«El pueblo no come planes»
Le proteste dell’11 luglio aprono una nuova fase a Cuba?
Valerio Torre
«El pueblo no come planes». Il popolo non mangia piani: è una frase emblematica, pronunciata lo scorso mese di marzo dal primo ministro cubano Manuel Marrero Cruz in una riunione con 200 funzionari del Ministero dell’Agricoltura, in cui ha apertamente riconosciuto l’incapacità del suo governo di rifornire la popolazione di generi alimentari. Questo convegno si svolgeva proprio nel momento in cui a Cuba la crisi toccava il suo apice ed era estremamente difficile trovare e comprare cibo, medicine e altri prodotti di prima necessità. Fuori ai pochi negozi in grado di offrire articoli, lunghissime e snervanti code.
In un’economia comunque segnata dall’embargo imposto dagli Usa[1], la pandemia da Coronavirus, il crollo delle entrate provenienti dal turismo e la riforma economico‑valutaria[2] denominata “Tarea Ordenamiento” entrata in vigore lo scorso 1° gennaio hanno enormemente aggravato la crisi economica che imperversa sul Paese. Nel corso del meeting, Marrero ha francamente riconosciuto che la produzione alimentare costituisce il problema più importante che Cuba deve affrontare, addirittura un problema di «sicurezza nazionale», e che la domanda popolare al riguardo è «fortemente insoddisfatta», tanto che in alcune regioni «non si vende nulla per lungo tempo». Infine, il premier ha dovuto ammettere che «i piani di consegna di carne di animali di allevamento e maiale non sono stati assolutamente rispettati». Ecco spiegato, dunque, che “il popolo non mangia piani”.
Le manifestazioni dell’11 luglio
L’accesso generalizzato a internet (che è una conquista molto recente dei cubani) ha creato un’enorme cassa di risonanza, e non solo a livello nazionale, per il malessere popolare, che si è così tradotto nella denuncia diffusa attraverso le reti sociali della carenza di generi alimentari e medicinali e della fame patita da vasti settori di massa. Ad aggravare la situazione, l’aumento esponenziale dei prezzi di tutti i prodotti e le interruzioni pressoché quotidiane della distribuzione di energia elettrica per quattro‑sei ore. Ebbene, questa è stata la miscela esplosiva che domenica 11 luglio ha spinto migliaia di persone a scendere nelle strade di diverse città per manifestare contro il governo.
Gli slogan urlati esigevano soprattutto “libertà” e, parafrasando lo slogan castrista “patria o muerte”, rivendicavano invece “patria y vida”. In alcuni casi, sono state lanciate pietre all’indirizzo della polizia e ne sono state rovesciate alcune auto. Le forze dell’ordine (sia in divisa che in borghese) hanno represso con violenza le proteste, arrestando numerosi manifestanti.
Il presidente cubano, Miguel Díaz‑Canel – dal dubbio carisma rispetto ai fratelli Castro ai quali è succeduto alla guida del Paese – ha subito accusato gli Stati Uniti di essere gli organizzatori e i manovratori delle proteste, definendo i dimostranti “lacchè” e “mercenari”. Comparendo poi in televisione, ha invitato i “rivoluzionari” a scendere in strada a combattere, sottolineando che «l’ordine di combattimento è già stato dato», in un evidente tentativo di polarizzare la situazione fino ai limiti della guerra civile. Sono quindi state organizzate contromanifestazioni in difesa del regime con qualche scontro fra opposte fazioni.
La protesta è figlia della restaurazione del capitalismo
La violenta crisi economica che sta attanagliando Cuba viene da lontano, da molto lontano. Precisamente da quando i pilastri di un’economia in transizione verso il socialismo, prodotto della rivoluzione del 1959, vennero smontati pezzo a pezzo restaurando completamente il capitalismo sull’isola; da quando, cioè, la burocrazia castrista del Partito comunista cubano si è appropriata, attraverso l’occupazione del potere, dei mezzi di produzione nazionali, convertendosi da casta burocratica in classe, e precisamente in classe borghese: la nuova borghesia di Cuba, oramai uno Stato capitalista diretto da una dittatura sotto le mentite spoglie di un sedicente “partito comunista”.
Questa è la tesi che, con dovizia di argomenti, abbiamo sostenuto in quest’articolo, al quale perciò rinviamo[3].
Dunque, man mano che avanzava il processo di restaurazione del capitalismo (secondo la dinamica e il ritmo delle modifiche dell’assetto giuridico‑istituzionale che abbiamo descritto nel testo appena segnalato), tutte le conquiste della rivoluzione venivano una ad una perse, esattamente in funzione del passaggio ad un’economia capitalista. Tanto per fare un esempio, il pieno impiego, con l’approvazione, nel 2011, di un provvedimento che prevedeva il licenziamento di un milione di lavoratori statali (con una prima tranche di 500.000, equivalente al 10% della forza‑lavoro dell’intero Paese), con la giustificazione ufficiale di aiutare a rilanciare l’economia in difficoltà.
Non vogliamo dilungarci però sul tema della compiuta restaurazione del capitalismo a Cuba, che, in difetto di argomenti contrari a quelli che abbiamo sviluppato nel testo cui abbiamo appena rinviato, diamo per assodato e sul quale non torniamo in questa sede a discutere.
Vogliamo, invece, affrontare la questione delle proteste dello scorso 11 luglio, indagandone più a fondo le ragioni sulle quali ci siamo finora espressi solo di sfuggita; approfondendo l’argomento della composizione sociale delle manifestazioni; cercando di ipotizzare quale sviluppo potrà avere la fase che indubbiamente si è aperta; infine, tentando di trarre le opportune conclusioni politiche.
