“Patrimoniale”: facciamo chiarezza una volta per tutte
Valerio Torre
«La riduzione delle tasse,
la loro distribuzione più equa, ecc.
è una banale riforma borghese»
(K. Marx)
«… promesse smodate e persino smisurate,
senza però comprendere le condizioni
in cui sarà possibile realizzare in concreto quelle promesse.
Il problema è tutto qui.
[…] un’imposta […] sui profitti dei capitalisti
[rappresenta] un modello di frase ad effetto.
Nei parlamenti delle repubbliche borghesi
queste frasi servono sempre a ingannare il popolo»
(V.I. Lenin)
« Se i partiti socialisti non avessero
un criterio oggettivo
per stabilire chiaramente ciò che corrisponde
agli interessi di classe del proletariato
e si lasciassero guidare da ciò che alcune persone
ritengono buono o utile per i lavoratori,
i programmi socialisti sarebbero
una bizzarra collezione di desideri soggettivi
e quasi sempre utopistici»
(R. Luxemburg)
Gli eventi che, a partire dalla crisi economica del 2009 fino a quella scatenata dalla pandemia da Covid‑19, hanno enormemente impoverito le classi subalterne ampliando più che mai il divario fra queste ultime e i grandi capitalisti, spingono le organizzazioni della sinistra a mettere in campo diversi tentativi per mobilitare le masse popolari. Assistiamo, soprattutto in quest’ultimo periodo, al fiorire di proposte programmatiche variamente declinate sotto forma di rivendicazioni che intenderebbero perseguire quest’obiettivo.
E così, non passa giorno senza ascoltare parole d’ordine a proposito del “controllo operaio”, dell’imposizione di una “patrimoniale”, o della necessità di procedere a “nazionalizzazioni” (quest’ultima, nello specifico, è tornata in auge – dopo i casi Ilva e Alitalia – con riferimento alla vicenda di Autostrade per l’Italia, la società che fa capo alla famiglia Benetton e che da decenni gestisce la rete autostradale italiana).
Ci siamo occupati del “controllo operaio” in un articolo specifico, contestando la faciloneria con cui questa particolare rivendicazione viene avanzata, e a questo testo rinviamo.
Vogliamo, invece, soffermarci su uno degli altri due temi in auge: la patrimoniale.
Una proposta “di buon senso” … apprezzata dai capitalisti
La parola d’ordine della patrimoniale appare davvero di buon senso: chi, di fronte allo sfacciato arricchimento di pochissimi e all’immiserimento di tantissimi, non troverebbe sensato che i “ricchi” cedano qualcosa a vantaggio delle fasce sociali più deboli? E così, vengono lanciati slogan come “non saremo noi a pagare la vostra crisi”, oppure “la crisi la paghino i padroni”, che, nelle migliori intenzioni di chi li conia, dovrebbero mobilitare le classi subalterne creando le condizioni per una dinamica di massa ascendente a partire da questo assunto. Addirittura, laddove partiti che si richiamano al marxismo rivoluzionario sono rappresentati in parlamento, vengono persino presentati progetti di legge che prevedono l’applicazione di un’aliquota impositiva sulle “grandi fortune”[1].
Poche settimane orsono, due deputati italiani, Matteo Orfini (della “sinistra” del Pd) e Nicola Fratoianni (di LeU), sono stati i primi firmatari di un emendamento alla legge di bilancio che punta all’introduzione di una “patrimoniale” così concepita: aliquota progressiva minima dello 0,2% sui grandi patrimoni la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500.000 euro e fino a 1 milione di euro, per arrivare al 2% oltre i 50 milioni di euro. L’idea alla base di questo prelievo è, nel quadro di un progetto di riforma fiscale, di destinare i proventi alla “redistribuzione della ricchezza” e alla sanità in quest’epoca di pandemia[2].
La proposta – che è poi stata bocciata in Commissione Bilancio della Camera – ha immediatamente provocato il “rilancio” da parte delle organizzazioni politiche e sindacali della sinistra extraparlamentare di una proposta che circola da qualche tempo: tassare con l’aliquota del 10% il 10% della popolazione più ricca (c.d. “Million tax”).
