Il 7 novembre 1917 (25 ottobre, secondo il calendario giuliano in vigore all’epoca in Russia), le masse popolari russe con alla testa il Partito bolscevico di Lenin e Trotsky conclusero, portandolo vittoriosamente a termine, il processo rivoluzionario iniziato dodici anni prima, nel 1905, prendendo infine il potere e imboccando la strada per la costruzione di una società socialista. Sugli avvenimenti che si svilupparono durante tutto quell’arco temporale rinviamo i nostri lettori ai tanti testi pubblicati nella sezione “Rivoluzione russa del 1917” di questo sito, utili per avere un panorama completo degli eventi.
Ci piace dunque ricordare questa ricorrenza presentando la testimonianza proprio di León Trotsky, protagonista di quel processo, pubblicando uno dei capitoli della sua opera, La mia vita: quello cioè che ripercorre i frenetici momenti che precedettero la presa del potere.
Buona lettura.
La redazione
La notte che decide
León Trotsky
Si avvicina l’ora solenne della rivoluzione. Lo Smol’nyj si trasformò in una fortezza. V’erano in solaio, eredità del vecchio Comitato esecutivo, circa venti mitragliatrici. II comandante dello Smol’nyj, il capitano Grekov, era un nostro nemico dichiarato. Il comandante dei mitraglieri invece venne a dirmi che i soldati erano coi bolscevichi. Io incaricai qualcuno – forse Markin? – di esaminare le mitragliatrici. La risposta fu che erano in cattivo stato e trascurate. I soldati erano stati apposta con le mani in mano perché non intendevano difendere Kerenskij. Io feci venire allo Smol’nyj un reparto di mitraglieri fresco e fidato. Era l’alba grigia del 24 Ottobre. Io andavo da un piano all’altro, un po’ per non star fermo, un po’ per sincerarmi che tutto fosse in ordine e per incoraggiare coloro che avevano bisogno di incoraggiamento. Sulle pietre dei corridoi lunghissimi dello Smol’nyj, ancora nella penombra, i soldati facevano scorrere le mitragliatrici con allegro frastuono. Era il reparto che avevo fatto venire. I pochi socialrivoluzionari e menscevichi rimasti nello Smol’nyj sporgevano dalle porte le facce spaventate. Siccome quella musica non prometteva nulla di buono si affrettavano ad abbandonare lo Smol’nyj uno dopo l’altro. Noi restammo i padroni assoluti del Palazzo che si preparava ad alzare la sua testa bolscevica sopra la città e il Paese.
La mattina presto incontrai per le scale un lavoratore e una lavoratrice che venivano di corsa dalla tipografia del partito ad annunciare che il Governo aveva vietata la pubblicazione dell’organo centrale del partito e del giornale del Soviet di Pietrogrado. Non so che agenti del Governo avevano messo i suggelli alla tipografia. Al primo momento la notizia faceva impressione: cos’è mai la potenza delle formalità! «Si possono strappare i suggelli?» domandò l’operaia. «Strappate pure e perché non vi succeda nulla vi daremo una buona scorta» risposi. «Vicino a noi c’è un battaglione di zappatori, i soldati ci difenderanno» disse l’operaia fiduciosamente. Il Comitato di guerra rivoluzionario emanò tosto queste disposizioni: «1. Le stamperie dei giornali rivoluzionari devono essere riaperte immediatamente. 2. Le redazioni e i tipografi riprenderanno subito il lavoro per pubblicare i giornali. 3. L’onore di proteggere le tipografie rivoluzionarie contro le mene della controrivoluzione è affidato ai gloriosi soldati del reggimento lituano e al 6° battaglione di zappatori». La tipografia riprese il lavoro senza interruzione e tutti e due i giornali uscirono.