La crisi economica e sanitaria a Cuba
Abbiamo detto della scarsità di generi alimentari e medicinali. Al di là del peso dell’embargo, che inevitabilmente incide su un’economia come quella cubana, non diversificata e dagli scarsi investimenti, resta il fatto che, come riconoscono gli stessi canali ufficiali del governo, le spese sanitarie sono aumentate, a causa dell’emergenza da Covid‑19, rispetto a quelle originariamente previste nel bilancio statale: sicché, soltanto per far fronte alla pandemia è stata stanziata la cifra di 1,3 miliardi di pesos in più. E anche per l’anno corrente è previsto un aumento dello stanziamento per spese sanitarie.
Proprio per il fatto che Cuba è un Paese altamente dipendente dalle importazioni dall’estero a causa della sua scarsa capacità produttiva, la diminuzione dei volumi di commercio estero a livello mondiale ha inciso anche sulla situazione cubana, le cui importazioni nel 2020 si sono attestate a 7,04 miliardi di euro, in netta diminuzione rispetto all’anno precedente in cui erano state pari a 8,84 miliardi di euro.
Ma, oltre al peggioramento dei conti dello Stato, ci sono stati ancora altri fattori che hanno contribuito ad aggravare le condizioni della popolazione.
La violenta crisi in cui da anni versa il Venezuela[4] ha fortemente ridotto le esportazioni di petrolio e combustibili verso Cuba: ciò che ha creato una diminuzione della produzione di energia elettrica[5]. E uno dei motivi delle proteste è stato proprio la sospensione della distribuzione di corrente per periodi di quattro‑sei ore al giorno (e in regioni periferiche del Paese anche di più), col conseguente spegnimento dei condizionatori e dei frigoriferi, essenziali per il clima di Cuba.
Le rimesse dall’estero (in contanti e beni) – che rappresentano la terza fonte di reddito nella bilancia dei pagamenti cubana e costituiscono un ingresso significativo, dal carattere anticiclico e alla base del consumo per molte famiglie in tempi di crisi – sono significativamente diminuite proprio a causa della pandemia, passando dai 6,62 miliardi di dollari del 2019 ai 2,97 miliardi di dollari del 2020, con una caduta del 54,14%. Infatti, la più grande comunità cubana residente all’estero si trova negli Stati Uniti, nella contea di Miami‑Dade, in Florida[6]. Nel luglio dell’anno scorso, questo Stato è diventato il nuovo epicentro globale della pandemia. Gran parte della sua economia è basata sulle industrie del turismo, della gastronomia e dello spettacolo, le più colpite dalle restrizioni applicate per contrastare il Covid-19. A seguito della chiusura delle attività economiche è aumentata la disoccupazione nella comunità cubana che abita in quella località, e ciò ha prodotto un sostanziale fermo nell’invio delle rimesse, tanto essenziali per la vita dei nuclei familiari residenti sull’isola. Ma lo stesso fatto che il governo di Cuba abbia imposto una limitazione dei voli internazionali in ingresso nel Paese allo scopo di contrastare la pandemia ha avuto un’incidenza negativa sui flussi delle rimesse in beni materiali[7].
Anche l’economia interna ha subito le pesanti conseguenze del Covid‑19: la chiusura forzata di bar, ristoranti e negozi – che sostentano le entrate dei cuentapropistas (piccoli lavoratori autonomi, molti dei quali ex dipendenti statali licenziati[8] che si erano dovuti riciclare in queste modeste attività produttive) – ha dato un ulteriore grave colpo alle famiglie.
E il malcontento popolare ha riguardato anche l’assistenza sanitaria per quel che concerne la vaccinazione, tanto che fra gli slogan urlati durante le manifestazioni c’era quello per “più vaccini”. E infatti, a dispetto della narrazione, che soprattutto da noi è diffusa dai settori filocastristi a proposito della bontà del vaccino cubano, il tasso di vaccinazione a Cuba relativo a persone che ne hanno ricevuto almeno una dose è, mentre scriviamo, soltanto del 27,84% della popolazione.
Ciò non fa altro che impedire la ripartenza dell’economia.
La “Tarea Ordenamiento”
Ma un accenno e un rilievo a parte merita la riforma economico‑valutaria denominata “Tarea Ordenamiento”, entrata in vigore lo scorso 1° gennaio. Si tratta di un pacchetto di misure che, innanzitutto, provvede all’unificazione monetaria fra peso e dollaro (con la determinazione di un tasso fisso di cambio), generando una forte svalutazione della divisa nazionale allo scopo di recuperare competitività sui mercati esteri: l’obiettivo che il governo si era prefisso è quello di disincentivare le importazioni favorendo invece le esportazioni recuperando così valuta pregiata (dollaro) per l’economia nazionale, Ma, oltre a questo, i relativi decreti applicativi hanno anche disposto un aumento dei prezzi, che infatti sono saliti di cinque volte. Per compensarlo, si è deciso il contestuale aumento nella stessa misura di salari e pensioni[9]. Il fatto è, però, che, come fu segnalato in uno studio redatto dall’economista cubano Carmelo Mesa‑Lago nel febbraio 2021 (di poco successivo, dunque, all’entrata in vigore della riforma)[10], nel Paese c’era al momento dell’entrata in vigore della riforma un tasso di disoccupazione (fra quello ufficiale e quello occulto) del 30,9%: il che significa oltre tre milioni di cubani che non percepiscono salari, ai quali vanno aggiunti i cuentapropistas che non hanno lavorato durante il confinamento dovuto alla pandemia. È evidente, allora, che una simile massa di non percettori di reddito debba soffrire le conseguenze degli aumenti dei prezzi. D’altro canto, sempre Mesa‑Lago aveva evidenziato nello stesso studio che «gli effetti a breve termine dell’unificazione saranno avversi, poiché essa produrrà inflazione e disoccupazione, e potrebbe esserci una significativa caduta del potere d’acquisto se i salari e le pensioni restano sotto il tasso di inflazione»[11]. In ogni caso, lo stesso Diaz‑Canel – citato da Mesa‑Lago – aveva ipotizzato, a proposito dei rischi della riforma, che «uno dei principali è che si produca un’inflazione superiore a quella preventivata»[12].
