Presentiamo ai nostri lettori, in occasione della giornata dell’8 Marzo, un saggio teorico già pubblicato sul sito Marxismo.net in cui viene sviluppata una polemica contro alcune correnti del movimento femminista che rivendicano il salario per il lavoro domestico. Si tratta di una rivendicazione che viene presentata da questi settori sulla base di argomentazioni solo apparentemente “marxiste”, ma che invece sfocia in una posizione reazionaria, e perciò anti‑marxista.
Ringraziamo i compagni di Sinistra Classe Rivoluzione, sezione italiana della Tendenza marxista internazionale, e del sito Marxismo.net per averci espressamente autorizzato a riprendere il testo che oggi pubblichiamo sulla nostra pagina web.
Buona lettura.
La redazione
Il lavoro domestico è lavoro non retribuito?
Come premesse teoriche sbagliate conducono a posizioni reazionarie nella pratica
David Rey
Con l’ascesa del movimento femminista e la lotta contro l’oppressione delle donne, settori della sinistra e dello stesso movimento femminista hanno ripreso l’idea del “salario per le casalinghe”. Classificano il lavoro domestico svolto dalle donne come lavoro “non retribuito” di cui i capitalisti approfittano per risparmiare. Qual è il punto di vista marxista su questa questione?
Silvia Federici, una nota esponente femminista e tra le più ferventi sostenitrici del salario al lavoro domestico, sostiene questa rivendicazione sulla base di quanto segue:
«Questo salario sarebbe un modo per cambiare la natura del lavoro domestico ed enfatizzare che è a tutti gli effetti un lavoro. Il lavoro domestico deve essere considerato un’attività retribuita, poiché “contribuisce alla produzione del lavoro e produce capitale, rendendo così possibile ogni altra forma di produzione”».
Possiamo sintetizzare le posizioni di questo settore della sinistra e del movimento femminista così: tra le mura domestiche i figli dei lavoratori vengono prodotti, nutriti e allevati e diventeranno i lavoratori di domani. I capitalisti beneficiano di questo lavoro senza pagarlo. Non fanno nulla per contribuire alla crescita di lavoratori pronti ad essere sfruttati nelle loro imprese quando entreranno nel mercato del lavoro. Inoltre chi svolge questo “lavoro riproduttivo” (ovvero chi riproduce la forza lavoro) è la casalinga, che non riceve un soldo per tutto ciò. Il suo lavoro è considerato “non qualificato” e di poco valore dal capitalismo, che considera solo il lavoro dell’uomo fuori casa. In conclusione: se l’“uomo” riceve una paga per un lavoro considerato produttivo, il “lavoro riproduttivo” – che è di fondamentale importanza per tirar su nuove generazioni di lavoratori – deve avere la stessa importanza del primo, e di conseguenza la casalinga dovrebbe ricevere un salario, cosa che le permetterebbe anche di acquisire indipendenza dal nucleo familiare.
Le questioni teoriche richiedono principi definiti rigorosamente altrimenti ci si può confondere facilmente. La posizione dei marxisti su questo tema si basa su due aspetti. Il primo è il punto di vista scientifico basato sulla teoria di Marx del valore‑lavoro, più specificamente per ciò che riguarda la composizione del valore della forza lavoro (cioè del salario). Il secondo è il punto di vista politico, socialista, che considera gli interessi generali della classe lavoratrice, e delle lavoratrici nello specifico, nella lotta per la liberazione sociale, per il socialismo e per superare la famiglia patriarcale.
Analizzeremo il lavoro domestico delle casalinghe sulla base di questi due aspetti, basandoci sulla comprensione delle leggi del capitalismo che determinano cosa sono i salari. Se non capiamo come funzionano queste leggi, non c’è giustificazione moralista del salario per le casalinghe che possa risolvere il problema della disuguaglianza sessuale e della povertà. Per semplificare la nostra analisi, come punto di partenza prenderemo l’esempio più semplice di una famiglia operaia in cui l’uomo lavora fuori casa e la donna adempie i compiti del lavoro domestico a casa.
Cosa sono i salari?
In primo luogo, dovremmo cominciare definendo il valore della forza lavoro – ovvero il salario – e come viene determinato. La forza lavoro è un insieme di abilità fisiche e intellettuali che permettono al lavoratore di prestare per un’impresa, un’istituzione o un individuo, un lavoro remunerato con un salario.
Il valore della forza lavoro, espresso in salari, è determinato nello stesso modo di tutte le altre merci: attraverso il tempo di lavoro socialmente necessario a produrla, cioè a produrre l’insieme dei beni di sussistenza necessari, nelle condizioni sociali di ogni epoca, a garantire la riproduzione del lavoratore. Così, con il suo salario il lavoratore può acquisire i mezzi di sussistenza necessari per poter continuare a lavorare quotidianamente: cibo, abitazioni, vestiti, istruzione, trasporti, ecc.
La riproduzione del lavoratore per mezzo del salario ha un carattere duplice: la riproduzione della forza lavoro dei lavoratori stessi per poter lavorare ogni giorno e – e qui sta il nocciolo della questione – per consentirgli di costruirsi una famiglia, cosa che garantirebbe, attraverso la riproduzione sessuale, i futuri lavoratori necessari a far sì che il modo di produzione capitalista possa continuare a funzionare quando la forza lavoro esausta si ritira dal processo produttivo.
