciano Randazzo, di Roma), associazione che in uno Stato che pone l’antifascismo tra i propri valori fondanti dovrebbe essere posta fuori legge (ma del resto erano combattenti della RSI, anche se posti agli ordini diretti del Reich, Papo, Rocchi e Finestra, per loro ammissione).
Consideriamo poi che nel 1997 Azione Giovani diede alle stampe un libretto “Il rumore del silenzio” per parlare dell’indagine in corso “sulle foibe” e conteneva, tra gli altri, oltre al testo della richiesta di rinvio a giudizio formulata da Pititto, interventi di Roberto Menia, Fausto Biloslavo (sempre in prima linea nella “caccia agli infoibatori”, che si domandò nel corso della presentazione del libro svoltasi a Trieste perché non sia mai esistita una organizzazione per la liberazione dell’Istria come invece esiste l’organizzazione per la liberazione della Palestina ed ha concluso auspicando che «il mare Adriatico diventi pacificamente, culturalmente quello che è sempre stato: un lago italiano»), Claudio Schwarzemberg, Marco Pirina, ed Augusto Sinagra. Il quale Sinagra nel corso della presentazione esternò in questi termini: «lo Stato italiano rivendica un diritto storico su regioni che sono italiane anche se provvisoriamente non lo sono (…) non mi interessa come finisce questo processo e non credo che sia importante che assassini della peggior specie e una zoccola come Avjanka Margitić, amante di Piškulić, vengano a sporcare le carceri dello Stato italiano», concludendo dicendo che il processo per le foibe istriane «serve ad ottenere in sede giudiziaria quella verità che ci è stata negata in sede storica e politica».
Il primo grado del processo si concluse nel 2001, con l’assoluzione di Piškulić per due omicidi e il non doversi procedere per amnistia per uno (gli altri due imputati erano deceduti prima dell’inizio del dibattimento); il secondo grado sancì il non luogo a procedere per difetto di giurisdizione nel 2003, sentenza confermata dalla Cassazione nel 2004.
Nel frattempo (aprile 2002) ebbe luogo un convegno promosso da Rinascita Nazionale (l’associazione di coordinamento della galassia comunitarista) in collaborazione con il fior fiore del comunitarismo rossobruno del periodo, nell’ambito del quale si svolse una tavola rotonda dal titolo: «La pulizia etnica anti-italiana nell’Adriatico orientale voluta da Londra e Washington. Istria, Fiume, Zara e Dalmazia (1944–47). Il genocidio dimenticato». Relatori: Dragoljub Kogčić (presidente della Srpska Demokratska Stranka), il magistrato Giuseppe Pititto, l’avvocato Augusto Sinagra, Luigi Papo, Dino Giacca (Associazione Continuità Adriatica, con un passato in Avanguardia Nazionale), Piero Sella (storico, presidente di Rinascita Nazionale) e Massimo Fini; cui sarebbe seguita una conferenza stampa sul «progetto per la rinascita della Continuità adriatica».
In pratica il magistrato che aveva istruito il processo per le foibe, l’avvocato che aveva fatto la denuncia ed uno dei testi d’accusa si ritrovarono a discutere di un progetto di “continuità adriatica”, che rappresenta più o meno il concetto espresso da Biloslavo sul ritorno dell’Adriatico ad essere “un lago italiano”.
E consideriamo infine che ancora negli anni più recenti l’avvocato Sinagra è stato protagonista (assieme ad ex testimoni d’accusa) di convegni che rievocavano il processo “sulle foibe”: così nel 2015 a Roma (organizzato dal Centro studi dell’ordine degli avvocati di Roma in collaborazione con la Società degli Studi Fiumani) “Istria Fiume e Dalmazia: Il ’900 dimenticato. Il dramma dell’Esodo giuliano-dalmata e delle Foibe”, assieme ad Amleto Ballarini, Marino Micich, e certo avvocato Falcolini che si sarebbe presentato come difensore d’ufficio di Ivan Motika (a noi risulta che le legali d’ufficio di Motika erano altre, ma tant’è), ed avrebbe «tratteggiato la storia del processo agli infoibatori». Nel 2018 Sinagra ha partecipato all’inaugurazione a Verona di una mostra (“Istria tragedia italiana del 900”) assieme ad un’altra teste d’accusa, la giornalista Lucia Bellaspiga; ed infine nel dicembre 2019 è stato ospite d’onore a Trieste alla manifestazione per i 65 anni di fondazione dell’Unione degli Istriani, dove è stato presentato come «un grande personaggio verso il quale tutti noi nutriamo grande stima: fu colui che ebbe il coraggio di denunciare i criminali croati Ivan Motika e Oskar Piškulić, responsabili e mandanti degli infoibamenti in Istria e a Fiume tra il 1943 ed il 1945, dando vita a quello che fu allora noto, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, come il “Processo delle Foibe”»[11].