A tutto ciò va aggiunto che il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni è fortemente diminuito, perché è vero che «il salario nominale è cresciuto dal suo punto più basso nel 1993, ma il salario reale (adeguato all’inflazione) è sotto il livello del 1989 e si è ridotto il potere d’acquisto. Il salario medio mensile nominale nel 2019 era di 879 CUP e, a causa dell’inflazione annuale, il salario reale nel 2019 equivaleva al 47,3% del suo valore nel 1989. Si è svalutato del 52,7% […], mentre la pensione media nominale di 362 CUP equivaleva al 64,3% del suo valore reale nel 1989. Si è svalutata del 35,7%»[13].
L’eliminazione dei sussidi (e una polemica a margine)
Come se non bastasse, con la riforma sono stati eliminati molti degli aiuti che lo Stato concedeva alla popolazione per avere accesso a beni di prima necessità a un costo estremamente contenuto, sussidiato dal governo.
Per avere chiaro il senso di una misura del genere, riportiamo di seguito la dichiarazione di José Alejandro Rodríguez, un dirigente del regime cubano, pubblicata sul sito governativo Juventud Rebelde alla vigilia dell’entrata in vigore della “Tarea Ordenamiento”: «Papà Stato si è infine convinto che la famiglia Cuba non può prosperare con tanta iperprotezione ugualitaria, al punto in cui i suoi figli laboriosi e valorosi si sfiancano lavorando e non progrediscono come desiderano per far sì che i loro fratelli sfaticati e senza regole vivano molto meglio, ricorrendo a truffe e inganni prosperando nelle difficoltà. Il vecchio paternalista ha capito che è lui il principale responsabile del fatto che l’intera famiglia non partecipa tutta insieme allo sforzo e dei tanti accomodamenti concessi a una parte dei suoi ragazzi e degli abusi da questi perpetrati. “Dai un pesce ad un uomo e oggi mangerà; insegnagli a pescare e mangerà per tutta la vita”, recita il saggio proverbio cinese che questo patriarca, così generoso verso i suoi figli, non ha saputo applicare col dovuto rigore, al punto che né i pesci e né i pani hanno potuto moltiplicarsi in abbondanza in questa famiglia. Adesso papà Stato sta cambiando le regole del gioco, perché non ha sempre saputo, o potuto, orientare i suoi ragazzi verso la regola per cui tutto viene dal lavoro. E ancora oggi molti di questi mantenuti credono di meritare questo mantenimento, facciano o meno qualcosa per la famiglia».
Come si vede, il burocrate cubano utilizza il tipico argomento che viene usato anche dai capitalisti nostrani: lo Stato come una famiglia, con il capofamiglia che è stato poco risoluto con i suoi figli, alcuni dei quali si rompono la schiena lavorando, mentre altri – sfaticati – vivono oziando delle paghette che il genitore concede troppo generosamente.
Se si voleva una prova del fatto che Cuba è ormai uno Stato capitalista a tutti gli effetti, governato da una cricca burocratica che si è convertita in classe borghese appropriandosi dei mezzi di produzione grazie ai quali estrae plusvalore dalla classe lavoratrice accumulando profitti, ecco: questa dichiarazione ne è la dimostrazione lampante. E ci sia consentita, di passata, una piccola nota polemica nei confronti di una delle organizzazioni che, pur richiamandosi al marxismo rivoluzionario, nega questa evidenza fattuale.
Jorge Martín, dirigente della Tendenza marxista internazionale, cui in Italia fa capo Sinistra Classe Rivoluzione, nel commentare l’affermazione di José Alejandro Rodríguez, si duole che questi abbia utilizzato un argomento tipico dei «difensori del “libero mercato” capitalista per giustificare l’attacco alle conquiste che la classe operaia ha strappato negli ultimi cento anni di lotte e organizzazione». L’ingenuità del compagno Martín è commovente: tanto gli sembrava impossibile che un dirigente della cupola castrista si fosse lasciato andare a una dichiarazione così sincera (evviva la sincerità!, ci viene da dire) che in un primo momento aveva addirittura pensato trattarsi di «un falso per screditare la rivista». Sarebbe bene invece che il candido Jorge – insieme a tutte le altre organizzazioni che, pur rivendicando la propria appartenenza al marxismo rivoluzionario, si dislocano nel campo del regime credendo in tal modo di “difendere la Rivoluzione” – scendesse coi piedi per terra e accettasse l’idea che una dichiarazione del genere non proviene da un incauto “compagno che sbaglia”, ma può essere fatta soltanto se la base materiale in nome della quale essa viene espressa è, appunto, quella capitalista. Ma avremo modo di soffermarci nel prosieguo del testo sull’atteggiamento di queste organizzazioni.
La rabbia popolare come conseguenza della riforma governativa
Dobbiamo anche aggiungere a quanto finora abbiamo esposto che una delle conseguenze della riforma è stata l’apertura di negozi in cui si poteva comprare solo in dollari (Tiendas en moneda libremente convertible). Ma, con il blocco del turismo dovuto alla pandemia e l’enorme riduzione delle rimesse in dollari di cui abbiamo parlato in precedenza, sono ormai pochi i cubani che possono spendere la divisa statunitense. E se anche ne avessero in contanti, non possono spenderla direttamente in questi esercizi, ma sono obbligati a depositarla in conti bancari ricevendo l’equivalente in carta di debito. Con questo sistema, il regime ha cercato di soddisfare il proprio disperato bisogno di rastrellare dollari sul mercato interno per poter pagare ciò che viene importato[14], dato che il peso cubano non è negoziato sui mercati finanziari; ma, al contempo, la popolazione si è ulteriormente impoverita. Per di più, mentre gli scaffali dei negozi in cui si può acquistare in pesos erano tristemente vuoti, quelli delle Tiendas en Mlc erano ben riforniti, ma inaccessibili al grosso dei cubani. Ecco perché durante le manifestazioni dell’11 luglio scorso la rabbia popolare si è indirizzata contro le vetrine di questi ultimi, simbolo della rapina di cui le masse popolari si sentono vittime.
