Potere al Popolo e l’“Appello ai fratelli in camicia gialla”
Collettivo “Assalto al cielo”
Era nelle previsioni. Non c’è stato il minimo di suspense, e neppure bisognava arrivare all’ultima pagina della sceneggiatura per sapere che “l’assassino era il maggiordomo”.
Il governo Draghi è nato, di fatto, “già votato”, cioè con una maggioranza parlamentare (tutti i partiti presenti nelle due assemblee[1], compreso quello della Meloni che gli farà solo un’opposizione di facciata cercando di capitalizzare in futuro la propria collocazione fuori della coalizione di unità nazionale) e sociale (le burocrazie sindacali, Cgil in testa, e un vastissimo consenso popolare) già accordate a priori. La narrazione mediatica delle virtù taumaturgiche di Mario Draghi, al quale si è mancato soltanto di attribuire il miracolo delle nozze di Cana, sullo sfondo della pesante situazione di crisi economica e sanitaria, ha provveduto ad apparecchiare l’ambiente ovattato di concordia nazionale per la nascita del nuovo esecutivo.
Si tratta di un governo fortemente antipopolare, antioperaio e tutto centrato sugli interessi del capitale industriale e finanziario e della grande borghesia delle regioni ricche d’Italia. Di più: un governo “organico” del capitale, le cui principali leve di indirizzo politico ed economico sono cioè nelle dirette mani della più importante e famelica frazione di quella borghesia, senza la “normale” intermediazione delle forze politiche che pure ne costituiscono la rappresentanza istituzionale, alle quali è stato offerto solo un ruolo di supporto, più o meno secondario. Quel tanto, in altre parole, che bastava per assicurarsene il voto positivo in parlamento. Perciò non ci dilungheremo oltre su queste sue evidentissime caratteristiche.
Il dissenso all’interno del M5S e la “trovata” di Potere al Popolo
Crediamo utile, invece, prendere spunto da una vicenda che ha rappresentato una tessera del mosaico che ha composto la nascita dell’esecutivo Draghi, per intrattenerci poi sulla lettura che ne ha dato una certa parte della sinistra, traendone infine le necessarie conseguenze: ci riferiamo cioè alla tormentata adesione del Movimento 5 Stelle alla maggioranza che sostiene il nuovo premier e all’analisi che ne ha fatto la sinistra riformista piccolo‑borghese denominatasi Potere al Popolo (PaP).
Com’è noto, il M5S ha dovuto pagare pedaggio al proprio “fondante” principio di “democrazia diretta” sottoponendo alla base degli attivisti un quesito volutamente ambiguo allo scopo di ottenerne il placet per accordare il sostegno al nuovo governo. La votazione on line su una piattaforma gestita da una società privata di proprietà di uno dei fondatori del movimento ha dato come responso il 59,3% di pareri favorevoli. E dunque, oltre 30.000 dei 74.537 votanti si sono espressi contro la partecipazione del M5S al gabinetto guidato da Mario Draghi.
Potere al Popolo ha immediatamente preso spunto da questo risultato e ha cercato di valorizzare tale voto dissidente in un bieco e patetico tentativo di intercettare questi attivisti:
«GRAZIE AI 30.000 CHE HANNO DETTO NO A DRAGHI. […] Nonostante la campagna stampa martellante, il quesito a trabocchetto, l’esposizione di Conte e di tutti i big del Movimento, ben 30.000 persone, più del 40% dei votanti sulla piattaforma Rousseau, hanno detto NO all’ennesima manovra di palazzo che subisce questo paese e smantella la nostra democrazia. […] Ringraziamo quei 30 mila che hanno dato un segnale contro la vecchia politica, e gli diciamo che non tutto è perduto! A chi si è rifiutato di votare, a chi ha detto “no”, a tutte e tutti coloro che credono che il governo Draghi non porterà buone notizie per lavoratori e lavoratrici, disoccupati, giovani, studenti diciamo di non lasciare: camminiamo insieme! Questo è il momento per unirsi!».
