La “rivoluzione d’ottobre” è fallita
Collettivo Assalto al cielo
Ma no. Che avete capito? Mica ci riferiamo a quella russa, diretta nel 1917 da Lenin e Trotsky alla testa di milioni di operai, soldati e contadini! Quella, fortunatamente, ebbe successo, e su questo sito troverete decine di articoli che trattano le diverse fasi che portarono alla sua realizzazione.
Ci riferiamo invece a quella preannunciata qualche giorno fa in Italia e che aveva come obiettivo non il Palazzo d’Inverno, ma i porti del nostro Paese, a partire da quello di Trieste. Da questi luoghi di lavoro avrebbe dovuto prendere le mosse l’onda rivoluzionaria che, nelle intenzioni di chi l’aveva promossa, di chi vi aveva partecipato e, soprattutto, di chi l’aveva cavalcata, avrebbe dovuto sovvertire nientedimeno che l’ordine borghese.
’A pazziella ’mman’ a ’e criatur’[1]
È noto a tutti che l’elemento scatenante della protesta era … un pezzo di carta (o, per i più tecnologici, un “Qr‑code”): cioè il certificato verde che attesta l’avvenuta vaccinazione, o la guarigione dal Covid, richiesto per legge dal 15 ottobre scorso per entrare nei luoghi di lavoro.
Il “D‑Day” era fissato proprio per il 15 ottobre. I promotori della “insurrezione” avevano proprio usato quella parola: “rivoluzione”. E avevano minacciato di bloccare l’intero sistema portuale e quindi l’Italia tutta. Erano stati fin troppo espliciti: «Non entrerà nessuno di noi giorno 15 ottobre, se anche uno solo sarà lasciato fuori perché senza green pass». Anzi, avevano proclamato lo sciopero a oltranza finché il governo non avesse ritirato il decreto che stabiliva l’obbligo di esibire il certificato per accedere sul luogo di lavoro.
Il fatto è che, una cosa è avere un programma rivoluzionario intorno al quale si riconoscono masse enormi che rappresentano la maggioranza di una nazione, si pongono il problema del potere, hanno mezzi militari per conquistarlo; un’altra è lanciarsi in una battaglia parolaia su un obiettivo che non è in grado di mobilitare le masse perché rispetto ad esso la stragrande maggioranza dei lavoratori e delle classi sfruttate non è disposta a spendersi considerandolo irrilevante ai fini di un cambiamento concreto e reale delle proprie vite.
Com’è triste, Trieste
E così, l’intenzione di paralizzare l’intero sistema portuale italiano si è poi trasformata in un più modesto presidio dinanzi a un solo varco dei porti di Trieste e Genova e in qualche rallentamento degli afflussi in un altro paio di porti; il minacciato picchetto di quello di Trieste è diventato un “chi non vuole scioperare può entrare”; lo sciopero a tempo indeterminato è stato dapprima … “rideterminato” fino al 31 dicembre per poi essere revocato meno di 24 ore dopo, non senza millantare «Questa prima battaglia l’abbiamo vinta», per non dover ammettere di aver «fatto una enorme figura di m …».
Ma – e spiace doverlo ammettere – la pietra tombale su questa improbabile protesta, iniziata come un’insurrezione e conclusasi in un fiasco colossale, con la triste aggiunta delle dimissioni del suo leader, l’aveva già messa, solo poche ore dopo l’inizio della fatidica giornata del 15 ottobre, il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che con malcelata soddisfazione, aveva dichiarato: «Credo abbia prevalso la responsabilità, che era la cosa che tutti avevamo richiamato, un grande senso di responsabilità del Paese».
Il tradimento di una piattaforma
Ma non ci interessa più di tanto commentare il malinconico tramonto dell’inverosimile italica “rivoluzione d’ottobre”. Ci preme, invece, evidenziare il devastante effetto che la reazionaria parola d’ordine “no‑greenpass” ha avuto sui settori più avanzati della classe operaia attraverso la capitolazione ad essa – e al movimento che la incarna – della maggioranza del sindacalismo di base e combattivo e, soprattutto, delle sue direzioni.
Molteplici sigle del sindacalismo di base avevano, finalmente, proclamato per lo scorso 11 ottobre uno sciopero generale unitario sulla base di una piattaforma di lotta molto articolata. Ma, come era chiaro, essa non conteneva la rivendicazione dell’abolizione dell’odiato certificato vaccinale. Tuttavia, nel momento in cui la maggior parte del sindacalismo di base si è resa conto che una consistente fetta di lavoratori era diventata permeabile alle pulsioni reazionarie del più generale movimento “no‑greenpass”, invece di lanciare una battaglia politica e culturale per combattere queste posizioni penetrate all’interno della classe operaia, hanno capitolato ad esse tanto da far diventare quella parola d’ordine la principale – se non l’unica, almeno nella percezione diffusa all’esterno – rivendicazione dello sciopero dell’11 ottobre scorso.