Marx ed Engels sul salario e il lavoro domestico
Marx ed Engels si sono basati sulla suddetta definizione di salario in tutte le loro opere economiche. Secondo Marx:
«Che cos’è, dunque, il valore della forza‑lavoro? Come per ogni altra merce, il suo valore è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua produzione. La forza‑lavoro di un uomo consiste unicamente nella sua personalità vivente. Affinché un uomo possa crescere e conservarsi in vita, deve consumare una determinata quantità di generi alimentari. Ma l’uomo, come la macchina, si logora, e deve essere sostituito da un altro uomo. In più della quantità d’oggetti d’uso corrente, di cui egli ha bisogno per il suo proprio sostentamento, egli ha bisogno di un’altra quantità di oggetti d’uso corrente, per allevare un certo numero di figli, che debbono rimpiazzarlo sul mercato del lavoro e perpetuare la razza degli operai. Inoltre, per lo sviluppo della sua forza-lavoro e per l’acquisto di una certa abilità, deve essere spesa ancora una nuova somma di valori»[1].
Nella stessa opera, Marx sottolinea quanto segue:
«Il suo limite minimo è determinato dall’elemento fisico, il che vuol dire che la classe operaia, per conservarsi e per rinnovarsi, per perpetuare la propria esistenza fisica, deve ricevere gli oggetti d’uso assolutamente necessari per la sua vita e per la sua riproduzione. Il valore di questi oggetti d’uso assolutamente necessari costituisce quindi il limite minimo del valore del lavoro»[2] (sottolineatura nostra).
È importante notare che Marx sottolinea senza ambiguità che il salario non serve solo come mezzo per sostenere il singolo lavoratore, ma piuttosto per sostenere la sua famiglia, che comprende la casalinga e i figli. Come spiega Marx nel Capitale:
«Il valore della forza-lavoro era determinato dal tempo di lavoro necessario non soltanto per mantenere l’operaio adulto individuale, ma anche da quello necessario per il mantenimento della famiglia dell’operaio»[3] (sottolineatura nostra).
E ancora:
«Il proprietario della forza‑lavoro è mortale. Dunque, se la sua presenza sul mercato dev’essere continuativa, come presuppone la trasformazione continuativa del denaro in capitale, il venditore della forza‑lavoro si deve perpetuare, “come si perpetua ogni individuo vivente, con la procreazione”. Le forze‑lavoro sottratte al mercato dalla morte e dal logoramento debbono esser continuamente reintegrate per lo meno con lo stesso numero di forze‑lavoro nuove. Dunque, la somma dei mezzi di sussistenza necessari alla produzione della forza‑lavoro include i mezzi di sussistenza delle forze di ricambio, cioè dei figli dei lavoratori, in modo che questa razza di peculiari possessori di merci si perpetui sul mercato[4].
Anche Engels è chiaro al riguardo:
«Qual è il valore della forza‑lavoro? Il valore di ogni merce viene misurato dal tempo richiesto alla sua produzione. La forza‑lavoro esiste nella forma dell’operaio vivo, il quale ha bisogno di una determinata somma di mezzi di sostentamento per la propria esistenza e per la conservazione della propria famiglia, che assicura la continuità della forza‑lavoro anche dopo la sua morte. Il tempo di lavoro necessario alla produzione di questi mezzi di sostentamento rappresenta perciò il valore della forza‑lavoro. Il capitalista lo paga ogni settimana, e compra così l’uso di una settimana di lavoro dell’operaio. Fin qui i signori economisti saranno più o meno d’accordo con noi sul valore della forza-lavoro»[5].
Interessanti le osservazioni di Marx sulle spese per la formazione e l’istruzione del lavoratore, anch’esse incluse nel salario:
«Per modificare la natura umana generale in modo da farle raggiungere abilità e destrezza in un dato ramo di lavoro, da farla diventare forza‑lavoro sviluppata e specifica, c’è bisogno d’una certa preparazione o educazione, che costa a sua volta una somma maggiore o minore di equivalenti di merci. Le spese di formazione della forza-lavoro differiscono a seconda ch’essa ha carattere più o meno complesso. Queste spese di istruzione, infinitesime per la forza-lavoro ordinaria, entrano dunque nella cerchia dei valori spesi per la produzione della forza‑lavoro»[6].
La questione centrale è questa: come spiegano Marx ed Engels, il salario del lavoratore copre il tempo di lavoro necessario per sostenere il lavoratore in determinate condizioni sociali, affinché possa tornare al lavoro ogni giorno, e per la riproduzione della forza lavoro; cioè, per avere una famiglia e lasciare una discendenza. In breve, il cosiddetto “lavoro di riproduzione”, come una parte del movimento femminista definisce il lavoro domestico, è già pagato dal salario guadagnato dal lavoratore.