E no, non si tratta semplicemente di una presa di posizione superficiale, fatta sulla base di un’analisi impressionistica della vicenda. No, il tentativo è proprio quello di “intestarsi” quei 30.000 dissidenti, pescando nello stagno dei delusi del partito di Grillo, come emerge da uno dei commenti degli amministratori della pagina Facebook di PaP:
«Crediamo semplicemente che tra i milioni di delusi dai voltafaccia del m5s ce ne siano tanti che hanno creduto ad un’idea di cambiamento […] e che ora dopo l’ennesimo voltafaccia dei dirigenti m5s si daranno al rancore, alla rassegnazione … Noi crediamo invece che sia necessario mostrare loro che un’alternativa reale esiste e si chiama Potere al Popolo».
Questa linea è direttamente dettata dallo “stato maggiore” di PaP, come appare evidente da una dichiarazione su Twitter del suo portavoce, Giorgio Cremaschi:
Su molte cose non siamo d’accordo ma i militanti del #M5S che si stanno battendo per il NO al #GovernoDraghi stanno facendo una cosa giusta e fanno bene a non mollare. @potere_alpopolo
— Giorgio Cremaschi (@CremaschiG) February 10, 2021
Veniamo ora ad un esame un po’ più particolareggiato di questa posizione.
Il programma “diciannovista” del M5S
Per farlo, partiamo da un succinto inquadramento di cosa sia realmente il Movimento 5 Stelle. Si tratta di un approccio necessario, dal momento che spesso ancora si sente ripetere che molti dei suoi attivisti provengono da organizzazioni di sinistra e che parecchi punti del suo programma possono essere considerati “progressisti” (tanto che parte della sua fortuna elettorale il M5S l’ha costruita attraverso posizioni di vicinanza ai movimenti NoTav e per l’acqua pubblica e a settori popolari disagiati grazie al reddito di cittadinanza, che rappresenta una sua rivendicazione “storica”). E vedremo anche che, storicamente, questa non è una novità.
Il M5S non è, come una narrazione interessata lo descrive, un movimento “popolare”, di cittadini che l’hanno “costruito dal basso”. Al contrario, nasce da un’operazione pianificata a tavolino da Gianroberto Casaleggio, cioè colui che ne era – fino al momento della sua morte, quando poi le redini del comando sono passate al figlio Davide – il vero “proprietario” occulto.
Grazie a una proposta politica astuta, ambigua e interclassista – tanto da risultare da un lato attraente per militanti delusi dalle organizzazioni tradizionali della sinistra e, dall’altro, ammiccante verso settori di destra – il M5S ha avuto gioco facile nel crearsi un blocco sociale di riferimento molto composito, formato sia da disoccupati, precari e piccolissima borghesia proletarizzata, sia da pezzi di piccola e media borghesia imprenditoriale. In definitiva, però, al di là dei temi sociali cavalcati (No-Tav, No-F35, acqua pubblica, ecc.), il progetto politico complessivo lo fa caratterizzare come un movimento reazionario piccolo‑borghese.
Da un punto di vista storico – sia pure a livello di suggestione – non si tratta certo di una novità. Il movimento proto‑fascista di Mussolini (che assumerà poi nel giugno del 1919 la denominazione di “Fasci italiani di combattimento”) si coagulò attorno a una piattaforma programmatica approvata il 23 marzo 1919 a Milano, in una sala ubicata in Piazza San Sepolcro[2]. Nel programma licenziato in quella sede trovavano appunto spazio parole d’ordine in grado di attrarre sia reazionari che militanti di sinistra: «un curioso centone di obiettivi democratico‑radicali […], populistico‑socialisteggianti […], pacifisti […], nazionalisti […], liberisti»[3], dietro i quali però «[si] nascondeva già una sostanza tendenzialmente reazionaria»[4].
Ebbene, fu proprio in virtù della profonda ambiguità di quella piattaforma che intorno ad essa si riconobbero, oltre agli elementi reazionari dell’arditismo e del futurismo, anche socialisti, sindacalisti‑rivoluzionari e anarchici. Anzi, i quattro quinti dei sansepolcristi di cui era nota l’attività politica militavano a sinistra[5].