Insomma, per riprendere il discorso, la riforma introdotta dal governo cubano non ha nulla da invidiare ai programmi di aggiustamento economico come li abbiamo visti nei Paesi europei dopo la crisi economica del 2009 e ha ulteriormente impoverito enormi fasce di popolazione.
È evidente, quindi, che il complesso di queste circostanze, così come le abbiamo rappresentate, ha scatenato la rabbia popolare che si è espressa nelle manifestazioni di qualche giorno fa: una rabbia inedita per un Paese come Cuba, in cui solitamente le proteste – quando ci sono – sono estremamente limitate e immediatamente messe a tacere. Ma una rabbia che non poteva fare a meno di esplodere in un quadro economico che ha visto il crollo del Pil dell’11% nel 2020.
L’embargo
Naturalmente, il governo cubano non riconosce affatto l’incidenza di tutto quanto abbiamo finora descritto sulle condizioni in cui vive la popolazione e, di conseguenza, sulle proteste dell’11 luglio scorso. Il ritornello che, come un disco rotto, le istituzioni governative recitano è quello dell’embargo imposto dagli Stati Uniti: la propaganda della cupola castrista ritiene che questa misura sia la causa dell’impoverimento generalizzato e utilizza quest’argomento per scrollarsi di dosso le responsabilità della situazione in cui versano le masse.
Ora, è innegabile, come abbiamo già detto, che l’embargo costituisca un ostacolo per lo sviluppo di un’economia, come quella cubana, non diversificata e dagli scarsi investimenti. Lo sarebbe anche per un’economia ben più florida. Ma la narrazione che viene diffusa – amplificata a livello internazionale da quel che resta delle organizzazioni staliniste e da quelle riformiste – fa volutamente e artificiosamente immaginare che nessun Paese del globo voglia vendere o acquistare un solo spillo da Cuba.
La verità è un’altra. Nonostante le sanzioni imposte dagli Usa, Cuba commercia col mondo intero. E con gli stessi Stati Uniti.
Solo per limitarci agli ultimi anni riportiamo di seguito i volumi dell’import‑export cubano (i valori sono espressi in migliaia di milioni di euro):
Esportazioni | Importazioni | ||
2020 | 1.911,2 M.€ | 2020 | 7.039,1 M.€ |
2019 | 1.841,9 M.€ | 2019 | 8.844,1 M.€ |
2018 | 2.009,3 M.€ | 2018 | 9.724,0 M.€ |
2017 | 2.126,2 M.€ | 2017 | 9.004,2 M.€ |
2016 | 2.093,2 M.€ | 2016 | 9.278,1 M.€ |
2015 | 3.019,1 M.€ | 2015 | 10.547,4 M.€ |
Nel 2019[15] Cuba ha venduto in Cina beni per il 38,2% del suo export complessivo; 10,5% in Spagna; 5,84% negli Usa; 5,44% nei Paesi Bassi; 5,37% in Germania; 3,21% in Svizzera; 2,99% in Portogallo; 2,15% in Francia; 1,53% in Russia; 1,38% in Italia, tra gli altri.
Le percentuali relative alle importazioni per lo stesso anno sono: 19,2% dalla Spagna; 15,2% dalla Cina; 6,20% dall’Italia; 5,40% dal Canada; 5,39% dalla Russia; 5,29% dagli Usa; 5,05% dal Brasile, tra gli altri.
In riferimento agli scambi con i soli Stati Uniti, i volumi dell’import‑export cubano sono i seguenti (espressi in milioni di dollari):
Esportazioni | Importazioni | ||
2021 (gen./mag.) | 1,6 M.$ | 2021 | 134,3 M.$ |
2020 | 14,9 M.$ | 2020 | 176,8 M.$ |
2019 | 2,5 M.$ | 2019 | 286,5 M.$ |
2018 | 1,3 M.$ | 2018 | 271,0 M.$ |
2017 | 0,0 M.$ | 2017 | 291,3 M.$ |
2016 | 0,0 M.$ | 2016 | 241,8 M.$ |
2015 | 0,0 M.$ | 2015 | 185,7 M.$ |
E dunque, come si vede dai dati sopra riportati, Cuba commercia con chiunque, compresi gli Usa, nonostante le sanzioni. Al riguardo, va anzi osservato, che studi della Camera di Commercio statunitense stimano che l’embargo rappresenti un danno per gli Usa nell’ordine di 1,2 miliardi di dollari all’anno. Per questo motivo, è da tempo attiva un’organizzazione no‑profit – EngageCuba – formata da diverse multinazionali americane che, consapevoli del pregiudizio che subiscono per non potere liberamente commerciare con il Paese caraibico (a tutto vantaggio delle concorrenti canadesi, europee e asiatiche), stanno attuando attraverso di essa un’opera di lobbying per porre fine all’embargo e potere partecipare anch’esse alla spartizione della torta del mercato cubano.
In ogni caso, poiché pecunia non olet[16] e una montagna di profitti val bene una sanzione, va evidenziato che diverse compagnie statunitensi (e non solo) commerciano e investono a Cuba infischiandosene del bloqueo: è lo stesso governo de L’Avana a segnalare che MSC Cruises SA (compagnia svizzera) con la sua filiale statunitense, Royal Caribbean Cruises e Norwegian Cruise Line Holdings (entrambe statunitensi), Amazon, Trip Advisor, Booking, Pernod Ricard (francese), Teck Resources Limited (canadese), tra le altre, sono state citate in giudizio in base alla legge Helms‑Burton, dinanzi a Tribunali Usa, da presunti eredi dei proprietari espropriati dopo la rivoluzione. Ma difficilmente queste società saranno sanzionate.