II giorno 24 si incontrarono delle difficoltà all’ufficio telefonico: vi si erano insediati gli allievi ufficiali, e le telefoniste protette da loro s’erano messe contro il Soviet. Esse smisero di darci le comunicazioni. Quella era la prima manifestazione di sabotaggio. II Comitato rivoluzionario mandò all’ufficio telefonico un reparto di marinai che collocarono due cannoncini all’ingresso. I telefoni continuarono a funzionare. Così cominciò la conquista delle istituzioni amministrative.
II Comitato sedeva in permanenza al terzo piano dello Smol’nyj in una stanzina d’angolo. Là confluivano tutte le notizie sui movimenti di truppa, sul morale dei soldati e lavoratori, sull’agitazione nelle caserme, sulle intenzioni dei Cento Neri, sulle trame degli uomini politici borghesi e delle ambasciate estere, sulla vita del Palazzo d’Inverno, sulle sedute dei partiti del Soviet. Da tutte le parti arrivavano informazioni. Venivano lavoratori, soldati, ufficiali, portinai, allievi ufficiali, socialisti, domestici, mogli di impiegati. Molti comunicavano delle sciocchezze, altri portavano notizie serie e preziose. Durante l’ultima settimana non ero neanche uscito dallo Smol’nyj, passavo le notti vestito su un sofà di cuoio, dormivo nei brevi intervalli, destato continuamente da corrieri, esploratori, ciclisti, telegrafisti e frequenti chiamate telefoniche. Si avvicinava il momento decisivo. II dado era tratto.
Nelia notte del 25 Ottobre, i membri del Comitato rivoluzionario si recarono nei distretti. Io rimasi solo. Più tardi venne Kamenev. Egli era contrario all’insurrezione. Ma in quella notte decisiva stette con me, nella stanzina d’angolo del terzo piano che somigliava ad un ponte di comando. Nella stanza attigua, vuota, c’era il telefono, che scampanellava senza interruzione per cose importanti e per cose futili. Quel suono dava maggior risalto al silenzio. Era facile immaginarsi Pietroburgo abbandonata, male illuminata, spazzata dal vento autunnale. I cittadini e gli impiegati rannicchiati nei loro letti cercano di indovinare che cosa avvenga a quell’ora nelle strade pericolose, piene di mistero. I quartieri operai dormono il sonno vigile di un accampamento in guerra. Nei palazzi dello zar si riuniscono sfinite le commissioni dei partiti governativi, e i fantasmi viventi della democrazia incontrano quelli della monarchia non ancora svaniti. Ogni tanto le sete e le dorature delle sale si immergono nell’oscurità: manca il carbone. Nei distretti vigilano i reparti di lavoratori, marinai e soldati. I giovani proletari si scaldano per le strade intorno ai fuochi. In due dozzine di telefoni si concentra la vita spirituale della capitale che in questa notte d’autunno esce dalle strettoie di un’epoca per inaugurarne una nuova.
Da tutti i distretti, dai sobborghi, dalle porte della città arrivano le notizie. Sembra che a tutto si sia provvisto. I capi ai loro posti, le comunicazioni assicurate. Penso se non si è dimenticato nulla. Questa notte decide. Alla vigilia ho detto, profondamente convinto, ai delegati del secondo Congresso del Soviet: «Se voi non cederete, non ci sarà la guerra civile. I nostri nemici si arrenderanno subito e voi prenderete il posto che vi spetta di diritto». Non c’è da dubitare che vinceremo. La vittoria è sicura come può essere sicura la vittoria di un’insurrezione. Eppure queste ore sono piene di preoccupazione e di tensione, poiché è questa la notte che decide.