Ma, benché suoni paradossale, sono generalmente gli stessi capitalisti a suggerire l’adozione di una patrimoniale con la palese intenzione di aprire una valvola di sfogo per la pressione sociale accumulatasi a seguito dell’impoverimento generalizzato: è stato infatti il Fondo monetario internazionale a raccomandarne l’introduzione; mentre l’Ocse, che in passato fu una fiera sostenitrice della misura, oggi consiglia che quantomeno si tassino le grandi corporation del web. E non è certo perché afflitti da un improvviso senso di colpa per le loro immense fortune che miliardari dello stampo di Bill Gates e Warren Buffett si lamentano delle poche tasse pagate al fisco. Tra gli “ideologi” di un provvedimento del genere annoveriamo il noto economista francese Thomas Piketty, seguito dai suoi colleghi statunitensi Gabriel Zucman ed Emmanuel Saez. Non poteva mancare all’appello il senatore Usa, Bernie Sanders, che ha inserito la proposta nel suo recente programma elettorale.
“Patrimoniale”: rivendicazione minima o misura di transizione?
E dunque, un provvedimento che introducesse una patrimoniale per ridurre gli squilibri tra coloro che in questi anni si sono enormemente arricchiti e il resto della popolazione, che puntasse cioè a una “redistribuzione della ricchezza”, appare ai più, come già detto, di buon senso.
Ma basta l’apparente “ragionevolezza” di una simile misura – comunque la si voglia concepire – perché chi si richiama al marxismo la sostenga al punto tale da farne una (addirittura la principale, in questo momento) delle proprie bandiere? Noi riteniamo di no.
Generalmente, chi declina questa rivendicazione – e, dunque, punta a conseguire il relativo provvedimento che la realizzi – non dice su quali basi essa si fondamenti; non spiega, cioè, di quale tipo di rivendicazione sta parlando. Detto ancor più chiaramente: non spiega come la si debba inquadrare da un punto di vista teorico. La agita e basta.
E tuttavia, abbiamo infine rinvenuto nell’elaborazione della piattaforma programmatica delle organizzazioni politico‑sindacali che stanno proclamando questa parola d’ordine il contorno teorico che, nelle intenzioni di chi l’ha ideata, la caratterizza. In particolare, i compagni del Collettivo “Il Pungolo rosso” chiariscono sul loro sito che la «patrimoniale sui più ricchi» sarebbe «pienamente compatibil[e] con il capitalismo, ed attuabil[e] … entro il perimetro degli attuali rapporti sociali poiché non tocca né la proprietà dei mezzi di produzione e la centralità dell’azienda nella produzione sociale, né l’organizzazione e la divisione sociale del lavoro». Detto in altri termini, caratterizzano quella della “Million tax” – e la misura che dovrebbe realizzarla – come una “rivendicazione minima”.
È noto che Lenin considerava quelle “minime” come le rivendicazioni che in principio potevano essere raggiunte entro i limiti del capitalismo: «Il programma minimo è un programma compatibile in linea di principio con il capitalismo, un programma che non travalica i confini del capitalismo»[3]. Ma una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco della popolazione può essere considerata una misura “minima”?
Niente affatto. Essa è, invece, nelle condizioni date, una misura “transitoria”, cioè di transizione al socialismo. Perché questo? Perché rappresenta di fatto una espropriazione dei profitti derivanti dall’estorsione di plusvalore e trasformati in ricchezza dai capitalisti: una (almeno parziale) “espropriazione degli espropriatori”. Non si identifica con una mera tassazione, per quanto progressiva, di quella ricchezza (che, essa sì, sarebbe una misura minima). Ecco perché Marx ed Engels la inserirono nell’insieme delle misure di transizione previste nel Manifesto[4]. E in questo stesso testo i due rivoluzionari spiegavano che quelle di transizione sono «misure che appaiono economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpassano se stesse». E aggiungono che esse non potranno essere introdotte «se non per via di interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione». Ma chi dovrebbe essere l’autore di questi “interventi dispotici”? Marx ed Engels rispondono: «Il proletariato [che] si servirà della sua supremazia politica […], organizzato come classe dominante». Non certo, dunque, lo Stato borghese, e cioè il rappresentante istituzionale di quegli stessi capitalisti. La ragione? Ce la spiega lo stesso Marx quando afferma che le misure transitorie contenute nel Manifesto «in se stesse sono e non possono che essere contraddittorie»[5].
Le “patrimoniali” nell’interesse del capitalismo e quelle imposte dal proletariato al potere
Già solo questo spiega perché l’impianto attraverso il quale i compagni del Collettivo “Il Pungolo rosso” presentano la loro proposta sia totalmente erroneo dal punto di vista teorico. Per giustificare la pretesa di considerare quella sulla “patrimoniale” come una misura compatibile col sistema capitalistico, essi la accomunano alla “imposta progressiva sulla ricchezza”, per poi concludere che entrambe sarebbero tranquillamente attuabili entro i limiti dei rapporti borghesi di produzione. Questo non è vero: un’imposta straordinaria sul patrimonio (c.d. “patrimoniale”) è compatibile con il capitalismo soltanto quando questo ha necessità di ristrutturarsi per fare fronte a situazioni straordinarie e viene dunque applicata dalla borghesia insediata al potere, nel suo stesso interesse e per consolidare il proprio sistema di dominazione sociale.