Pur non negando allora l’incidenza delle sanzioni imposte a Cuba, va smascherata l’interessata falsa narrazione della cupola castrista che, portando in primo piano le conseguenze dell’embargo, occulta le proprie responsabilità derivanti dalle criminali politiche economiche filocapitaliste tenute negli anni e aggravate dalla riforma del 2021, che – esse sì – hanno immiserito oltre ogni misura le masse popolari cubane inducendole a scendere in piazza per rivendicare una vita dignitosa.
Chi c’era a protestare?
Chiarite dunque le cause che hanno prodotto le manifestazioni dell’11 luglio, è necessario gettare uno sguardo sulla composizione sociale delle piazze per verificare se possa essere possibile che le migliaia di cubani che protestavano fossero composte tutte da “mercenari” e “lacchè dell’imperialismo”, e se chi le organizzava fossero agenzie controrivoluzionarie foraggiate dagli Stati Uniti e dai “gusanos” di Miami.
In primo luogo, sembra davvero strano che un regime tanto repressivo e con un controspionaggio così occhiuto da fare invidia a quello dell’ex DDR si sia fatto passare sotto al naso un complesso processo organizzativo che certamente avrebbe richiesto, per risultare efficace, risorse e tempo per poter essere implementato. E già questa sola osservazione smonta la costruzione governativa.
Ma, ciò detto, abbiamo confrontato moltissime delle ricostruzioni che circolano in rete ad opera di organizzazioni, gruppi e perfino singoli, riferentisi alla sinistra, anche cubana[17], e riteniamo attendibili – perché concordanti sulla base di diversi elementi – quelle per cui la stragrande maggioranza di chi ha partecipato alle proteste era composta da persone che intendevano esprimere il loro malcontento rispetto alla tremenda penuria di beni di prima necessità e medicinali provocata principalmente dalla crisi economica e dall’inefficienza della macchina burocratica statale, e aggravata dalle sanzioni imposte dagli Usa. Le manifestazioni allargatesi a quasi tutto il Paese hanno rappresentato il ripudio popolare contro le lunghe file per comprare generi alimentari di base, contro l’aumento dei prezzi e la cancellazione dei sussidi, contro l’aumento esponenziale dell’inflazione, contro le intollerabili interruzioni nella distribuzione di energia elettrica: tutti fattori, questi, che hanno favorito e reso possibile un’esplosione sociale certo significativa, viste le condizioni di inagibilità democratica imposte dal regime nell’espressione del pensiero, ma sicuramente non maggioritaria nel Paese. D’altro canto, proprio il fatto che la rabbia popolare sia stata rivolta contro le Tiendas en Mlc, inaccessibili alla quasi totalità della popolazione che non possiede valute straniere, ne è un’evidente dimostrazione.
Aleggiava inoltre, nelle manifestazioni, un sentimento – espresso con maggiore grado di consapevolezza soprattutto da settori giovanili – di responsabilizzazione del governo e delle sue politiche per l’incancrenirsi della situazione. E ancora: le proteste sono scoppiate, prima di propagarsi in altre zone dell’isola, nei quartieri più poveri ed emarginati e ad esse hanno partecipato settori di classe lavoratrice e popolare, disoccupati, studenti e insegnanti, operai e contadini. C’era un pezzo minoritario di intellettuali. E così pure fasce di sottoproletariato.
Questa variegata composizione sociale corrispondeva alle rivendicazioni di migliori condizioni di vita che sono state espresse nelle manifestazioni e che rappresentavano, non una dissidenza “politica”, bensì una dissidenza “sociale”.
Lo stesso Julio César Guanche, un noto intellettuale e accademico dell’Università de L’Avana, dopo i fatti dell’11 luglio ha segnalato che «la situazione cubana stava da parecchio tempo dando segnali che uno scenario come quello a cui abbiamo appena assistito sarebbe arrivato. Gran parte degli avvertimenti è rimasta inascoltata e molti dei loro autori, compresi quelli che avanzavano proposte patriottiche riflessive di dialogo e gestione del conflitto, sono stati silenziati, o peggio ancora, repressi». E ha evidenziato il grossolano errore da parte di un governo che ha chiamato a raccolta i propri sostenitori scagliandoli contro i manifestanti in una risposta violenta ai limiti della guerra civile: «Un popolo convocato dallo Stato e appoggiato da tutte le sue istituzioni, comprese quelle militari, non è “il popolo” che combatte la controrivoluzione. È una parte del popolo appoggiato dallo Stato che combatte insieme ad esso contro una protesta sociale che ha una lunga incubazione, cause note, domande urgenti, bisogni molto chiari e necessità profonde»[18].
Ciò vuol forse dire che non c’erano anche settori più o meno vicini alla controrivoluzione, alla borghesia reazionaria di Miami? Certo che no! Sicuramente erano infiltrati nelle proteste e agitavano parole d’ordine che sono il cavallo di battaglia della destra, ma erano infinitamente minoritari (e peraltro chiaramente riconoscibili). La propaganda reazionaria della parte più retriva della destra statunitense ha investito risorse per organizzare campagne pubblicitarie, soprattutto attraverso le reti sociali[19], ma non è riuscita a smuovere che frange assolutamente insignificanti della popolazione rispetto ai reclami sentiti e condivisi dalla sua stragrande maggioranza, che non si è mossa spinta dall’ideologia, bensì dallo “stomaco”.
E la “sinistra” cubana?