Dal punto di vista delle leggi del capitalismo, non c’è ingiustizia economica nel non pagare direttamente la casalinga per il lavoro che effettua in casa. Il presunto salario che le è dovuto – cioè i suoi necessari mezzi di sussistenza – è già incluso nel salario o nei salari di uno o più membri del nucleo familiare che lavorano fuori casa. Non si tratta di un’ingiustizia dello sfruttamento capitalistico, ma piuttosto di una situazione di oppressione e di schiavitù domestica sotto il modo di produzione capitalistico in cui la casalinga è condannata a svolgere il ruolo di serva per il marito e i figli, e a dipendere completamente dal primo per il proprio sostentamento. Per questo motivo, la richiesta di un salario per le casalinghe da parte di quella parte del movimento femminista è un’utopia che non può essere realizzata. È anche reazionaria, come spiegheremo a tempo debito, e non ha alcuna base economica scientifica.
I capitalisti sono così magnanimi?
Affrontiamo la questione da un’altra angolazione. Se svolge un lavoro produttivo, che consiste nel contribuire alla produzione di lavoratori salariati sotto forma di figli e marito (prepara il loro cibo, fa il bagno ai figli, si prende cura di loro quando si ammalano, li veste, pulisce e cura la casa, ecc.), la donna dovrebbe essere considerata come un’operaia che, proprio come suo marito, dovrebbe avere un prezzo‑salario costituito dai mezzi di sussistenza per il sostentamento quotidiano. Ma, naturalmente, non ricevendo la paga direttamente da nessun capitalista in particolare, sarebbe condannata a morire di fame, ma non è questo il caso. Da dove provengono, quindi, i mezzi di sussistenza per la sopravvivenza della casalinga? Da dove provengono i soldi dovuti alla madre per pagare l’educazione e l’assistenza sanitaria dei figli, o per pagare la casa in cui vive, se non riceve un centesimo come casalinga? Non importa quanto ci si pensi, la risposta è chiara come il giorno. Tutti i mezzi di sussistenza necessari per la moglie e i suoi figli (cibo, alloggio, vestiti, istruzione, salute, elettricità, ecc.) possono provenire – come accade in realtà – solo dal salario del marito. Detto questo, se il salario del marito dovesse includere solo i mezzi di sussistenza per il suo sostentamento, non ci sarebbe assolutamente nulla per la moglie o per i figli. O forse i capitalisti sono così magnanimi da pagare all’operaio un salario attraverso il quale molte persone possono (a malapena) sopravvivere? Questa è, in sostanza, la situazione.
Se i capitalisti prestassero attenzione al ragionamento come quello della Federici, direbbero: “Quello che proponete ci suona bene. La donna deve essere pagata per il suo lavoro e, nella misura in cui più di una persona può vivere con il salario che noi paghiamo all’operaio, ridurremo il salario dell’operaio al minimo indispensabile perché possa tirare avanti, come se vivesse da solo (per non violare la teoria del valore‑lavoro di Marx, che stiamo violando da due secoli senza nemmeno rendercene conto, come ci dicono questi consiglieri di sinistra) e daremo alla casalinga la quota che le è dovuta perché possa vivere con i suoi mezzi”. In altre parole, i datori di lavoro darebbero ogni settimana due pacchetti salariali: uno per i loro dipendenti e uno per le mogli dei dipendenti.
Assicurare uno stipendio alla casalinga sarebbe una grande vittoria per la causa femminista, anche se sarebbe stata ottenuta a costo di dimezzare lo stipendio del marito. Alla fine, non sarebbe cambiato nulla; combinando i due salari si otterrebbe lo stesso salario che il marito aveva prima. Il capitalista non avrebbe in alcun modo dato più di quanto non avesse dato prima. Quindi, questo cosa proverebbe? Dimostrerebbe che il salario del marito comprendeva i mezzi di sussistenza della moglie e dei figli, che era quello che volevamo dimostrare e che Marx ed Engels avevano già spiegato e mostrato un secolo e mezzo fa.
La svalorizzazione del salario familiare
La realtà della natura del salario e del sostentamento della famiglia si conferma in molti modi nella quotidianità.
In un Paese capitalista arretrato come la Spagna, l’integrazione su larga scala delle donne nel lavoro produttivo è avvenuta più tardi rispetto all’Europa occidentale e al Nord America. Di conseguenza, oggi è molto comune per le persone anziane affermare che quaranta o cinquanta anni fa una famiglia si manteneva con un solo salario (quello del marito, possiamo aggiungere), mentre ora, ogni coniuge deve lavorare, e anche così si riesce a malapena a sbarcare il lunario. In che modo questo influisce sulla teoria di Marx sulla composizione del salario nella famiglia operaia? Il cambiamento che si è verificato è che l’assorbimento di massa delle donne nel mercato del lavoro ha creato le condizioni in cui il capitale tende a ridurre il salario medio generale poiché, nella misura in cui la donna lavora, il marito non ha più bisogno di mantenere la moglie e il resto della famiglia con un’entrata “extra”.
