L’attuale livello della coscienza di classe del proletariato è, nella sua stragrande maggioranza, pressoché prossimo allo zero. Le idee dominanti della classe dominante appaiono, in questa fase, inarrestabili e si sono fatte strada fra i lavoratori, che nutrono passivamente una fiducia quasi illimitata nello Stato borghese, nelle sue istituzioni e nelle sue leggi. Persino un’avanguardia di classe, come il Collettivo dei lavoratori GKN, pur nel quadro della meritevole e radicale lotta che sta conducendo – senz’altro il più avanzato esempio di vertenza operaia in Italia – concede un piccolo spazio a questa fiducia attraverso la presentazione di un progetto di legge contro le delocalizzazioni (affronteremo specificamente questo tema in un prossimo articolo).
Ci piace perciò introdurre la questione del “feticismo giuridico” con questo sintetico ma efficace testo di Ariel Mayo, che affronta il problema attraverso la lettura che ne diede Rosa Luxemburg in quella che fu probabilmente la sua più importante opera, “Riforma sociale o rivoluzione?”.
Buona lettura.
La redazione
Rosa Luxemburg e la critica del feticismo giuridico
Ariel Mayo[*]
«Come si può abolire la schiavitù del salario “per via legale”,
… quando si è visto che di essa le leggi non fanno cenno?»
(Rosa Luxemburg)
La rivoluzione è passata di moda. Sebbene il capitalismo si manifesti quotidianamente come un regime sociale basato sullo sfruttamento dei lavoratori e della natura da parte di una minoranza di proprietari, il suo dominio non è oggi seriamente messo in discussione. Non è questa la sede per esaminare le ragioni di questa situazione. Basti dire che le sconfitte della classe operaia nel periodo ricompreso fra gli anni 70 e 90 sono le principali responsabili di questo clima epocale.
L’egemonia capitalistica si esprime nelle difficoltà che i suoi avversari incontrano quando propongono forme alternative di organizzazione sociale. Naturalmente, molti partiti e organizzazioni dei lavoratori continuano a proporre il socialismo come alternativa al capitalismo. Ma i loro sforzi sono inefficaci. Pur sapendo che quello capitalista è un sistema sociale che genera povertà e sfruttamento, la stragrande maggioranza dei lavoratori semplicemente non concepisce la possibilità di un’altra forma di società.
Le organizzazioni socialiste sbattono contro un muro, rappresentato appunto dal consenso passivo favorevole al capitalismo. Ovviamente, la situazione provoca demoralizzazione. Molte di esse hanno rinunciato alla lotta per il socialismo e sono giunte a riconoscere il capitalismo come l’orizzonte di ogni approccio alternativo. Per questi gruppi il compito principale è riformare il capitalismo, eliminando in ogni caso le forme di sfruttamento più aberranti.
L’accettazione del capitalismo come orizzonte politico va, generalmente, di pari passo con modifiche significative nei modi di fare politica. L’azione diretta delle masse è sostituita dalla fiducia nel percorso legislativo come strumento per modificare le condizioni sociali. Il luogo di lavoro e le piazze perdono rilevanza rispetto al Parlamento. La lotta di classe è sostituita dal feticismo giuridico.
In un precedente articolo ho fatto riferimento alla fiducia illimitata nella capacità delle leggi di trasformare la società. Non è una concezione nuova. Il feticismo giuridico si ripropone continuamente nei momenti di sconfitta dei lavoratori. Quando si chiude la possibilità di sconfiggere lo Stato capitalista, fiorisce la convinzione che sia possibile trasformarlo dall’interno attraverso l’emanazione di leggi “benevoli”.
Il feticismo giuridico è antico quanto la lotta della classe operaia contro il capitalismo. Ecco perché è possibile rivolgersi ai classici per criticarlo.
Rosa Luxemburg (1871‑1919) ha formulato una confutazione del feticismo giuridico nel suo testo Riforma o rivoluzione (1899)[1]. Il lavoro è diretto contro le tesi difese da Eduard Bernstein (1850‑1932) in I presupposti del socialismo (1899)[2]. Bernstein, uno dei teorici più influenti della socialdemocrazia tedesca, aveva proposto in questo lavoro una revisione generale della teoria marxista (da cui l’uso specifico del termine “revisionismo”, applicato alla corrente da lui guidata): l’obiettivo del revisionismo era guidare il partito verso la lotta per riformare il capitalismo, mettendo da parte la lotta rivoluzionaria.
Rosa Luxemburg affronta il problema della distinzione tra riforma e rivoluzione nel capitolo intitolato “La conquista del potere politico” della sua opera. Non è necessario riassumere qui l’intera argomentazione di Rosa Luxemburg contro Bernstein. Basti dire che quest’ultimo sosteneva che era necessario soppesare gli aspetti positivi e negativi sia della rivoluzione che della riforma legislativa, prima di lanciare critiche contro l’una o l’altra. Luxemburg risponde con un’osservazione metodologica: la riforma o la rivoluzione non sono strumenti disponibili in una cassetta degli attrezzi isolata dalla congiuntura politica.
«Riforma legislativa e rivoluzione non sono dunque metodi diversi del progresso storico, che si possono scegliere al buffet della storia, come salsicce calde o fredde, ma sono momenti diversi nello sviluppo della società classista, che si condizionano e completano a vicenda ma nel medesimo tempo si escludono a vicenda, come il polo nord e il polo sud, la borghesia e il proletariato» (p. 217).
Di fronte al problema dei modi per trasformare la società capitalista, Bernstein sceglie di separare la riforma dalla rivoluzione, fermandosi alla prima. In questo modo, impedisce la comprensione del modo in cui le riforme saranno efficaci.