La manifestazione che si è svolta a Napoli, ad esempio, aveva alla testa del corteo un enorme striscione che recava, appunto, il logo “no‑greenpass”: cosa che ha creato un forte disappunto in un settore di lavoratori della sanità che partecipava al corteo ma che ha abbandonato la piazza non condividendo lo slogan. Ci è stato anche riferito di singoli attivisti della stessa organizzazione sindacale organizzatrice dello sciopero che sono stati ricoperti di insulti per avere espresso analoghe critiche.
Una battaglia di retroguardia fondata sull’opportunismo
Il fatto è che una simile supina adesione alle rivendicazioni della piccola borghesia reazionaria – fatta perlopiù di bottegai insofferenti a regole che impediscono loro di fare profitti tenendo indiscriminatamente aperte le loro attività mentre vedono i portafogli della grande borghesia riempirsi di denaro a dispetto e contro la pandemia – dissimulava una politica opportunistica consistente nel lisciare il pelo a tre milioni di lavoratori non vaccinati (e che non intendono farlo sulla base di pregiudizi medievali, tanto sono antiscientifici). Una direzione politico‑sindacale che avesse davvero inteso porsi alla testa di importanti settori della classe operaia su basi avanzate avrebbe dovuto condurre una battaglia all’interno di quei settori rivendicando non la contrarietà al certificato vaccinale, ma invece l’obbligo vaccinale generalizzato e cure gratuite; avrebbe dovuto, collegandosi con il movimento operaio di altri Paesi imperialisti, esigere la distribuzione gratuita dei vaccini e l’assistenza sanitaria universale e gratuita per le popolazioni dei Paesi coloniali e sfruttati; avrebbe cioè dovuto combattere e sconfiggere quelle posizioni arretrate: in tal modo, avrebbe potuto sottrarre un consistente numero di lavoratori all’influenza della reazione piccolo‑borghese egemonizzata da frange neofasciste.
Al contrario, in particolare alcune delle organizzazioni sindacali promotrici dello sciopero generale dell’11 ottobre hanno creduto di poter compattare sulla rivendicazione “no‑greenpass” settori di classe operaia, mobilitandoli non su tutte le altre parole d’ordine contenute nella piattaforma dello sciopero, ma unicamente su questa. Hanno così ingenerato in loro l’illusione che si potesse “puntare più in alto”, ben oltre le rivendicazioni puramente economiche; hanno in pratica fatto credere che, attraverso una lotta senza quartiere contro un pezzo di carta, si sarebbe potuto dare quantomeno una spallata al governo.
E lo si è visto con l’inglorioso esito del presidio dei portuali di Trieste, i quali, credendosi supportati dal sindacalismo di base in questa battaglia di retroguardia, si sono invece trovati alla fine isolati e sostenuti dalle frange più reazionarie del movimento antivaccinista: proiettati, dunque, su posizioni ancor più arretrate di quelle di partenza. E con in più il peso di una colossale sconfitta sulle spalle.
Da un possibile passo avanti ai molteplici passi indietro. E ora?
Se l’obiettivo del sindacalismo di base era quello illusorio di poter assestare almeno un colpo al governo Draghi attraverso una battaglia a rimorchio della piccola borghesia reazionaria su parole d’ordine come quella di “libertà vaccinale”, il risultato è stato invece catastrofico. Da questa vicenda, paradossalmente, il governo Draghi esce vincitore, e senza aver sparato neppure un colpo: l’intenzione di indebolirlo si è trasformata nel giro di poche ore nel rafforzamento dell’esecutivo. Al premier è bastato tenere fermo sul punto, e ciò è stato sufficiente a mostrare tutta l’insipienza politica e l’insignificanza dirigente di quelle direzioni sindacali, la loro impreparazione politico‑organizzativa che è fondata su una sostanziale ignoranza teorica. Gli innegabili meriti della loro combattività sono stati vanificati da uno sconcertante livello di improvvisazione e di impreparazione frutto della politica opportunistica che hanno mostrato in questa fase.
È necessario, rispetto ad ogni azione politica, individuare e additare le responsabilità, senza fare sconti a una direzione che ha sbagliato, perché gli errori di una direzione ricadono sull’intero movimento. E in questo caso, a nostro avviso, con conseguenze enormi, dato che uno sciopero generale finalmente unitario proclamato dalle diverse sigle del sindacalismo di base avrebbe potuto far fare un passo avanti alla classe lavoratrice nel suo insieme; mentre invece la deriva populistico‑reazionaria assunta gliene ha fatto fare più di uno indietro.
Quello sciopero, quello dell’11 ottobre – dobbiamo dirlo a chiare lettere – è politicamente fallito. Non per i numeri o per l’effetto sulla produzione capitalista, ma perché gli obiettivi originariamente proclamati come base dello sciopero sono stati totalmente oscurati dall’adozione di una posizione retriva che ha portato tutta la classe operaia che aveva fatto propria la piattaforma rivendicativa su cui era stato convocato alla coda di un movimento reazionario imbracciandone la bandiera.
Ancora una volta, i lavoratori italiani dovranno ricominciare daccapo, nella consapevolezza di partire da una posizione di svantaggio. Ma dovranno innanzitutto interrogarsi sull’adeguatezza delle loro direzioni.
Crediamo sia il primo passo per il prossimo “che fare?”.
Note
[1] Antico proverbio napoletano: “Il giocattolino nella mani dei bambini”.