Storicamente, infatti, il sistema borghese non è in assoluto refrattario all’imposizione di patrimoniali. Nel 2019, in Italia si contavano ben quindici patrimoniali “nascoste”, che hanno fruttato quell’anno allo Stato la bellezza di 45,7 miliardi di euro. Solo per fare qualche esempio: Imu e Tasi valsero da sole 21 miliardi di euro. Poi ci sono l’imposta di bollo, il bollo auto, il canone Rai, l’imposta su imbarcazioni e aeromobili, la tassa sulle transazioni finanziarie e sulle successioni e donazioni. Ma questi sono prelievi che in linea di massima colpiscono la generalità delle classi, sia quelle sfruttate (in particolar modo) che quelle sfruttatrici (molto di meno, vista la maggiore capacità di spesa). Tuttavia, anche quando sono state introdotte imposizioni straordinarie che hanno colpito soprattutto patrimoni più consistenti – ad esempio, quella fissata nel 1922 sui patrimoni imponibili netti di almeno £ 50.000 (equivalenti agli oltre € 56.000 attuali); o quelle stabilite nel 1936, nel 1937 e nel 1938 – ciò è stato fatto dallo Stato borghese e nell’interesse del sistema capitalistico[6], non certo dal proletariato e nel suo stesso interesse[7].
E questo rimanda a un problema che getta ampia luce sulla natura dell’imposta patrimoniale così come viene oggi sbandierata con tanta faciloneria. E cioè: chi, da quale interesse di classe e per quale interesse di classe, va ad applicare la misura proposta? Qui viene in rilievo l’abissale differenza tra l’elaborazione teorica di Marx ed Engels da un lato – che vedevano nel “proletariato organizzato come classe dominante”, che cioè si è già impossessato del potere politico in uno Stato borghese, il soggetto che “si servirà della sua supremazia politica” per iniziare a distruggerlo applicando “misure di transizione al socialismo” – e, dall’altro, la costruzione un po’ cialtronesca di chi, invece, per “superare” il problema di «Come fare “tecnicamente”?», risponde con assoluta nonchalance: «Intervenendo sul sistema bancario e assicurativo, e sulle borse con un decreto di emergenza. Oggi … bisognerebbe chiedere di bloccare immediatamente ogni trasferimento di capitali all’estero»[8]. Capite? UN DECRETO! Cioè, si propone di chiedere allo Stato borghese di applicare con decreto una misura di transizione al socialismo!!! In altri termini, che esso prepari con un atto avente forza di legge la propria stessa distruzione e quella della classe dominante dei cui interessi è il rappresentante.
Ciò rimanda a un tema fondamentale, che può essere riassunto in una semplice domanda: la “patrimoniale” la si chiede o la si impone allo Stato capitalista? Perché se nelle condizioni di dominio normale della borghesia sulla società la si chiede, ciò che potrà al massimo ottenersi sarà una insignificante modifica delle aliquote fiscali che potrebbero marginalmente incidere sui capitalisti: e ciò, sempre che lo Stato borghese lo ritenga confacente agli interessi in gioco in quel preciso momento storico; e comunque, immancabilmente, con una contropartita che va a ricadere sulle spalle della classe lavoratrice[9]. In questo caso, non si otterrà altro che una banale riforma fiscale entro i limiti della legalità borghese: perché senza una situazione rivoluzionaria in atto e con il proletariato in armi non c’è modo di imporre una misura del genere.
Engels vs. Heinzen: misure transitorie che si trasformano in reazionarie
Ma c’è di più. Le “imposte fortemente progressive” postulate da Marx ed Engels nel Manifesto erano articolate nel quadro di un programma di misure rivoluzionarie che devono essere applicate da un governo rivoluzionario. Stiamo parlando, cioè, di un programma rivoluzionario che nel suo insieme deve essere messo in atto da un governo rivoluzionario insediato al potere. Marx ed Engels non hanno mai, in nessuna delle loro cospicue opere, proposto l’applicazione di una singola (cioè, slegata dalle altre) misura di transizione al socialismo[10], e men che meno in una situazione non rivoluzionaria, cioè in una situazione di dominio incontrastato della borghesia, con la classe operaia sfiduciata, divisa e sulla difensiva.