Ribadendo dunque che il parallelo appena evocato è stato fatto solo come suggestione, non ci vuol molto, come si vede, per raggruppare settori politici così eterogenei e distanti tra loro: un’accorta miscelazione di obiettivi che “solleticano” un ampio spettro di settori sociali ha così rappresentato il percorso che ha portato al consolidarsi del blocco sociale di riferimento del M5S.
PaP: un movimento neo‑riformista e piccolo‑borghese
Ora, che però il malcontento di 30.000 grillini possa far pensare al potenziale sorgere di un settore di attivismo da attrarre entro i confini politico‑organizzativi di PaP non appare solo frutto di un’analisi completamente errata di che cosa sia il M5S dalla sua nascita ad oggi, alla luce della sua evoluzione. È invece il prodotto “genuino” dell’autentica natura dello stesso Potere al Popolo. Pensare, da parte di questa formazione, di poter costruire la propria organizzazione puntando a “parassitare” il movimento grillino per attrarne un pezzo (ritenuto influenzabile dalle proprie posizioni, e dunque “fagocitabile”) rappresenta il coerente sviluppo della linea politico‑programmatica di PaP che abbiamo analizzato sin dalla sua nascita su questo sito.
In quel testo abbiamo descritto Potere al Popolo come un soggetto che incarna un progetto neo‑riformista e piccolo‑borghese, con un programma che rappresenta il precipitato delle peggiori pulsioni istituzionaliste e di ossequio per le forme dello Stato borghese, a partire dal consueto omaggio alla Costituzione e ai suoi principi, tanto astratti da costituire l’impalcatura su cui venne ricostruita, dopo il ventennio fascista, la società capitalistica in cui ancora oggi ci troviamo a vivere.
PaP è un’organizzazione nata esplicitamente sulla base di un progetto elettoralista: «Abbiamo aspettato troppo … Ora ci candidiamo noi!», recita il suo atto di nascita. Tutti i suoi principali interventi pubblici ruotano intorno alle competizioni elettorali, nazionali e locali, con una particolare ossessione per quel giochetto a cui tanto i partiti borghesi si appassionano: i sondaggi; che sono stati spesso branditi – benché la realtà poi li smentisca – come “dimostrazione” della crescita dell’organizzazione. A riprova, appunto, dell’orizzonte elettoralista che essa si è data.
Quando poi è stato “sfrondato” dalle altre forze che avevano contribuito alla sua nascita (in particolare, Rifondazione comunista e Sinistra anticapitalista), PaP si è ulteriormente inclinato verso una strutturazione verticistica – e, di fatto, plebiscitaria – intorno alle due componenti che integrano il suo nucleo ristretto: il Centro sociale napoletano “Ex Opg Je so’ pazzo” e la Rete dei comunisti, piccola organizzazione che costituisce la direzione occulta del sindacato Usb. Un nucleo che, liberatosi del fastidio di una convivenza forzata con le forze che si erano frattanto smarcate, ha innervato il progetto già neo‑riformista dell’organizzazione con elementi ancor più spiccati di politica di stampo campista in politica estera e togliattiano in politica nazionale[6].
Ecco perché, a quest’ultimo riguardo, è possibile leggere sul sito di PaP “perle” in cui viene idealizzata la democrazia borghese e attraverso le quali vengono alimentate le illusioni sul parlamentarismo borghese[7].
L’appello ai 30.000 e il senso di una deriva
E dunque, per ritornare al tema che stiamo trattando, non sembra inappropriato avanzare un paragone con un altro appello che, in altre condizioni storiche, pure fu lanciato. Ci riferiamo allo stupefacente “Appello ai fratelli in camicia nera”, pubblicato nell’agosto del 1936 su Lo Stato operaio, organo del Partito comunista in clandestinità, con le firme di Togliatti e di tutto lo stato maggiore del Pcd’I e direttamente concordato con Mosca e i dirigenti del Comintern, in cui si proclamava solennemente: «Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo: Lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma … Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi ed a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919»!