Questo era già stato spiegato in precedenza da Marx quando aveva illustrato l’effetto dei macchinari sulla famiglia che lavora, non solo con l’inserimento delle donne nel lavoro fuori casa, ma anche con quello dei bambini che vivono nel cuore stesso della famiglia:
«Le macchine, gettando sul mercato del lavoro tutti i membri della famiglia operaia, distribuiscono su tutta la famiglia il valore della forza‑lavoro dell’uomo, e quindi svalorizzano la forza‑lavoro di quest’ultimo. L’acquisto della famiglia frazionata p. es. in quattro forze‑lavoro costa forse di più di quanto costasse prima l’acquisto della forza‑lavoro del capofamiglia, ma in cambio si hanno ora quattro giornate lavorative invece di una, e il loro prezzo diminuisce in proporzione dell’eccedenza del pluslavoro dei quattro sul pluslavoro dell’uno. Ora, affinché una sola famiglia possa vivere, quattro persone devono fornire al capitale non solo lavoro, ma pluslavoro. Così le macchine allargano fin dal principio anche il grado di sfruttamento, assieme al materiale umano da sfruttamento che è il più proprio campo di sfruttamento del capitale»[7].
In altre parole, il salario che permette a una famiglia di mantenersi viene svalorizzato individualmente, nella misura in cui un numero maggiore di membri della famiglia che vive all’interno del nucleo familiare viene incorporato nel mercato del lavoro, il che specularmente conferma che ogni singolo salario include una quota proporzionale che permette alla famiglia nel suo insieme di mantenersi.
Naturalmente, come avviene in altri aspetti dell’economia capitalista (prezzi, saggio di profitto, saggio di plusvalore, ecc.), non succede che ogni capitalista aggiusta il salario dei propri lavoratori singolarmente, soppesando attentamente ogni singola situazione, ma piuttosto che il salario medio viene fissato in base alle condizioni date in ogni ramo di produzione e area geografica in base al tipo di famiglia media in una data area geografica e in linea con il costo medio dei beni di base in tale area.
Marx discute a lungo le implicazioni per la famiglia del lavoro della donna fuori casa e dice quanto segue in una delle note a piè di pagina del Capitale:
«Poiché certe funzioni della famiglia, p. es. la custodia e l’allattamento dei figli, ecc., non possono essere soppresse completamente, le madri di famiglia sequestrate dal capitale debbono prezzolare, chi più, chi meno delle sostitute. I lavori richiesti dal consumo familiare, come cucito, rammendo, ecc. debbono essere sostituiti con l’acquisto di merci finite. Così alla diminuzione del dispendio di lavoro domestico corrisponde un aumento del dispendio di denaro. Quindi i costi di produzione della famiglia operaia crescono ed equilibrano le maggiori entrate. Si aggiunga che l’economia e il discernimento nell’utilizzo e nella preparazione dei mezzi di sostentamento diventano impossibili»[8].
In parole povere, non importa quanto il salario familiare aumenti con l’incorporazione delle donne nel lavoro produttivo, questo è controbilanciato dall’aumento dei costi di mantenimento della famiglia, sia che ciò sia dovuto al maggiore consumo di beni di base che non erano necessari in precedenza (vestiti, ecc.) o alla necessità di ricorrere a lavoro retribuito per prendersi cura dei bambini, pulire la casa, ecc.
I bambini sono un “valore di scambio” prodotto dalla casalinga?
Un ultimo aspetto da analizzare è l’affermazione dei teorici di questa corrente femminista secondo cui le casalinghe sono lavoratrici e la loro funzione è quella di trasformare i loro figli in merce “forza lavoro”, nuovi salariati, che hanno un “valore di scambio”, un costo di produzione per il quale, come sappiamo, non ricevono alcuna retribuzione. Anche se questo aspetto è già stato ampiamente trattato nella nostra precedente analisi, vale la pena di approfondire questo punto per giungere a nuove conclusioni.
Nel loro libro El trabajo reproductivo o doméstico, Isabel Larrañaga, Begoña Arregui, e Jesús Arpal affermano:
«L’eclissi del lavoro riproduttivo da parte del lavoro produttivo deriva dalla differenziazione tra valore d’uso e valore di scambio sostenuta dalla teoria economica. Con questa differenziazione, il lavoro finalizzato a soddisfare determinati bisogni è riconosciuto come valore d’uso, mentre i prodotti destinati ad essere scambiati sul mercato sono riconosciuti come valore di scambio. Il commercio, che dà valore solo ai beni che possono fornire un valore di scambio, spoglia il lavoro riproduttivo della sua rilevanza sociale e così facendo lo relega nell’ambito domestico, in quanto il suo beneficio economico non può essere misurato. La logica del capitale ha confuso il lavoro con l’occupazione e ha imposto una comprensione ristretta e distorta dell’attività economica».
Ci troviamo di fronte alla stessa confusione tra valore d’uso e valore di scambio, così come alla stessa incomprensione del concetto di salario, in un altro prominente campione del salario domestico, Iñaki Gil de San Vicente:
«“Se dovessimo incorporare nella forza lavoro retribuita il valore investito nel campo domestico o riproduttivo, i livelli salariali sarebbero molto più alti di quelli attuali, ma non è così … Poiché non esiste un meccanismo per riconoscere il lavoro riproduttivo, il valore che esso genera viene espropriato dal capitalista. Pertanto, è nell’interesse del sistema capitalista nascondere il lavoro riproduttivo, svolto principalmente dalle donne. Se rivelassimo questo lavoro non retribuito o lo remunerassimo, il tasso di profitto e di accumulazione di capitale diminuirebbe” (I.G. de San Vicente, Il capitalismo e l’emancipazione nazionale e sociale di genere, 2000)» (citato qui).