Il Governo ha mobilitato gli allievi ufficiali dando ieri l’ordine all’incrociatore Aurora di allontanarsi dalla Neva. Si tratta di quei medesimi marinai bolscevichi, ai quali nell’agosto Ts’ereteli si era presentato col cappello in mano per pregarli di difendere il palazzo d’Inverno contro Kornilov. I marinai hanno domandato al Comitato Militare Rivoluzionario cosa dovessero fare. E questa notte l’Aurora è allo stesso posto di ieri. Mi telefonano da Pavlovsk: il Governo chiede da Pavlovsk artiglieria, da Tsarskoe Selo un battaglione d’assalto, da Peterhof la scuola allievi ufficiali. Kerenskij ha radunato nel Palazzo d’Inverno gli alfieri, gli ufficiali, e i battaglioni femminili. Io ordino ai commissari di collocare dei reparti di sbarramento sulle strade che conducono a Pietrogrado e di mandare degli agitatori incontro alle truppe richieste dal Governo. Tutti i colloqui avvengono per telefono e sono quindi accessibili agli agenti del Governo. Ma costoro sono ancora in grado di controllare i nostri colloqui? «Se non vi riesce di fermare le truppe colle buone, ricorrete alle armi. Voi ne rispondete con la vostra testa». Io ripeto più volte queste parole. Eppure non sono ben persuaso dell’efficacia dei miei ordini. La rivoluzione è ancor sempre troppo fiduciosa, bonaria, ottimistica e leggera. Essa minaccia più a parole che a fatti e spera ancora di raggiungere tutto con la parola. Per ora ci riesce. Gli assembramenti nemici si squagliano davanti al suo respiro infuocato. Già il 24 fu emanato l’ordine di usare, appena i Cento Neri tentassero di organizzare dei pogrom per le strade, le armi e di procedere senza misericordia. Ma i nemici non osano mostrarsi per le strade. Essi si rintanano. La strada è nostra, tutte le vie d’accesso sono guardate dai nostri commissari. La scuola allievi ufficiali e gli artiglieri non hanno accolto l’invito del Governo. Soltanto una parte degli alfieri di Oranienbaum ha varcato di notte il nostro blocco, ed io seguivo per telefono la loro avanzata. Essi hanno terminato l’impresa mandando allo Smol’nyj dei parlamentari. Il Governo provvisorio ha cercato inutilmente un appoggio. Gli manca il terreno sotto i piedi.
La guardia esterna dello Smol’nyj è stata rinforzata con un nuovo reparto di mitraglieri. Le comunicazioni con tutte le parti della guarnigione funzionano. Tutti i reggimenti tengono pronte delle compagnie di guardia. I commissari sono pronti. Nello Smol’nyj ci sono dei delegati di tutte le truppe a disposizione del Comitato rivoluzionario per il caso che qualche comunicazione venga interrotta. Da tutti i distretti della città si avanzano dei reparti armati, suonano ai portoni o li aprono senza suonare ed occupano un ufficio dopo l’altro. Quasi da per tutto questi reparti incontrano degli amici che li hanno aspettati con impazienza. Alle stazioni ci sono dei comitati nominati apposta che sorvegliano i treni in arrivo e in partenza, sopra tutto i trasporti militari, Non c’è nulla di inquietante. Tutti i punti strategici della città cadono nelle nostre mani: quasi senza resistenza, senza lotta, senza vittime. Il telefono annuncia: «Siamo qui».
Tutto va bene. Non può andar meglio. Posso lasciare il telefono e mi siedo sul sofà. La tensione nervosa diminuisce. Allora un’onda cupa di stanchezza mi batte alla fronte. «Mi dia una sigaretta!» dico a Kamenev. In quegli anni io fumavo ancora, benché non sempre. Aspiro due boccate ed ho appena il tempo di pensare: «Non ci mancava che questo!» che già perdo i sensi. La tendenza al deliquio nei dolori fisici e nel malessere l’ho ereditata da mia madre. Ciò diede occasione ad un medico americano di dichiararmi epilettico. Quando rinvengo, vedo sopra me la faccia atterrita di Kamenev. «Devo andare a prendere qualche medicina?» mi domanda. «Sarebbe meglio», dico io dopo breve riflessione, «provveder da mangiare». Procuro di ricordarmi quando ho mangiato per l’ultima volta, ma non ci riesco: in ogni caso non è stato ieri.