Qui cambia il colore della camicia, da nera a gialla (la tonalità che rappresenta il M5S), ma, fatte salve le differenze, la sostanza è la stessa: “i vostri dirigenti hanno tradito, in nome di una ‘manovra di palazzo’, il programma originario per il quale avete combattuto; voi, come noi, siete contro la ‘vecchia politica’; come noi, voi siete portatori di ‘un’idea di cambiamento’; se ‘un’alternativa reale esiste e si chiama Potere al Popolo’, siamo dunque noi quell’alternativa che rappresenta ciò in cui voi avete creduto quando avete dato vita al M5S. Quindi, noi incarniamo le idee progressiste del M5S delle origini”.
Ecco. È questa la traduzione della dichiarazione di sostegno ai “30.000 che hanno detto no a Draghi”[8]. E un’applicazione pratica di questa politica sta invece proprio nel rifiuto di PaP di confrontarsi con l’unica realtà viva che, pur con mille limiti e debolezze, sta provando a costruire un embrione, non solo di opposizione al governo Draghi, ma di alternativa anticapitalista. Ci riferiamo al “Patto d’azione anticapitalista”[9] e alla “Assemblea nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi”, che stanno gettando il seme per una prospettiva di ricomposizione di classe in chiave antisistema con importanti iniziative: per demarcarsi dalle quali l’Usb (il sindacato che, come detto, è parte della colonna vertebrale di PaP) lancia un improbabile “Appello per una iniziativa unitaria contro il commissariamento Ue dell’Italia”, il cui asse centrale è il trito argomento neo‑stalinista della “perfida” Unione europea che terrebbe in scacco una borghesia nazionale in crisi con i cui “settori progressisti” i lavoratori dovrebbero fare blocco in difesa degli interessi nazionali[10].
Allo stesso modo, PaP declina la sua proposta politica di fase evocando un’opposizione, ma limitata al solo governo Draghi (e non già al sistema di cui questo è espressione), attraverso l’invito a «singoli, realtà politiche e sindacali di base, comitati e associazioni» a ricostruire «un punto di vista e un programma minimo per i milioni di italiani che proprio non possono rivedersi in un Parlamento screditato»: così, da un lato confermando i confini puramente istituzionali della propria proposta politica generale; e, dall’altro, rafforzando il proprio rifiuto del confronto per il consolidamento e lo sviluppo dell’esperienza già positivamente avviata del Patto d’azione anticapitalista[11].
Un ostacolo che va politicamente rimosso
La traiettoria che nel corso di questi anni ha segnato la vita e l’attività politica di Potere al Popolo si inclina così verso una deriva ancor più solipsistica e ulteriormente riformista: basti considerare che, subito dopo le due righe d’ufficio in cui è stato riassunto quell’“invito”, il testo appena richiamato si dilunga sul tema organizzativo della costruzione, non già del fronte unitario di lotta soltanto evocato, ma proprio di PaP (appello all’adesione, modalità di voto dei documenti politici e statutari, rinnovo delle cariche: tutto rigorosamente on‑line, né più e né meno del M5S). Da qui si capisce quali siano veramente “i nostri prossimi passi” che danno il titolo al testo.
In questo quadro possiamo allora trarre delle conclusioni.
Accentuando in senso deteriore il proprio progetto neo‑riformista e piccolo‑borghese nella direzione che abbiamo visto (addirittura con l’appello ai malpancisti “cinquestelle” perché in nome di una loro presunta vocazione “progressista” si uniscano a PaP per “camminare insieme”), e per di più sottraendosi volontariamente ad ogni ipotesi di confronto costruttivo con gli altri soggetti che stanno provando a raggrupparsi in un Patto d’azione anticapitalista sulla base di un’ampia visione antisistema, Potere al Popolo rappresenta ormai un ostacolo sulla strada di una possibile – benché complicata – ricomposizione in senso classista delle forze che aspirano a una società socialista. E come tale, cioè come un ostacolo, dovrà d’ora in poi da queste ultime essere considerato – e politicamente rimosso – nel declinare la propria azione politica.
Note
[1] Al netto di un paio di decine di “grillini” dissenzienti – oltre all’insignificante Fratoianni di Sinistra Italiana – che non hanno votato la fiducia o si sono astenuti.