Tutta questa linea di argomentazione, che si presenta apparentemente marxista, è completamente sbagliata. In primo luogo, parte dell’argomentazione è contraddetta dal fatto che l’educazione dei bambini – parte essenziale del loro processo di formazione come futuri lavoratori salariati – avviene fuori casa: all’asilo, alla scuola elementare, alla scuola secondaria e all’università senza il coinvolgimento diretto della madre (né del padre). In secondo luogo, abbiamo visto che questa spesa è già inclusa nel salario del marito, che paga questi servizi attraverso le tasse o le rette. Allo stesso modo, abbiamo già visto che le spese di mantenimento per il figlio, la madre e altre spese per il mantenimento della casa di famiglia sono incluse nello stipendio del marito.
Il problema con Federici, Gil de San Vicente e i loro compagni è che non ci spiegano perché, se la madre (e il padre) presumibilmente creano dai loro figli merci sotto forma di “lavoratori salariati”, non ricevono un soldo dai capitalisti quando acquistano tali merci per impiegarle nelle loro aziende. Da chi compra il capitalista la merce? Non dalla madre, o dal padre, ma dalla merce “forza lavoro” stessa, cioè dai bambini stessi. I giovani lavoratori guadagnano un salario – il loro “valore di scambio”, per svolgere un lavoro produttivo nell’impresa del capitalista – un salario che appartiene a loro e solo a loro. Con questo salario, questi giovani lavoratori acquisiscono i mezzi di sussistenza per mantenersi quotidianamente, e questo include il loro contributo proporzionale alle spese familiari, oppure possono anche andare a vivere da soli.
Questo ci porta alla seguente conclusione. Un oggetto, qualunque sia il suo valore d’uso, diventa una merce dotata di “valore di scambio”, quando viene scambiato, quando entra nel mercato e viene scambiato in cambio di denaro. Non si tratta semplicemente del lavoro umano che viene speso per la sua produzione. Posso fabbricare un paio di scarpe, ma se sono per uso personale, allora consistono semplicemente in valore d’uso, oggetti prodotti dal lavoro umano per soddisfare un bisogno specifico. Solo quando porto le scarpe al mercato per venderle, diventano merce con un valore di scambio, e posso venderle in cambio del loro valore monetario. Ciò che differenzia il lavoro salariato da quello schiavistico, è che il suo proprietario è il lavoratore, che è libero (di venderlo a questo o quel capitalista). Il lavoro schiavista, invece, non è di proprietà dello schiavo (che non è libero di scegliere tra diversi proprietari di schiavi), ma del proprietario dello schiavo. La forza lavoro è una merce solo quando entra nel mercato del lavoro, non prima, e viene portata sul mercato dal suo proprietario, cioè dai lavoratori quando cercano lavoro.
Quindi, il lavoro della casalinga non è produrre merci da vendere sul mercato, sia che queste “merci” siano i suoi figli o qualcosa di completamente diverso. Il cosiddetto lavoro domestico comporta la manutenzione della casa e della famiglia, nello spirito degli schiavi domestici dell’antica Roma. La differenza è che la donna sotto il capitalismo è, legalmente parlando, una “libera cittadina”.
La donna, come nelle antiche case contadine, produce valori d’uso per il consumo familiare. La cura dei bambini all’interno della famiglia rientra in questa categoria di valori d’uso e non di merci destinate alla vendita. Evidentemente, quando i bambini diventano lavoratori, la loro forza lavoro diventa una merce e assume un valore di scambio, che riflette il tempo di lavoro socialmente necessario per la sua produzione. Tuttavia, il fatto che i bambini “potrebbero” potenzialmente entrare nel mercato del lavoro in futuro non dà loro un “valore di scambio”, non trasforma la loro futura forza lavoro in una merce nel presente. Le coppie non procreano con l’obiettivo dichiarato di fornire lavoratori ai capitalisti, ma sono essenzialmente mosse a procreare da sentimenti umani. La procreazione e la genitorialità sono fuori dal circuito dell’economia capitalista. Solo quando i bambini decidono di procurarsi da soli i mezzi di sussistenza potranno entrare a far parte del lavoro salariato vendendo la loro forza lavoro ad altri per la sopravvivenza. Solo allora la loro forza lavoro diventerà una merce con un valore di scambio, pronta a firmare per la schiavitù salariata.