Chiarissimo, a tal proposito, fu Engels, il quale polemizzò ferocemente con Heinzen (un liberale trasformatosi, come egli lo descrive, in un “radicale assetato di sangue”). Heinzen proponeva, «in una situazione pacifica, borghese» – scrive Engels[11] – misure di carattere transitorio, cioè le stesse avanzate dai comunisti (e che sarebbero poi confluite nel sistema di rivendicazioni e misure di transizione disegnato nel Manifesto), senza ovviamente essere in grado – proprio perché tali – di «dibattere […], spiegare, esporre e difendere le rivendicazioni del partito, così come combattere e respingere le rivendicazioni e le affermazioni del partito avverso»: compiti, questi, che Engels riteneva necessari in una fase non rivoluzionaria. E le misure proposte da Heinzen erano sì, per il coautore del Manifesto, «non solo possibili […], ma di fatto […] necessarie». A condizione, però, argomenta Engels – e qui casca l’asino! – «che tutto il proletariato insorto le difenda e le imponga con la forza delle armi. […] Sono possibili come passi preparatori, fasi temporanee e di transizione verso l’abolizione della proprietà privata, ma non in altro modo»[12]. Le rivendicazioni e misure transitorie, insomma, «non sono disegnate per una situazione pacifica, borghese». In questo caso, è la conclusione, chi le propone «le converte in misure impossibili e al contempo reazionarie»[13].
E ci piace notare di passata, per terminare su questo punto, che perfino in una situazione rivoluzionaria, con un esecutivo che era il prodotto della Rivoluzione di febbraio, con un doppio potere in atto (il governo provvisorio e i Soviet), però solo alla vigilia della presa del potere e non già quindi col potere nelle mani, Lenin liquidò con queste parole una proposta analoga (anzi, ancor più radicale, visto che si chiedeva una tassazione del 100% sui profitti dei capitalisti) avanzata dal socialista Skobelev: «Non soltanto è impossibile applicare il programma di Skobelev, ma, in generale, non si possono neanche fare passi di una qualche importanza in questa direzione quando si va a braccetto con dieci ministri del partito dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti e ci si serve di un apparato burocratico di funzionari di cui il governo capitalistico (con la sua appendice di menscevichi e di populisti) è costretto a contentarsi. […] Bisogna impadronirsi della cittadella principale del capitale finanziario. Bisogna perciò cominciare – e cominciare subito – dalla milizia operaia per avviarci con passo saldo ed esperto, pur rispettando la necessaria gradualità, verso l’istituzione di una milizia popolare, verso la sostituzione della polizia e dell’esercito permanente con l’armamento generale del popolo»[14]. E cioè, anche per Lenin senza il potere operaio difeso in armi nessuna misura così concepita può essere applicata.
L’Indirizzo del Comitato centrale: come distorcere il pensiero di Marx ed Engels
Insomma, come abbiamo diffusamente argomentato nel precedente paragrafo, una “imposta fortemente progressiva” sul capitale ha un significato progressivo per la classe operaia se è articolata all’interno di un programma rivoluzionario (di transizione al socialismo) e quest’ultimo venga messo in pratica dalla stessa classe operaia. Un programma, cioè, come recita il Manifesto, che abbia come asse centrale quello di far funzionare l’economia su basi non capitaliste a partire dall’espropriazione dei mezzi di produzione detenuti dalla borghesia e dall’amministrazione e dal controllo operaio.
Nell’Indirizzo del Comitato centrale alla Lega dei Comunisti (marzo 1850), e cioè due anni dopo il sistema di misure di transizione elaborato nel Manifesto, Marx ed Engels formularono una tattica transitoria di rivendicazioni in cui era compresa anche quella per l’introduzione di una tassazione tanto pesantemente progressiva «che il grande capitale ne viene rovinato». Però questo programma rivendicativo non era rivolto a un governo capitalista, bensì a un possibile governo della piccola borghesia radicale sorto da una ipotetica rivoluzione: un esecutivo che, nella previsione dei due autori, sarebbe stato «costretto a proporre misure più o meno socialiste». In questo caso – e solo in questo caso (infatti, Marx ed Engels delineano nel loro testo tre diversi scenari) – le masse armate e organizzate sulla base dell’indipendenza di classe[15] avrebbero dovuto avanzare al governo sorto dal processo rivoluzionario tali rivendicazioni transitorie (tra cui quella sulla tassazione fortemente progressiva sul capitale). Le misure individuate nell’Indirizzo erano cioè raggruppate in un programma di rivendicazioni che la classe operaia in armi avrebbe dovuto agitare e difendere nei confronti di un governo piccolo‑borghese radicale in una situazione rivoluzionaria (per acuirla) e di doppio potere[16].