Come abbiamo visto in questa rapida carrellata, i nomi dei protagonisti di questo “progetto” sono sempre gli stessi, così come è lo stesso il milieu politico‑culturale da cui provengono. E nonostante il processo si sia concluso con un non luogo a procedere per difetto di giurisdizione italiana, la campagna neo‑irredentista di destabilizzazione continua ad avanzare imperterrita, gli ex imputati continuano ad essere additati come “boia” in pagine web, in articoli di stampa, in pubblicazioni varie ed addirittura in spettacoli teatrali, come il recente lavoro della giornalista fiumana Laura Marchig e dello scrittore italiano di origine fiumana Diego Zandel, dall’inequivocabile titolo “Processo a Oskar Piškulić il boia degli autonomisti-Stato libero di Fiume. Chi ha paura di un’utopia”, nonostante le risultanze giudiziarie abbiano sancito che Piškulić non era un boia.
Ma forse non è un caso che sia stato proprio in un articolo di Laura Marchig, pubblicato sul quotidiano di lingua italiana di Fiume, La Voce del Popolo, nell’estate del 1990[12] (quando i politici sloveni e croati stavano preparando la dissoluzione della Jugoslavia ed in Croazia era da poco stato eletto presidente Franjo Tudjman, nazionalista e separatista) che per la prima volta Piškulić è stato indicato come unico responsabile dell’uccisione degli autonomisti fiumani, articolo da cui si sviluppò tutta la propaganda che sfociò nella denuncia presentata dall’avvocato Sinagra.
Note
[1] Nei fatti un imputato (Ivan Motika) fu accusato di sette uccisioni avvenute nel settembre ’43 in Istria e due imputati (Oskar Piškulić e Avjanka Margitić) per tre omicidi avvenuti il 3/5/45 a Fiume: e di “foibe” si parlò ben poco, se non nella propaganda condotta a lato dell’indagine giudiziaria.
[2] Le citazioni sono tratte da “Il Fondo H8 Crimini di guerra”, di Valeria Barresi.
[3] Non sappiamo se si tratti dello stesso Mario Rosa che era stato coinvolto nel golpe Borghese, come il Marco Pirina che negli anni 90 diede alle stampe, con dovizia di contributi pubblici, una serie di libri pieni di dati falsati ed inattendibili, finalizzati alla criminalizzazione della Resistenza, non solo jugoslava. Leggiamo: «Nel febbraio del ’76, nell’ambito dell’inchiesta sul tentativo di golpe Borghese, uno dei fascisti inquisiti, il dirigente romano del FUAN (e dell’organizzazione Fronte Delta) Marco Pirina, rivelerà di essere stato contattato anni prima da esponenti del Fronte Nazionale (fra cui Mario Rosa e Sandro Saccucci) che gli proponevano di associarsi al tentativo di golpe. Durante tali colloqui il Rosa avrebbe minacciato lo sconcertato Pirina ricordando che il FN aveva “sistemato (…) una persona che parlava troppo” facendo il nome di Calzolari» (cfr. “La strage di stato vent’anni dopo”, a cura di Giancarlo De Palo e Aldo Giannuli, ed. Associate, pag. 44). Calzolari era l’ex marò della Decima, uomo di fiducia di Junio Borghese, che fu trovato annegato (lui che era un esperto sub) in un pozzo di mezzo metro d’acqua poco tempo dopo la strage di piazza Fontana.