L’argomento non è in contraddizione con il fatto che i capitalisti, spinti dalla necessità di rinnovare la forza lavoro a causa dell’esaurimento, della vecchiaia o della morte dei loro dipendenti, sono obbligati a pagare i lavoratori con un salario che permetta loro di procreare e di allevare i loro figli, che poi li sostituiranno in fabbrica. Il capitalista paga per questo, ma non è affatto garantito che ciò avvenga: la coppia può non avere figli, questi possono morire prima dell’età adulta, o possono semplicemente trovare i propri mezzi di sussistenza al di fuori del mondo del lavoro salariato. Ma il capitalista non ha altra scelta se non quella di farlo per un motivo molto banale. Vale a dire, in una società come la nostra, dove il sistema del lavoro salariato regna sovrano, se una famiglia non può nutrire i propri figli, allora non avrà figli, e quindi il sistema del lavoro salariato sarebbe destinato a crollare dalle sue stesse fondamenta a causa della mancanza di esseri umani disponibili a lavorare per altri in cambio di un salario. Senza lavoratori non c’è produzione capitalistica.
Lavoro riproduttivo o schiavitù domestica?
La nostra opposizione al salario per il lavoro domestico e alle donne che svolgono lavoro domestico in generale, da un punto di vista socialista e politico, non è meno ferma di quanto lo sia dal punto di vista della scienza economica. Abbiamo già trattato questo tema in dettaglio altrove, ma qui ne riassumiamo i punti principali.
Abbiamo già mostrato che la posizione della casalinga è molto simile a quella degli schiavi domestici dell’antica Roma. Sono nutriti, vestiti e curati dai loro padroni. La donna è così incatenata al salario del marito e alla sua volontà suprema. C’è una nota citazione di Marx su questo tema: “la moglie e i figli sono schiavi del marito”. Engels, nel suo classico sull’origine della famiglia, cita Marx e afferma:
«La famiglia moderna contiene in embrione non solo la schiavitù (servitus), ma anche la servitù della gleba, poiché essa è, fin da principio, in rapporto coi servizi agricoli. Essa contiene in sé in miniatura tutti gli antagonismi che avranno in seguito ampio sviluppo nella società e nel suo Stato»[9].
Ora, Silvia Federici cerca di riportare indietro di 150 anni la scienza sociale per quanto riguarda la posizione delle donne nella società, rimettendo la donna della famiglia operaia, senza istruzione e senza lavoro, tra pentole e padelle, pannolini, stracci e telenovele.
Federici afferma:
«La rivendicazione di un salario per il lavoro di cura può davvero liberare la donna, poiché implica che le donne capiscano che quello che fanno è un lavoro: non naturale, ma socialmente costruito».
Quello che abbiamo qui è una teoria moralistica (“Come può il lavoro domestico della casalinga non essere produttivo? Perché solo il lavoro dell’uomo viene valorizzato economicamente?”), che non ha alcun valore scientifico, come abbiamo appena spiegato.
Il pagamento per il “lavoro riproduttivo” della casalinga tra le mura domestiche, cioè per la schiavitù domestica, oltre a mantenere inalterato il tenore di vita della famiglia lavoratrice, e di conseguenza il livello di libertà della casalinga allo stesso livello di prima, è qualcosa che servirebbe a perpetuare l’idea della casalinga come la bestia da soma che porta sulle spalle tutta la pressione sociale esercitata sulle famiglie operaie (compresi gli abusi psicologici e fisici). La terrebbe lontana dalla vita sociale, imprigionata tra le quattro mura di casa, rendendola intorpidita da faccende domestiche che le straziano il corpo e annebbiano la mente. Viene così resa più facilmente manipolabile a favore dello status quo, che incoraggia la casalinga ad adottare un atteggiamento conservatore nei confronti dell’attivismo politico e sindacale del marito e dei figli e così via.
Purtroppo oggi una serie di teoriche del movimento femminista e della sinistra riprendono le posizioni più arretrate difendendo l’idea che il lavoro domestico possa emancipare le donne, che sia fonte di risparmio per il capitalista e che debba essere pagato, perpetuando la schiavitù domestica sotto la copertura di un sussidio statale o di una compensazione da parte dei capitalisti.
La Federici e coloro che difendono il salario per le casalinghe si pongono in modo “pragmatico” e “realistico” per adattarsi al capitalismo. Come mostra questa intervista alla Federici di qualche anno fa:
«Negli anni Settanta, quando negli Stati Uniti come in Europa si dovevano prendere decisioni strategiche, il movimento femminista abbandonò completamente il campo riproduttivo e si concentrò quasi esclusivamente sul lavoro fuori casa. L’obiettivo era quello di conquistare l’uguaglianza attraverso il lavoro. Tuttavia, gli uomini erano scontenti sul posto di lavoro, e raggiungere l’uguaglianza per essere ugualmente scontenti e oppressi come loro non è affatto una strategia».
Cosa propone Federici? Il lavoro domestico è un male, ma anche il lavoro in azienda è un male. Inoltre, abbiamo dopo il lavoro un “secondo turno” a casa con l’accudimento dei bambini, le pulizie, ecc. Quindi, non vedendo alternative, sarebbe meglio tornare nella casa che ci schiavizza, ma in cambio chiediamo un salario.
Questa è la splendida prospettiva che femministe radicali come la Federici hanno da offrire a milioni di donne oppresse, povere e lavoratrici: una prospettiva lontana dal mondo stesso in cui Federici e le altre femministe di questa tendenza vivono – di questo siamo certi.