Alla mattina mi precipito sulla stampa borghese e conciliatrice. Non una parola dell’insurrezione. I giornali hanno scritto e urlato da ossessi dell’imminente insurrezione di soldati armati, di saccheggi, di inevitabili disastri e fiumi di sangue, tanto che semplicemente non si sono accorti dell’insurrezione avvenuta. La stampa aveva preso per moneta sonante le nostre trattative con lo Stato Maggiore e per … indecisione le nostre dichiarazioni diplomatiche. Nel frattempo i reparti di soldati e marinai hanno occupato, in base agli ordini emanati dallo Smol’nyj, gli uffici, senza confusione, senza conflitti per le strade, quasi senza colpo ferire, senza spargimento di sangue.
Sotto il nuovo regime il cittadino si fregò gli occhi spaventato. È proprio vero che i bolscevichi hanno conquistato il potere? Da me si presentò una deputazione della Duma cittadina, la quale mi fece delle domande inimitabili: se intendevamo fare delle dimostrazioni, quali e quando, poiché la Duma «doveva saperlo almeno 24 ore prima». E quali misure il Soviet avesse preso per il mantenimento dell’ordine? Eccetera, eccetera. Io risposi spiegando la dialettica della rivoluzione e proponendo alla Duma cittadina di partecipare mediante un delegato ai lavori del Comitato militare della Rivoluzione. Ciò li spaventò più che l’insurrezione stessa. Io conclusi come sempre nello spirito della difesa armata: «Se il Governo userà il ferro, noi risponderemo coll’acciaio». «Lei scioglierà anche noi, perché siamo contrari a che il Soviet assuma il potere?». lo risposi: «La Duma cittadina è un’espressione del passato. Se si verrà ad un conflitto, noi proporremo alla popolazione di rifare le elezioni, perché queste decidano il problema del potere». La delegazione si allontanò come era venuta. Ma lasciò dietro a sé la sicurezza della vittoria.
In questa notte molte cose sono mutate. Tre settimane or sono abbiamo conquistato la maggioranza nel Soviet di Pietrogrado. Noi eravamo, si può dire, una bandiera: senza tipografia, senza cassa, senza reparti. Ancora nella notte scorsa il Governo ha deciso di arrestare il Comitato militare rivoluzionario e andava raccogliendo i nostri indirizzi. E ora una deputazione della Duma cittadina si presenta al Comitato rivoluzionario “arrestato” per informarsi del proprio destino.
II Governo risiedeva, come prima, nel Palazzo d’Inverno, ma si mutava ormai nella propria ombra. Politicamente esso non esisteva più. Durante il 25 ottobre il Palazzo d’Inverno viene circondato dalle truppe. Al tocco io riferisco al Soviet di Pietrogrado in merito alla situazione. I giornali ne parlano come segue: «In nome del Comitato di guerra rivoluzionario io dichiaro che il Governo provvisorio non esiste più (applausi). Alcuni ministri sono stati arrestati (bene!). Altri verranno arrestati nei prossimi giorni o nelle prossime ore (applausi). La guarnigione rivoluzionaria che è a disposizione del Comitato di guerra ha sciolto il Parlamento (applausi fragorosi). Noi abbiamo vegliato tutta la notte e seguito per telefono i reparti rivoluzionari dei soldati e dei lavoratori che svolgevano in silenzio la loro opera. I cittadini hanno dormito in pace senza sospettare che intanto un potere si sostituiva all’altro. Abbiamo occupato le stazioni, gli uffici postali e telegrafici, l’agenzia telegrafica di Pietrogrado, la Banca di Stato (applausi fragorosi). II Palazzo d’Inverno non è preso ancora, ma il suo destino si deciderà tra pochi minuti (applausi)».