Va anche detto che alle proteste ha partecipato anche qualche piccolissimo gruppo politico che fa riferimento a una sorta di “sinistra” del Partito comunista cubano. Fra questi, quello che anima il sito “Comunistas”, un’organizzazione che non va al di là di qualche tiepida critica alla burocrazia, continuando a richiamarsi comunque alla tradizione castrista e, soprattutto, alla figura di Fidel. Questo gruppo si limita a rimproverare al partito e al gruppo dirigente un’eccessiva burocratizzazione, a disapprovare la corruzione e i bassi livelli di produttività dell’economia, a rimarcare il fatto che non ci sia discussione nel Paese e che ci siano nelle librerie pochi testi relativi a tutte le branche del sapere, a biasimare l’introduzione di misure capitalistiche. Eppure, nella tipica conformazione di quello che storicamente è il centrismo, i suoi militanti giocano al “piccolo chimico” pensando che con l’introduzione qui e là di qualche elemento di “socialismo”, Cuba potrebbe rinverdire i fasti della Revolución[20].
Uno dei principali esponenti di “Comunistas” è Frank García Hernández, un giovane sociologo e ricercatore iscritto al Partito comunista cubano, dipendente di un’istituzione culturale statale, che si è ritagliato una certa qual notorietà internazionale per avere organizzato – pur specificando di non essere trotskista – un convegno su Trotsky a L’Avana nel 2019, a cui hanno partecipato accademici e dirigenti di partiti, tendenze e gruppi della sinistra di diverse nazioni che si richiamano al marxismo rivoluzionario.
Ebbene, García Hernández si è trovato coinvolto nei disordini scoppiati durante le manifestazioni dell’11 luglio, alle quali ha partecipato – secondo quanto hanno dichiarato i suoi stessi compagni – «da militante del Partito comunista», ed è stato arrestato. Il suo arresto ha messo in moto una campagna internazionale di sostegno. Dopo poco più di ventiquattro ore di detenzione, è stato rilasciato ed è tornato a casa sua, dalla quale però non può uscire se non per lavorare o recarsi dal medico. I suoi compagni del sito benevolmente la definiscono «una misura cautelare» che dovrà essere osservata fino al termine del processo a cui sarà sottoposto.
Da parte nostra non possiamo che sentirci sollevati per la sua liberazione. Ci piacerebbe però sapere a che titolo il “militante del Partito comunista” García Hernández ha partecipato a quelle manifestazioni; quali slogan ha intonato; se esprimeva simpatia per i manifestanti che urlavano contro il governo o se, in quanto “militante del Partito comunista”, simpatizzava per quello stesso governo che nondimeno lo avrebbe di lì a poco represso e arrestato. E ci chiediamo anche se la tutt’altro che piacevole esperienza della detenzione farà cambiare idea a lui e al suo gruppo centrista rispetto al carattere repressivo, non soltanto perché “un po’ burocratico, anche se in fondo pur sempre socialista”, del regime che essi vorrebbero “riformare”, ma perché quel regime è invece espressione di una feroce dittatura capitalista[21].
E ora?
Dopo che le manifestazioni di protesta, a quanto è dato sapere, si sono esaurite nella stessa giornata dell’11 luglio, una violenta repressione, esplicita e al contempo sotterranea, si è fatta strada nella società cubana. Sono aumentati i reclutamenti di giovani in età militare e sono stati mobilitati i riservisti. Inoltre, il governo continua nella sua folle contrapposizione alle istanze popolari organizzando i lavoratori statali (i più soggetti ad essere ricattati a causa del loro rapporto di lavoro) in squadre paramilitari che pattugliano le strade e convocando manifestazioni di massa a difesa del regime per dare, anche all’esterno, un’immagine di pieno controllo della situazione.
Me acaban de pasar estas fotos. Son de la periferia de La Habana donde las tropas antimotines y “los revolucionarios” con palos en las manos han tomado las calles e impide que la gente salga. #SOSCuba pic.twitter.com/y0APqhWlat
— Abraham Jiménez Enoa (@JimenezEnoa) July 13, 2021
Intanto, anche a distanza di giorni, la repressione continua: la polizia fa irruzione nelle case sequestrando cellulari allo scopo di trovare video dai quali risalire ai partecipanti delle manifestazioni. Gli arresti sono ancora numerosi e non se ne conosce il numero preciso; molte famiglie non hanno notizie sulla detenzione dei propri cari. Dopo le proteste, per giorni la rete internet è stata interrotta e non ha dato segni di vita, con il chiaro obiettivo di evitare che venissero organizzate e convocate nuove proteste.
In questo momento, è pressoché impossibile fare previsioni sugli sviluppi della situazione. Certamente, non sembrano alle viste nuove manifestazioni; e, d’altro canto, il governo ha immediatamente assunto alcune misure perché fungano da valvola di sfogo dell’enorme pressione sociale accumulatasi: in particolare, ha aperto le frontiere all’importazione libera – senza cioè limiti quantitativi ed esentandoli dai dazi doganali – di generi alimentari, prodotti per l’igiene e medicinali. Naturalmente, si tratta di briciole che non modificheranno in nulla la disastrosa situazione in cui versano l’economia nazionale e le classi popolari.
Per questi motivi – l’esacerbarsi della repressione, da un lato; la stagnazione economica e l’ulteriore aumento della povertà della maggioranza della popolazione, dall’altro – il fuoco potrebbe continuare a covare sotto la cenere e il malcontento represso potrebbe ancora accumularsi fino a fungere da scintilla per altre esplosioni di rabbia sociale.
Se, quando e come, è difficile da dire. Ma quel che sicuramente si può affermare in questo momento è che la dittatura capitalista insediata a Cuba nel fortilizio edificato dalla burocrazia castrista sulla propaganda, sulle macerie e sulle ceneri della Revolución non morirà di morte naturale. Come accade per tutti i sistemi capitalisti, il possesso della forza (l’esercito e la polizia), della base materiale dell’economia (i mezzi di produzione) e di quella ideologica sulla società (monopolio della stampa, della cultura, dei mezzi di comunicazione), determina una tendenziale stabilità per il regime fino a che l’equilibrio non si spezza.