È innegabile che il mondo del lavoro sotto il capitalismo è disumanizzante e fatto di sfruttamento per l’uomo e la donna. Ed è vero che la donna è costretta a fare un “doppio turno” in azienda e a casa. Certo, lavorare fuori casa non libera la donna di per sé, ma le dà la possibilità di liberarsi dal suo partner. Raggiungere un “salario domestico” sotto il capitalismo è un’illusione, soprattutto nell’attuale contesto di crisi economica e di prolungata austerità. La nostra alternativa, come vedremo tra poco, è quella di collegare la rivendicazione della socializzazione del lavoro domestico con la lotta per il socialismo. Questo è l’unico modo per sradicare l’oppressione delle donne invece che di accontentarsi delle briciole, del male minore o di rivendicazioni impossibili o francamente reazionarie all’interno del capitalismo.
Lavoro salariato per i compiti domestici
Il lavoro retribuito professionale nel settore dell’assistenza – la cura dei bambini, degli anziani e dei disabili, la pulizia della casa, la preparazione dei cibi, ecc. – è di natura completamente diversa dal lavoro svolto dalla casalinga nella propria casa. Solo le teste di legno non sarebbero in grado di vedere la differenza.
La natura remunerata del lavoro di “cura” – per usare l’eufemismo di cattivo gusto che i progressisti liberali e di sinistra usano per definire il lavoro domestico e la cura dei bambini e degli anziani – introduce un cambiamento sociale qualitativo in questi compiti. È certamente un lavoro estenuante, che continua ad essere mal pagato. Tuttavia, a differenza della comune casalinga, chi lavora in questo settore non è coinvolto personalmente nel lavoro che svolge. La casalinga lavora in casa propria, mentre un lavoratore salariato lavora in una casa solo per quattro, sei o otto ore e in cambio di un salario. Senza salario non c’è lavoro. Il semplice fatto di uscire di casa e di affrontare la vita sociale – che implica recarsi sul posto di lavoro, parlare e condividere esperienze con le lavoratrici con le stesse o diverse condizioni, o essere assunta da un’azienda e vedere i comuni interessi di classe che la legano agli altri lavoratori dell’azienda – aiuta una lavoratrice a capire la natura della società di classe e il suo funzionamento intrinseco. Il fatto di potersi iscrivere a un sindacato e di poter rivendicare alcuni diritti previsti dalla legge, di comprendere la necessità di una lotta politica per i propri interessi, ecc. introduce un livello politico e un livello di coscienza e di autostima nella psicologia della lavoratrice salariata “di cura”. Questo non è paragonabile a quello che la comune casalinga ottiene imprigionata in casa sua. L’alienazione che il lavoratore salariato subisce è la stessa che subisce qualsiasi lavoratore dipendente, sia esso un metalmeccanico, un impiegato o un lavoratore a giornata: è l’alienazione di un lavoratore e non di uno schiavo. Per la casalinga, la sua casa è il suo mondo; per la lavoratrice dei servizi di assistenza, il suo mondo è fuori, nella vita sociale e nella difesa dei suoi interessi di lavoratrice e di migliaia di persone come lei.
Trasformare il lavoro domestico, la cura dei bambini e l’assistenza agli anziani in lavoro salariato prepara le condizioni per la futura liberazione della donna e della famiglia dalla schiavitù domestica attraverso la socializzazione del lavoro domestico, dopo il rovesciamento del capitalismo, cioè sotto il socialismo. Come già detto, si tratta di eliminare le faccende domestiche opprimenti che gravano sulla famiglia (lavare i vestiti, preparare il cibo, occuparsi dei bambini e degli anziani). Oltre ad asili nido ben attrezzati nei quartieri e nei luoghi di lavoro, il socialismo costruirà in ogni quartiere centri di svago e di gioco per bambini e adolescenti, tutti ben curati, funzionali e istruttivi. Le case di cura non saranno i luoghi cupi, sporchi, mal curati e costosi a cui siamo abituati, ma saranno al livello di hotel di alta qualità, gratuiti o a basso costo e con annesse strutture sanitarie completamente attrezzate.
I lavoratori di questo settore non dovranno sopportare turni lunghi e fisicamente estenuanti. La loro giornata lavorativa sarebbe di quattro o cinque ore o anche più breve. Verrebbe utilizzata la tecnologia più avanzata per ridurre al minimo lo sforzo fisico necessario per occuparsi di persone disabili, anziane o malate. Tutta la tecnologia sarebbe dedicata a ridurre al minimo il lavoro in ogni compito, specialmente quelli che richiedono il maggiore sforzo fisico.
Come Engels ha detto brillantemente:
«Si chiarisce fin da adesso [durante il passaggio dalla barbarie alla civiltà, ndt] che la liberazione della donna e la sua equiparazione all’uomo è e resterà impossibile fintantoché la donna venga tenuta fuori dal lavoro sociale produttivo e si debba limitare al lavoro domestico privato. La liberazione della donna diventa possibile solo quando ad essa sia permesso di partecipare, su larga scala sociale alla produzione, e l’impegno del suo lavoro domestico sia ridotto ad una quantità irrilevante. Tutto ciò è divenuto possibile solamente con la grande industria moderna, che non solo rende possibile il lavoro della donna su larga scala, ma lo esige formalmente, ed ha la tendenza a trasformare in misura sempre crescente lo stesso lavoro domestico privato in una industria pubblica»[10].