Insomma, è del tutto evidente che in nessuna occasione Marx ed Engels ipotizzarono l’agitazione urbi et orbi di una singola rivendicazione transitoria. Circoscrissero, invece, l’applicazione di un programma di transizione (cioè di un insieme di misure che si legano le une con le altre e che «nel corso del movimento sorpassano se stesse e spingono in avanti, e sono inevitabili come mezzi per rivoluzionare l’intero modo di produzione»[17]) a uno scenario in cui la classe operaia avesse preso il potere e potesse quindi applicare quel programma dal potere[18].
Così come in nessuna occasione, giova ripeterlo, consigliarono ai propri adepti di agitare rivendicazioni transitorie in una situazione pacifica, di dominio normale della borghesia, chiedendo allo Stato borghese di applicare misure di transizione al socialismo.
Marx ed Engels non erano “consiglieri” del capitale: volevano distruggerlo
Ma va ancora aggiunto che in nessuna occasione, benché durante la loro vita si fossero sviluppate violente crisi economiche che colpirono gravemente la classe operaia, a Marx e ad Engels passò mai per la testa di “offrire soluzioni” per combattere i mali del capitalismo suggerendo allo Stato borghese di usare la leva della tassazione, o di fornire un aiuto economico alle masse lavoratrici chiedendo a quello stesso Stato di applicare imposte sulle grandi fortune e sui patrimoni. Eppure, essi ebbero modo di assistere alla crisi del 1846‑1847 (sfociata poi nei moti generalizzati del 1848), a quelle del 1857 (epoca nella quale Marx era impegnato nella stesura dei Grundrisse), del 1866 e del 1873 (quest’ultima venne definita la “Grande Depressione” e durò svariati anni, secondo alcuni studi fino al 1895).
Ebbene in tutte queste occasioni, di fronte alla crescente miseria in cui le masse popolari venivano sempre più scaraventate, i due rivoluzionari non si sognarono mai di diventare “consiglieri” del capitalismo fornendogli facili ricette per aiutarlo ad uscire dalle proprie crisi, ed aiutare così indirettamente la classe operaia. Come mai non invocarono una “patrimoniale sulle grandi fortune”? Forse erano essi stessi indifferenti alle sofferenze dei lavoratori? Oppure perché, invece, sapevano benissimo – a differenza dei moderni teorizzatori di “patrimoniali” – che le crisi sono fenomeni oggettivi che provocano gigantesche svalorizzazioni del capitale e a cui certamente non si può porre rimedio mediante l’imposizione di tasse, sia pure “straordinarie”?
Non ci constano, insomma, elaborazioni teoriche del marxismo in cui si sia affermata la possibilità di sostenere le necessità economiche della classe operaia imponendo tributi “sulle grandi ricchezze”. Non a caso, lo stesso Marx nelle “Istruzioni per i delegati del Consiglio Centrale Provvisorio dell’A.I.L.” specificava: «Nessuna modifica della forma di imposizione può produrre un qualche importante cambiamento nelle relazioni tra lavoro e capitale». Ciò in quanto quello che resta sullo sfondo è, appunto, il quadro delle relazioni tra lavoro e capitale; e qualsiasi misura che voglia seriamente incidere su quest’ultimo a vantaggio del primo non può che basarsi sul potere della classe operaia.
Chi “esige” dallo Stato borghese l’introduzione di una “patrimoniale” sembra non rendersi conto che per i marxisti i problemi che il capitalismo di per sé genera per il profitto di pochi, e a danno della classe lavoratrice e delle masse subalterne, non trovano soluzione entro i limiti dello stesso sistema capitalista. In questo senso, i marxisti non propongono ricette per risolvere problemi entro quei limiti. Il Manifesto o il Capitale non sono stati scritti per risolvere i problemi della borghesia, ma per abbatterla. “Suggerire soluzioni” allo Stato borghese significa diventare “consiglieri del Principe”; significa puntellarlo; significa, in definitiva, attuare un’evidente collaborazione di classe.
“Mobilitare le masse” … verso cosa?
D’altro canto, lo abbiamo ripetutamente sostenuto, la “rivendicazione” di una “patrimoniale” si risolve nella formulazione di un obiettivo irrealizzabile nelle condizioni date, poiché si “esige” che lo Stato borghese applichi – paradossalmente contro se stesso – una misura di transizione al socialismo, cioè inizi un processo di “autodistruzione”.