[4] Renzo de’ Vidovich, il «segretario generale della giunta d’intesa studentesca che assume la responsabilità d’indire i moti del 5 e 6 novembre 1953 per il ritorno di Trieste all’Italia» (poi parlamentare missino e tra gli autori della scissione di Democrazia nazionale) dichiarò che «A Trieste c’era un’organizzazione dell’esercito italiano che aveva dei depositi di armi e poteva contare su circa tremila persone. Io stesso venni contattato e andai ad addestrarmi per imparare a sparare, a Monfalcone, con istruttori militari italiani»; secondo un altro missino, il padovano Fabio De Felice, che fu contattato assieme al “camerata” Cesare Pozzo, i due sarebbero stati coinvolti da Renato Angiolillo (allora direttore del Tempo) che si qualificò come “portavoce” del presidente del consiglio dell’epoca Giuseppe Pella (cfr. Antonio Carioti, “I ragazzi della fiamma”, Mursia 2011, p. 40–42 e 107–108).
[5] La presentazione è di Guido Cace, figlio del dottor Manlio Cace e presidente dell’Associazione Nazionale Dalmata; il Centro Studi Adriatici fu fondato a Roma nel 1946 da Papo che lo descrive in questo modo: «il Centro è un istituto di carattere nazionale (…) considera il problema adriatico esclusivamente dal punto di vista nazionale: considera questo golfo mediterraneo come una unità geografica storica ed etnica e ritiene che la pace adriatica è subordinata alla ricostruzione della sua unità» (nella prefazione al libro pubblicato con lo pseudonimo Paolo De Franceschi, “Foibe”, 1949).
[6] Insegnante, studiosa di mistica fascista, agente dei servizi della Decima Mas, il 10/2/47 uccise a Pola (in segno di “protesta” per la firma del Trattato di pace che assegnava l’Istria alla Jugoslavia) l’ufficiale britannico Robin De Winton. Fu per questo motivo elevata ad icona del neoirredentismo nazionalfascista. È morta ultracentenaria nel 2013.
[7] Cfr. Roberto Spazzali, “Foibe. Un dibattito ancora aperto”, Lega Nazionale 1992, p. 87.
[8] L. Papo, “E fu l’esilio…”, Italo Svevo 1995, p. 101. Le citazioni che seguono sono tratte dallo stesso libro.
[9] Nello statuto di tale associazione si leggeva, fino al 2012, quanto segue: «II — SCOPI E FUNZIONI, Art. 2 (…) L’Associazione (…) in particolare si propone di: compiere ogni legittima azione che possa agevolare il ritorno delle Terre Italiane della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia in seno alla Madrepatria, concorrendo sul piano nazionale al processo di revisione del Trattato di Pace per quanto riguarda l’assetto politico di tali terre anche nel quadro del processo di unità europea».
[10] Nel 1994 candidato alle Elezioni europee per Alleanza Nazionale, poi fondatore dell’Alleanza Sociale Italiana ASI e nel corso di un convegno da questa organizzato nel febbraio 1997 a Roma sul tema della strategia della tensione e sul “filo rosso” della disinformazione, avrebbe «scaldato i cuori» dei presenti al convegno in questo modo: «“occorre ricostruire la storia attraverso la lettura della nostra vita. Guai dimenticare! Guai rinnegare!” (…) la relazione è interamente dedicata all’autoassolvimento di tutti gli attori della strategia della tensione, alcuni, come il Generale De Lorenzo, vengono elogiati per la correttezza, fedeltà ed integrità morale. Potrebbe fermarsi qui, ma incalza: “Signorelli, Spiazzi, Delle Chiaie sono innocenti! Non hanno mai abiurato, non si sono venduti alla logica dei salotti buoni… e sono tra noi, benvenuti, da liberi cittadini”» (cfr. M. Notarianni e G. Vidali su Liberazione, 5/2/97).
[11] Dal programma del 30/11/19 nella pagina FB dell’Unione degli istriani.
[12] Il titolo dell’articolo è una “citazione” attribuita a Piškulić (apocrifa, perché il diretto interessato ha smentito di avere rilasciato qualsiasi intervista a Laura Marchig), “Le foibe non ci sono, non è vero niente”, La Voce del Popolo, 28/7/90.