Cosa occorre perché ciò accada? Non proprio un’inezia: occorre che la classe operaia, appoggiata dai lavoratori delle campagne, dalla piccolissima borghesia urbana proveniente dalle file del proletariato (i cuentapropistas, che oggi si sono ri‑proletarizzati) e dai settori di base delle forze armate e di quelle paramilitari che il regime assolda fra le masse popolari, rovesci la classe borghese al potere espropriandola dei mezzi di produzione di cui essa si è appropriata ed espellendo i capitalisti stranieri dal Paese dopo averli parimenti espropriati. Occorre, insomma, la distruzione della società capitalista cubana oggi esistente e la costruzione di una società socialista: la vera Cuba socialista.
Come ottenere questo risultato? Non sta a noi dirlo, ma ai lavoratori cubani: che dovranno iniziare, sfidando la repressione del regime, un processo di autorganizzazione dandosi un programma di indipendenza di classe.
In questo arduo compito, che deve porsi l’obiettivo della rivoluzione sociale, sarebbe importante che il proletariato cubano venisse circondato dalla solidarietà politica innanzitutto delle masse popolari dell’intero continente latinoamericano e poi del mondo intero. Sarebbe importante anche la solidarietà militante delle organizzazioni internazionali che si richiamano al marxismo rivoluzionario. Ma questo, purtroppo, è un punto dolente – e drammatico – dell’intera vicenda che riguarda Cuba.
Cosa difende la sinistra internazionale? Non certo la rivoluzione!
Tralasciando le organizzazioni staliniste e filocastriste in giro per il mondo, sfortunatamente la maggior parte delle tendenze e dei partiti che si dicono marxisti rivoluzionari ritiene, chiudendo gli occhi sulla realtà cubana, che Cuba sia ancora uno Stato “socialista” – benché burocratizzato – e che sia necessario “difendere la rivoluzione” con una generica e assolutamente indeterminata “opposizione” all’attuale cricca al potere, ma lasciando sostanzialmente inalterati i rapporti sociali di produzione oggi vigenti perché ritenuti “socialisti”. Con maggiore o minore accentuazione, sostengono in Italia questa tesi Sinistra Classe Rivoluzione, Sinistra anticapitalista e il Partito comunista dei lavoratori, che replicano – in un’incoercibile coazione a ripetere – lo stesso, identico errore politico commesso a proposito del Venezuela. Come in quell’occasione, quando queste organizzazioni abbaiavano alla luna del paventato “golpe” dell’imperialismo ai danni del regime tardo‑chavista di Maduro dislocandosi perciò, al di là delle loro stesse intenzioni, nel campo politico del dittatore venezuelano[22], così oggi esse si dislocano in quello della cupola castrista de L’Avana.
Sulla base della loro analisi, la “difesa della rivoluzione” passa attraverso qualche slogan democraticista e una imprecisata “opposizione” a Díaz‑Canel e ai suoi accoliti. Curiosamente, nessuna di esse indica se essi dovrebbero essere sostituiti al governo e da chi; ma, considerando quanto si sono fatte imbambolare dal gruppo centrista cubano “Comunistas” (di cui riprendono del tutto acriticamente ogni dichiarazione), non pare fuori luogo pensare che abbiano in animo, se sarà proprio indispensabile, di proporre per la carica proprio i dirigenti e militanti di quel gruppo!
In ogni caso, tutte le organizzazioni cui ci stiamo riferendo sono unite nel proporre come rivendicazione “unificante” per le masse cubane quella contro l’embargo. Al di là di quanto abbiamo già precisato a proposito della reale portata delle sanzioni commerciali, va rimarcato che spostare del tutto il centro della lotta da un obiettivo “interno” (il regime e il governo che ne è l’espressione) a uno “esterno” (l’embargo) implica appunto, oggettivamente, un sostegno politico – per quanto involontario – a quel regime e a quel governo. Così come, limitarsi a propagandare un’indeterminata e timida “opposizione” al governo castrista non rende un buon servigio alle masse popolari cubane. Dal canto nostro, riteniamo invece che l’unico modo per difendere davvero il loro spirito rivoluzionario sia attraverso una rivoluzione sociale (e cioè, il rovesciamento violento del regime capitalista oggi vigente a Cuba e l’espropriazione della borghesia nazionale – impersonata dai bonzi del castrismo – ed estera, per avviare il processo di costruzione di una società socialista).
Il fatto è che, come giustamente ebbe a scrivere un intellettuale che peraltro non suscita nessuna simpatia in noi, «i cubani pagano il prezzo di essere rimasti imprigionati nei sogni della sinistra occidentale»[23]. In tanti – troppi! – a sinistra parlano romanticamente di “difesa della rivoluzione” ricordando i tempi lontani della gioventù e il poster di Che Guevara sulla parete della propria stanza. Ma gli argomenti che utilizzano dimostrano che in realtà essi difendono la nuova borghesia cubana nata dalla casta burocratica e parassitaria che ha tradito e affossato la vera Rivoluzione, che ormai resta solo un nostalgico ricordo.
E lo fanno quasi evocando una nuova “Baia dei Porci”[24], quasi facendo appello, per contrastare un’ipotetica invasione imperialista, a formare brigate internazionali. Eppure, come un nostro amico – attento e acuto osservatore della realtà della sinistra italiana – ha scritto, per sostenere quello che viene spacciato per “socialismo” cubano non servono le brigate internazionali. È sufficiente che i “tifosi” del regime vadano a farsi le vacanze a Cuba col portafoglio pieno di valuta pregiata. Rimetterebbero così in funzione il settore turistico della Isla. Che poi, in fondo, è pure un bel posto.
Note
[1] Ci soffermeremo più a lungo su quest’aspetto nel prosieguo di questo testo.