Coloro che lanciano questa parola d’ordine vorrebbero attraverso di essa “mobilitare le masse”. Ma il fatto è che quella parola d’ordine rappresenta un assurdo politico, poiché è irrealizzabile nel contesto attuale di dominio pacifico della borghesia e di profondo arretramento della classe operaia[19]. L’inattuabilità empirica di una misura di tal fatta viene però nascosta a quelle stesse masse che si vorrebbero mobilitare. Anzi, sventolando i provvedimenti che qui e là nel mondo sono stati messi in campo[20], queste vengono invitate a credere nella concreta realizzabilità di quella misura, e dunque le si inganna. E per chi si proclama rivoluzionario non c’è peggior crimine che mentire alle masse e ingannarle. Al riguardo, non a caso nello scritto che abbiamo già citato Engels rimprovera a Heinzen di non preoccuparsi nel modo più assoluto della fattibilità concreta delle sue proposte, che «non sono appropriate né hanno senso, dato che egli le concepisce arbitrariamente, come visioni ottusamente borghesi per indirizzare il mondo; perché non fa alcun riferimento alla connessione fra queste misure e lo sviluppo storico»[21].
E sulla base di quale analisi si ritiene possibile “mobilitare le masse” per portare nelle piazze questa “rivendicazione”? Non sulla base di un’inchiesta operaia; oppure di un esame concreto della realtà e dei rapporti sociali in essere, del peso concreto delle relazioni fra le classi. No, niente di tutto questo: in fin dei conti si tratta di metodi ottocenteschi! La base di stimolo di questa mobilitazione – ci spiegano i compagni del Collettivo “Il Pungolo rosso” – sta invece in uno strumento molto più moderno: un sondaggio! Sì, avete capito bene: un sondaggio. Da cui emergerebbe che «il 60,2% si è detto a favore, o molto a favore, di un’imposta patrimoniale».
Nell’attesa, dunque, che oltre 36 milioni di italiani muovano in armi verso Palazzo Chigi per strappare questo provvedimento così sospirato[22], conviene anche sottolineare che in un altro loro testo i compagni precisano che la loro «è una proposta di mobilitazione, di lotta anti‑capitalista, di lotta al capitalismo. Non facciamo certo una supplica al governo Conte‑bis perché ci ascolti. È una rivendicazione contro il governo Conte, contro il sistema bancario, contro la Confindustria, […] che presentiamo ai proletari e ai ceti impoveriti, che dovranno mettersi in moto se vorranno salvare la pelle e la dignità».
Il fatto è che, per far sì che “si mettano in moto” occorrerebbe dire loro la verità, e non – come abbiamo in precedenza evidenziato – ingannarli, facendo loro credere che basti “rivendicare” una misura allo stato irrealizzabile per “ottenerla”. Bisognerebbe spiegare loro che solo dopo avere conquistato il potere, e difendendolo in armi, potranno espropriare gli espropriatori con una serie di misure, tra le quali l’«imposta fortemente progressiva» che Marx ed Engels avevano inserito in un sistema articolato di provvedimenti (e non di “rivendicazioni”, dato che essi non erano soliti “chiedere” misure di transizione a uno Stato che, in quanto borghese, costituiva – come ancor oggi costituisce – il rappresentante istituzionale del nemico di classe).
E se, nonostante tutti gli sforzi teorici compiuti (in maniera errata: v. in particolare la nota 16) da chi squaderna la posizione da noi criticata, quei “proletari e ceti impoveriti” non dovessero poi mobilitarsi, semmai perché percepiscono l’irrealizzabilità pratica della parola d’ordine che viene loro ammannita? Non vorremmo doverci trovare allora nella condizione di ascoltare dagli stessi proponenti la frase ironicamente coniata da Bertolt Brecht: «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».
Misurare la forza secondo le intenzioni, o le intenzioni secondo la forza?
Tutto ciò rimanda, in fin dei conti, al problema dell’esatto inquadramento teorico delle parole d’ordine per potere tradurle correttamente in azione. Altrimenti si scade nel propagandismo astratto, in un avanguardismo parolaio che rende difficile – se non addirittura impossibile – riuscire ad ottenere un reale radicamento di massa nella classe lavoratrice.
Ecco perché Rosa Luxemburg spiegava che «[…] al socialismo scientifico non piacciono soluzioni radicali, fantastiche e fatte di belle parole per i problemi sociali. […] Ci saranno sempre partiti socialisti che, senza gli “intralci” che le dottrine scientifiche comportano, hanno pronti in tasca regali meravigliosi per tutti, di gran lunga superiori alle nostre proposte»[23].