«E in verità in ogni tempo la costituzione giuridica è semplicemente un prodotto della rivoluzione. Mentre la rivoluzione è l’atto politico creativo della storia delle classi la legislazione rappresenta la continuità della vegetazione politica della società. Giacché il lavoro di riforma sociale non ha in sé una propria forza di propulsione, indipendente dalla rivoluzione, bensì, in ogni periodo della storia, si muove solo nella direzione e per il tempo corrispondenti alla spinta che gli è stata impressa dall’ultima rivoluzione, o, per parlare concretamente, solo nel quadro di quell’assetto della società che è stato posto in essere dalla più recente rivoluzione. Proprio questo è il nocciolo della questione» (pp. 217 e s).
Per spiegare la natura del riformismo non basta comprendere il fascino che esso esercita sui militanti anticapitalisti. Definire “traditori” i riformisti oscura l’approccio alla questione, poiché un comportamento (il tradimento) che si ripete più e più volte non può essere compreso facendo appello esclusivamente alle qualità morali di chi “tradisce”. La ripetizione del “tradimento” (e la sua conseguente efficacia) implica l’esistenza di condizioni strutturali che lo rendano possibile. Il feticismo giuridico è una di quelle condizioni che rendono possibile il riformismo. Dietro il riformismo c’è la convinzione che le leggi siano il modo per trasformare la società. La forza di questa convinzione si basa sul fatto che le leggi sono state lo strumento scelto dalla borghesia per smantellare l’impalcatura del feudalesimo (una volta che, naturalmente, la borghesia ebbe raggiunto il potere politico).
Luxemburg disarma l’argomentazione del riformismo giuridico. Per ottenere questo risultato mostra il rapporto specifico tra le leggi e lo sfruttamento capitalistico. Nelle società precapitalistiche, in cui la classe dominante era esterna al processo di produzione e si appropriava del surplus con mezzi extra-economici, il controllo dello Stato era essenziale per il suo dominio. Così, la legislazione manteneva le differenze tra i gruppi sociali, imponendo rigide norme di dipendenza personale. Classe dominante, Stato e legislazione erano la stessa cosa. Ecco perché l’offensiva della borghesia contro la legislazione feudale ebbe un contenuto rivoluzionario.
Nel capitalismo, la borghesia esercita il controllo del processo di produzione. Sebbene richieda leggi che tutelino la proprietà privata, la sua posizione dominante è orientata verso il processo economico (che risulta da quella proprietà privata). Pertanto, il ruolo della legge cambia. Gli imprenditori hanno bisogno di lavoratori liberi, cioè non soggetti ad alcun rapporto di dipendenza personale (ad esempio, la schiavitù).
«Che cosa distingue la società borghese dalle precedenti classiste – antiche e medievali? Proprio la circostanza che il predominio di una classe poggia non su “diritti acquisiti” ma su effettivi rapporti economici, che il salariato non è un rapporto giuridico, ma un rapporto puramente economico. Non potrà trovarsi in tutto il nostro sistema giuridico una formula di legge che definisca l’attuale predominio di classe» (p. 219).
In altre parole:
«Nessuna legge obbliga il proletariato a soggiacere al giogo del capitale, bensì ve lo obbliga il bisogno, la mancanza di mezzi di produzione. Ma nessuna legge al mondo può decretargli questi nel quadro della società borghese, poiché egli non ne è stato privato da una legge, ma dallo sviluppo economico. Inoltre lo sfruttamento all’interno del sistema del lavoro salariato non si basa su legge alcuna […]. E il fatto stesso dello sfruttamento capitalistico non si basa su una disposizione di legge ma su un fatto puramente economico, per il quale la forza di lavoro risulta essere una merce, che ha, fra l’altro, questa pregevole caratteristica di produrre valore, e precisamente valore in misura maggiore di quanto essa stessa consumi nei mezzi di sussistenza dell’operaio. In una parola, tutte le condizioni fondamentali del dominio di classe capitalistico non si lasciano trasformare da riforme legislative su basi borghesi, giacché esse né sono state introdotte da leggi borghesi, né da simili leggi hanno ricevuto la loro forma» (p. 220)[3].
Se si accetta l’analisi di Rosa Luxemburg, il capitalismo non può essere abolito per legge. Le leggi possono essere molte cose, ma certamente non un percorso di liberazione nelle condizioni del capitalismo. La persistenza dello sfruttamento capitalistico consuma i benefici che la legislazione può portare.
Villa del Parque, 13 ottobre 2015
Note
[1] Tutte le citazioni che seguono sono tratte dalla seguente edizione: R. Luxemburg, Reforma o revolución, Arte Gráfico Editorial Argentino, Buenos Aires (2012). [N.d.T.: Per la traduzione in italiano del testo, abbiamo fatto ricorso a R. Luxemburg, “Riforma sociale o rivoluzione?”, in Scritti politici, vol. 1, Editori Internazionali Riuniti (2012). I numeri di pagina delle citazioni si riferiscono, ovviamente, a quest’edizione].
[2] Per la descrizione delle idee di Bernstein si può consultare il vecchio classico G.D.H. Cole, Historia del pensamiento socialista: III. La Segunda Internacional, 1889‑1914, (Capítulo V, Alemania: La controversia revisionista), Fondo de Cultura Económica, Barcelona (1986). [N.d.T.: Per la corrispondente traduzione in italiano di quest’opera, G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista. La Seconda Internazionale (1889‑1914), vol. III, 1, cap. V, La Germania: la polemica sul revisionismo, Editori Laterza (1968), pp. 299 e ss.].
[3] Le sottolineature sono mie.
[*] Ariel Mayo, studioso marxista argentino, insegna all’Università Nazionale di San Martín (Unsam) e all’Istituto Superiore di Formazione Docente “Dr. Joaquín V. González”.
(Traduzione di Andrea Di Benedetto)