[2] Di cui pure parleremo più avanti.
[3] León Trotsky aveva previsto questa possibilità nella sua analisi sull’Urss: «La burocrazia sovietica ha politicamente espropriato il proletariato per difendere con i propri metodi le conquiste sociali del proletariato. Ma il fatto stesso che si sia appropriata del potere in un Paese in cui i mezzi di produzione più importanti appartengono allo Stato crea tra essa e le ricchezze nazionali rapporti interamente nuovi. I mezzi di produzione appartengono allo Stato. Lo Stato “appartiene” in qualche modo alla burocrazia. Se questi rapporti … si stabilizzassero, si legalizzassero, divenissero normali senza resistenza o contro la resistenza dei lavoratori, porterebbero alla liquidazione completa delle conquiste della rivoluzione proletaria» (L. Trotsky, La rivoluzione tradita, A.C. Editoriale, 2000, p. 294). D’altro canto, lo stesso Trotsky, in un’altra sua opera (“Encore une fois: l’Urss et sa défense”, 4 novembre 1937, in Quatrième Internationale, n. speciale, giugno 1938, pp. 86‑87), aveva ancor più esplicitamente ipotizzato «la possibilità, soprattutto nel caso di una decadenza mondiale prolungata, della restaurazione di una nuova classe proprietaria originata dalla burocrazia. L’attuale posizione della burocrazia, che “in qualche modo” ha nelle sue mani, attraverso lo Stato, le forze produttive, costituisce un punto di partenza estremamente importante per un processo di trasformazione».
[4] Ne abbiamo parlato in diversi articoli su questo sito: ad esempio, qui.
[5] Le forniture a Cuba di petrolio dal Venezuela sono passate dai 105.000 barili al giorno del 2012 ai 35.300 di oggi. Complessivamente, l’interscambio fra i due Paesi si è ridotto, tra il 2014 e il 2019, del 74%.
[6] Secondo il censimento degli Stati Uniti del 2019, quasi un milione di cubani vive in quella regione.
[7] I voli aerei dagli Usa verso Cuba erano stati 12.989 nel 2019, scesi poi a 2532 nel 2020.
[8] In seguito ai provvedimenti del 2011, come abbiamo spiegato più sopra.
[9] In alcuni casi, però, l’aumento dei prezzi è stato esponenziale, come nel caso dell’energia elettrica e del Gpl, aumentati rispettivamente del 500 e del 200%, benché, dopo le prime reazioni popolari, il governo abbia ridotto queste percentuali. Ma anche i beni del paniere basico sono schizzati verso l’alto: il riso è aumentato di 11 volte, il pane di 20, i fagioli di 12.
[10] C. Mesa‑Lago, “La unificación monetaria y cambiaria en Cuba: normas, efectos, obstáculos y perspectivas”, 5 febbraio 2021, Real Instituto Elcano.
[11] Ivi, p. 12.
[12] Ivi, p. 13.
[13] Ivi, p. 20.
[14] Esattamente in questi termini si è espresso il vice Primo ministro, nonché ministro dell’economia, Alejandro Gil Fernández, nella tavola rotonda tenutasi il 3 dicembre 2020 a proposito dell’applicazione della “Strategia economica e sociale”. Il resoconto di questo incontro si trova sul sito www.mep.gob.cu.
[15] Per il 2020 i dati non risultano essere stati ancora elaborati.
[16] “I soldi non puzzano”.
[17] Non abbiamo neanche preso in considerazione, com’è del tutto ovvio, quelle della stampa borghese e reazionaria di tutte le nazionalità.
[18] J.C. Guanche, “Cuba: solo la política nos hará amanecer mañana”, 11 luglio 2021, La Cosa.
[19] Ancora adesso, dopo la fine delle manifestazioni, è in atto, sotto forma di campagna internazionale che rivendica il “soccorso umanitario per Cuba”, un chiaro tentativo di ingerenza.
[20] Un esempio lampante di quest’atteggiamento può rinvenirsi nell’articolo “Socialismo sí, mercantilización no”. Ci preme però precisare che siamo consapevoli dell’approssimazione con cui abbiamo utilizzato il termine “centrismo” per caratterizzare il gruppo “Comunistas”. In realtà, con quest’espressione si definiscono di solito coloro che oscillano tra il riformismo e la rivoluzione. Nel caso di questi militanti cubani, verosimilmente il termine non è appropriato, poiché essi oscillano invece fra la difesa romantica del castrismo “fidelista” (di Fidel) e il maquillage concreto del castrismo “raulista” (di Raúl): in questo senso, forse, sarebbe stato più corretto caratterizzarli ricorrendo all’espressione “eclettismo”. I lettori ci perdoneranno l’imprecisione che però, per convenzione, manterremo nel prosieguo di questo testo.
[21] Una dimostrazione evidentissima del centrismo di questo gruppo sta nella conclusione dell’articolo con cui viene avanzata un’analisi sui fatti dell’11 luglio. Avuta conoscenza della simultanea convocazione nello stesso luogo di due contrapposte manifestazioni di sostenitori e avversari del governo, “Comunistas” ha dichiarato a gran voce di essere contrario ad entrambe con la surreale motivazione del rispetto delle regole di distanziamento per la pandemia! Crediamo che non ci sia migliore dimostrazione della nostra caratterizzazione di questo gruppo come “centrista”. Non sia mai che il regime pensi che il gruppo esprime pulsioni antigovernative, poco patriottiche e controrivoluzionarie … Sanitarie sì!
[22] Ne abbiamo diffusamente parlato su questo sito in diversi articoli: per esempio, qui, qui e qui.
[23] S. Žižek, “The Left’s Fidelity to Castro‑ation”, 29 novembre 2016, In These Times.
[24] La fallita invasione di Cuba da parte degli Stati Uniti in un’operazione organizzata dalla Cia.