E aggiungeva: «Basandosi sui fondamenti storici – i fondamenti dello sviluppo della società capitalistica – l’odierna socialdemocrazia[24] deduce i suoi interessi immediati (le rivendicazioni del proletariato di oggi) e i suoi obiettivi a lungo termine, non già a partire da un ragionamento soggettivo su ciò che sarebbe “buono” o “utile” per il proletariato, ma a partire dall’analisi dello sviluppo oggettivo della società, al fine di garantire i suoi interessi reali e identificare i mezzi materiali per la loro realizzazione»[25].
La conclusione della grande rivoluzionaria – che facciamo nostra – era perciò netta. Tracciando una decisa linea di confine tra il rivoluzionarismo anarchicheggiante e il socialismo marxista, sostiene che il primo “misura la forza secondo le intenzioni, e non le intenzioni secondo la forza”. Cioè, «misura le sue aspirazioni unicamente in funzione di ciò che la sua ragione speculativa, giocando maldestramente con una vuota utopia, ritiene “buono” o “necessario” per la salvezza dell’umanità».
I comunisti, invece, «basano saldamente le loro aspirazioni sul terreno storico e, conseguentemente, tengono conto delle possibilità storiche. Il socialismo marxista differisce da tutti gli altri socialismi perché, tra le altre cose, non finge di avere belle e pronte le toppe per chiudere tutti i buchi che lo sviluppo storico ha creato»[26].
Note
[1] È il caso dei partiti argentini raggruppati nel Fit‑U, dei quali abbiamo in passato denunciato a gran voce l’adattamento all’ideologia borghese sulla “centralità” dell’istituzione parlamentare (si vedano gli articoli “Perché non diamo il nostro sostegno politico alla lista del Fit‑U” e “Di come il cretinismo parlamentare spalanca le porte persino al sionismo”). I deputati di queste organizzazioni hanno depositato uno specifico progetto di legge che tuttavia non ha avuto assolutamente i numeri per essere esaminato. Intanto, deputati che fanno capo alla maggioranza ne hanno depositato un altro, molto più modesto, rispetto al quale i deputati del Fit‑U hanno dichiarato la volontà di astenersi, precisando comunque che, se gli importi che se ne ricavassero fossero destinati totalmente alla sanità pubblica e all’istruzione, non avrebbero avuto alcuna difficoltà a sostenerlo dando un voto favorevole. Ciò a riprova del carattere centrista e conciliatore di questo blocco (a proposito dell’atteggiamento che i parlamentari comunisti debbono tenere rispetto ai progetti di legge presentati dai partiti borghesi, per quanto possano apparire “progressisti”, rinviamo a “L’antifascismo non è nulla” e, soprattutto, al già richiamato “Perché non diamo il nostro sostegno politico alla lista del Fit‑U”). Mentre chiudevamo quest’articolo, però, abbiamo avuto notizia dell’avvenuta approvazione del progetto di legge governativo in Argentina: ne parleremo nella successiva nota 9.
[2] In realtà, a dare fiato alla proposta italiana è stato il progetto della manovra di bilancio del governo spagnolo, spacciato dai riformisti nostrani come una “patrimoniale” che punterebbe a tassare fortemente i ricchi redistribuendo risorse. E invece, i famosi “ricchi” non sono stati per nulla “terrorizzati” da una misura che si compendia in un lieve aumento delle aliquote dell’Irpef che andrebbe ad incidere sul solo 0,17% della platea dei contribuenti. Le previsioni sono di maggiori incassi per 144 milioni di euro quest’anno e 346 l’anno prossimo! Per “compensare” queste briciole che cadranno dalle tavole imbandite dei contribuenti più agiati, il governo Sánchez‑Iglesias andrà contestualmente ad aumentate diverse imposte che graveranno invece sulla restante parte della popolazione. Perciò suona tanto più truffaldina l’impropria citazione della famosa frase che Marx scrisse nella Critica del Programma di Gotha – «Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!» – infilata nel “Progetto di Bilancio generale dello Stato per il 2021” (pag. 21) dall’esecutivo spagnolo, visto ormai dai riformisti nostrani come l’ennesima fonte d’ispirazione dopo che sono via via finiti gli innamoramenti collettivi per Jospin, poi per Schröder, poi per Lula, poi per Tsipras, poi per Corbyn, poi per Sanders (e chissà quanti altri ancora)!
[3] V.I Lenin, “Osservazioni a proposito di un articolo sul massimalismo”, in Opere, vol. 41, Edizioni Lotta comunista, 2002, p. 476.
[4] «Imposta fortemente progressiva»: K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, 1996, pp. 33‑34 (il grassetto è nostro).