Per un’alternativa socialista alla schiavitù domestica
I marxisti difendono la socializzazione dell’educazione dei bambini e dell’assistenza agli anziani e ai disabili. La società nel suo insieme si assumerebbe questi compiti e libererebbe da essi la famiglia lavoratrice, in particolare la casalinga. In realtà, lo sviluppo capitalista ha già portato alla socializzazione di alcuni aspetti della vita familiare e comunitaria, sia attraverso sistemi di gestione pubblica, sia attraverso licenze a enti privati (anche se solo parzialmente e in modo inadeguato). Tra questi vi sono l’istruzione, la sanità, i trasporti, le telecomunicazioni, l’elettricità, la gestione dei rifiuti, ecc. Da qualche tempo assistiamo a una tendenza analoga nell’assistenza agli anziani e ai disabili, nei cosiddetti servizi di assistenza.
Tuttavia, sotto il capitalismo questi passi verso la socializzazione del lavoro domestico hanno i loro limiti. I capitalisti combattono con le unghie e con i denti per evitare di cedere alla società una parte maggiore del plusvalore che estraggono dai lavoratori (la fonte dei loro profitti) per finanziare una socializzazione generalizzata del lavoro domestico.
Tenendo conto di ciò, una casalinga dovrebbe ricevere uno stipendio per poter dipendere solo da se stessa, indipendentemente dal marito? Certo che dovrebbe, ma non per la sua posizione di casalinga, dalla quale deve liberarsi. Chiediamo che a tutti i disoccupati sia dato un lavoro fisso, dignitoso e ben retribuito, e che durante il periodo di disoccupazione ricevano un’indennità di disoccupazione pari al salario minimo nazionale. Chiediamo quindi che le casalinghe, come i disoccupati, ricevano questi sussidi, ma chiediamo anche lavori di buona qualità e ben pagati per tutti, e le incoraggiamo a trovare un lavoro che permetta loro di guadagnarsi da vivere. Le esortiamo ad ampliare i loro orizzonti per avere una vita sociale più variegata al di fuori delle mura domestiche e a partecipare alla lotta cosciente degli altri lavoratori per un programma di transizione verso il socialismo con le seguenti rivendicazioni: asili nido pubblici gratuiti, mense pubbliche gratuite, lavanderie pubbliche gratuite e lasciare che il lavoro “di cura” sia svolto da lavoratori retribuiti. Lo Stato deve inoltre fornire cibo e abbigliamento di base a tutti i bambini e gli adolescenti fino a 18 anni. Riassumendo, vogliamo ridurre o eliminare le cosiddette “faccende domestiche”, che finora sono state compito della casalinga, farla uscire di casa e trasformarla in una persona economicamente indipendente dal partner.
Dobbiamo spiegare alla classe operaia, e alle casalinghe in particolare, che solo in un sistema socialista, dove le leve di comando dell’economia sono trasferite alla proprietà collettiva e gestite democraticamente dai lavoratori, saremo in grado di realizzare una socializzazione generalizzata del lavoro domestico.
Come spiega Engels:
«Con il trasferimento dei mezzi di produzione alla proprietà comune, la singola famiglia non è più l’unità economica della società. L’amministrazione privata della casa si trasforma in un’impresa sociale. La sorveglianza e l’educazione dei bambini diventa un affare pubblico …»[11].
Così, combinando i progressi di un’economia socialista pianificata – lavorando collettivamente e abolendo il profitto come motore di ogni attività umana, con legami di affetto privi di ipocrisie religiose o interessi personali, insieme alla tecnologia e alla scienza più avanzate – una società socialista sradicherebbe ogni traccia di schiavitù domestica e di sottomissione della donna all’uomo, per consentirle di essere all’altezza del suo vero potenziale, qualcosa che le è stato negato dalla società di classe per migliaia di anni.
Note
[1] K. Marx, Salario, prezzo e profitto, AC Editoriale, 2013, pp. 74‑75.
[2] Ibidem, p. 104.
[3] K. Marx, Il Capitale, cap. XIII, “Macchine e grande industria”, Editori riuniti, 1968, vol. 1, p. 438.
[4] Ibidem, cap. IV, “Trasformazione del denaro in capitale”, p. 204.
[5] F. Engels, “Recensione del libro primo del Capitale per il Demokratisches Wochenblatt”, Marx‑Engels, Opere complete, Editori riuniti, 1987, vol. XX, 1864‑1868, p. 238.
[6] K. Marx, Il Capitale, cap. IV, “Trasformazione del denaro in capitale”, cit., p. 204‑5.
[7] K. Marx, Il Capitale, cap. XIII, “Macchine e grande industria”, cit., p. 438.
[8] Ibidem, p. 439 (nota 121).
[9] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Newton Compton Editori, 2006, p. 82.
[10] Ibidem, p. 193.
[11] Ibidem, p. 101.