[2] Di qui il riferimento a quel programma come “sansepolcrista” e “diciannovista”.
[3] B. Mantelli, L’Italia fascista 1922‑1945, p. 12. È buffo notare, visto che si tratta di un argomento parecchio in voga in questi ultimi tempi, che fra quelle rivendicazioni “populistico‑socialisteggianti” del programma “diciannovista” del nascente movimento fascista faceva bella mostra di sé quella in cui si esigeva «una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze» (in pratica, una patrimoniale. Su cui rimandiamo ai testi che, sempre su questo sito, ci hanno visto impegnati nella polemica con i suoi odierni fautori: qui e qui). Quanto al programma sansepolcrista e a come venne poi adattato alla vera natura reazionaria della complessiva proposta politica del nascente movimento fascista, si veda anche A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, vol. 1°, Editori Laterza, 1971, pp. 53 e ss.
[4] R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, vol. I, Soc. ed. Il Mulino, 2012, p. 336.
[5] Così, espressamente, M. Franzinelli, Fascismo anno zero. 1919: la nascita dei Fasci italiani di combattimento, Mondadori, 2019, pp. 54‑55.
[6] Un fulgido esempio di quanto scriviamo può essere rinvenuto nell’illuminante intervista che il quotidiano argentino Página 12 realizzò tempo addietro alla portavoce di PaP, Viola Carofalo. Nella conversazione col giornalista sudamericano viene ben precisato che in politica interna l’aspirazione di PaP è alla collaborazione di classe con le forze borghesi che sono nelle istituzioni (nel caso di specie, il sindaco di Napoli De Magistris). Mentre, per quanto riguarda la politica estera, da un lato PaP non è in astratto ostile a quella macchina da guerra contro i lavoratori che è l’Unione Europea («L’UE non è un male in sé»), dall’altro considera che regimi sanguinari come quello venezuelano, che si spaccia per socialista, rappresentano la sua «principale ispirazione». Ma sono decine e decine i testi di quest’organizzazione che argomentano in questi sensi.
[7] Basti pensare agli articoli che sono stati scritti in occasione della recente crisi di governo, ricomposta poi con la nascita dell’esecutivo Draghi. In uno si leggono frasi come: «Gestire una fase delicata in cui si gioca un pezzo importante del futuro del nostro Paese, in maniera autoritaria e fuori da qualsiasi logica democratica»; «Sul piano istituzionale è gravissimo che sia lo stesso Presidente della Repubblica a chiedere la fiducia per un governo da lui nominato, senza preventiva indicazione di una maggioranza parlamentare. […] Non si può accettare che la nostra Repubblica sia ridotta a questo»; «Una democrazia mutilata»; «La trasformazione della nostra democrazia nella filiale di una società per azioni europea». In un altro troviamo amenità come: «Questo governo è un pericolo per la democrazia»; «La mutilazione del sistema politico italiano»; «Il nostro paese, la nostra gente, merita di più di tutto questo!».
[8] Segnaliamo che Potere al Popolo non è nuovo a iniziative come quella rivolta ai grillini. La stessa cosa fece nel dicembre 2019, ammiccando al movimento delle “sardine” (su cui abbiamo invece a suo tempo espresso una posizione netta) nel tentativo di creare un canale di comunicazione con i suoi attivisti.
[9] Un’esperienza alla quale, dal nostro piccolissimo ambito, guardiamo con favore, pur non condividendo alcuni punti della sua piattaforma programmatica (ad esempio, la rivendicazione sulla “patrimoniale”, su cui abbiamo scritto i testi indicati nella nota 3 che precede).
[10] È questa la tesi diffusamente spiegata nel documento redatto dalla Rete dei comunisti, “Fuori dall’Unione Europea. Una proposta politica per il cambiamento” – Forum euromediterraneo, Roma 30 novembre/1° dicembre 2013.
[11] Un rifiuto chiaramente ravvisabile nell’indisponibilità, motivata da gelosie della microburocrazia sindacale di Usb, a concorrere con il Si.Cobas – che è in prima linea nella costruzione del Patto – nello stesso alveo di intervento politico.