Questa nuda relazione non dà un’idea precisa degli umori dell’assemblea. Aggiungo dai miei ricordi: quando ebbi riferito del cambiamento di Governo avvenuto nella notte ci fu qualche secondo di silenzio. Poi cominciarono gli applausi, ma non fragorosi, bensì pensosi. La sala assorbiva gli avvenimenti con cautela. Quando la classe lavoratrice si era preparata alla lotta, un entusiasmo indescrivibile l’aveva pervasa. Ora invece che avevamo passata la soglia del potere, l’entusiasmo cedeva il posto alla preoccupazione e alla riflessione. In ciò si rivelava un giusto istinto storico. Poiché davanti a noi erano in agguato le resistenze del vecchio mondo, battaglie, fame, freddo, disordine, sangue e morte. Sapremo vincere tutto ciò? si chiedevano molti fra sé. Quindi, il momento di riflessione. La risposta di tutti era: la vinceremo. In lontananza si vedevano lampeggiare nuovi pericoli. Ma ora regnava il sentimento della grande vittoria e questo sentimento cantava nel sangue. Esso si sfogò nella grandiosa accoglienza che si fece a Lenin quando, dopo quattro mesi di assenza, si presentò per la prima volta a quell’assemblea.
La sera tardi, in attesa dell’apertura del Congresso dei Soviet, io e Lenin riposavamo in una stanza accanto alla sala delle sedute, dove non c’era nulla all’infuori delle sedie. Qualcuno stese sul pavimento delle coperte, qualcuno (credo la sorella di Lenin) ci portò dei guanciali. Noi giacevamo uno accanto all’altro. II corpo e lo spirito si scioglievano come una molla troppo tesa. Quello era un riposo ben meritato. Ma non potevamo dormire. Discorrevamo sotto voce. Lenin si era finalmente tranquillizzato per il ritardo dell’insurrezione. I suoi timori svanirono. Nella sua voce si udiva un tono di particolare cordialità. Egli chiedeva informazioni sui posti di guardia formati dalle guardie rosse, dai marinai e dai soldati. «Che spettacolo grandioso: il lavoratore col fucile che si scalda al falò accanto al soldato!» andava ripetendo commosso. «Finalmente si son messi insieme il soldato e il lavoratore!». Ma ad un tratto esclamò: «E il Palazzo d’Inverno? Non è ancora occupato, vero? Purché non succeda qualche guaio!». lo volevo alzarmi per andare a chiedere informazioni telefoniche, ma egli mi trattenne. «Resti lì, incaricherò qualcuno». Ma non v’era molto tempo da rimaner sdraiati. Nella sala attigua fu aperta la seduta del Congresso del Soviet. La sorella di Lenin, Ul’janova corse da me. «Dan parla, chiamano lei». Dan esponeva con voce fioca ai “congiurati” le sue riserve e prediceva il crollo inevitabile dell’insurrezione. Egli chiedeva che facessimo una coalizione coi socialrivoluzionari e menscevichi. I partiti che ancora ieri, essendo al potere, avevano fatto la campagna contro di noi ficcandoci in prigione chiedevano oggi, dopo che li avevamo spodestati, che ci intendessimo con loro. lo risposi a Dan e con lui al passato della rivoluzione: «Quel che è successo non fu una congiura, ma una insurrezione. L’insurrezione delle masse popolari non ha bisogno di giustificazioni. Noi abbiamo rinsaldato l’energia rivoluzionaria dei lavoratori e dei soldati. Noi abbiamo fucinato apertamente la volontà delle masse verso l’insurrezione. La nostra insurrezione ha vinto. Ed ora ci proponete: rinunciate alla vittoria e venite a patti. Con chi? Voi siete delle misere figure effimere, siete dei falliti, la vostra parte è finita, andate al posto che vi compete da oggi in poi: tra la spazzatura della storia». Questa era l’ultima replica di quel grande dialogo che era cominciato il 3 aprile, nel giorno e nell’ora dell’arrivo di Lenin a Pietrogrado.