[5] K. Marx, “Lettera a Friedrich Adolph Sorge”, 20 giugno 1881, in Lettere 1880‑1883 (marzo), Edizioni Lotta comunista, 2008, p. 82.
[6] In particolare, la prima per far fronte alle conseguenze della Prima guerra mondiale; le altre tre per le esigenze indotte dalla guerra d’Africa.
[7] Si pensi anche alla patrimoniale introdotta nel 1947 per sopperire alla ricostruzione dello Stato liberale dopo i vent’anni di dittatura fascista e la Seconda guerra mondiale: un’imposta che colpiva con un’aliquota del 61,61% i patrimoni superiori al miliardo e mezzo di lire dell’epoca (equivalenti a quasi trenta milioni di euro attuali)! Davvero si può credere che ciò avvenne nell’interesse delle classi lavoratrici che vivevano nella miseria più nera di quella fase storica? In tempi più vicini a noi va anche ricordata la patrimoniale sui conti correnti introdotta nottetempo con decreto legge dal governo Amato nel 1992 per tamponare le disastrose conseguenze della violenta svalutazione della lira.
[8] “Il 10% del 10%. Due conti sulla patrimoniale (Laboratorio politico Iskra)”, 7 aprile 2020, Il Pungolo rosso.
[9] È ciò che, come abbiamo appreso nel chiudere questo scritto, è appena accaduto in Argentina (v. nota 1), con l’approvazione della “Ley de Aporte Solidario y Extraordinario de las Grandes Fortunas”, che graverà per un’unica volta sui patrimoni delle persone che abbiano dichiarato più di 200 milioni di pesos (equivalenti a 1.970.000 euro) sulla base di un’aliquota che va dal 2 al 3,5%, colpendo di fatto circa 12.000 contribuenti su una popolazione di oltre 45 milioni di persone. Gli importi che saranno ottenuti andranno in spesa sanitaria solo per il 20%. Il resto, a parte qualche integrazione a programmi di spesa sociale, andrà sotto forma di sussidi alle piccole e medie imprese e a progetti di sfruttamento, sviluppo e produzione di gas naturale (come si vede, se il potere resta saldo nelle mani della borghesia anche la gestione dei fondi così raccolti non potrà che essere a beneficio della stessa). Rispetto a questa legge i deputati del Fit‑U si sono astenuti! Pressoché contemporaneamente, però, il governo ha approvato una legge di bilancio che taglia i fondi per: le tessere alimentari per le famiglie povere, gli assegni familiari, le pensioni, oltre ad eliminare totalmente il buono familiare di emergenza. Insomma, in regime capitalistico i portafogli della borghesia non si toccano gratis!
[10] Anzi, nella “Lettera a Sorge” di cui alla nota 5, Marx spiegava bene che una misura transitoria, presa isolata dal suo contesto di un programma transitorio, costituiva «la panacea socialista degli economisti borghesi».
[11] F. Engels, The Communists and Karl Heinzen, 26 settembre‑3 ottobre 1847, Deutsche-Brüsseler-Zeitung, nn. 79 e 80.
[12] E che la questione della previa presa del potere del proletariato per poter mettere in atto un sistema di misure transitorie sia una questione centrale per Engels nello scritto che stiamo commentando, viene confermato dal passaggio in cui il rivoluzionario le definisce come “misure di salute pubblica”, cioè provvedimenti che si attuano dal potere e con la forza delle armi.
[13] È per questo motivo che ci esprimemmo in maniera analoga a proposito dell’altra parola d’ordine, che pure viene abitualmente agitata (e nelle stesse condizioni della patrimoniale), del “controllo operaio”. Rimandiamo, al riguardo, all’articolo citato all’inizio di questo testo. Ma ci piace qui segnalare un esempio classico del ragionamento di Engels per cui rivendicazioni transitorie declinate in epoca pacifica di dominio del capitale si trasformano «in misure impossibili e al contempo reazionarie»: si tratta proprio del “controllo operaio”: che, laddove è stato rivendicato in «una situazione pacifica, borghese», è stato fatto proprio dalla borghesia e applicato, con l’aiuto delle burocrazie politiche e sindacali, esattamente come misura reazionaria. Basti pensare alla “Mitbestimmung” (co‑gestione) adottata per legge in Germania, in cui la “partecipazione” dei lavoratori attraverso i propri rappresentanti (sindacati burocratici) alla gestione delle imprese, lungi dall’indirizzarli alla “conquista dell’industria”, li costringe invece a “partecipare” alla costante opera di “razionalizzazione” del processo lavorativo, cioè a riduzioni dei posti di lavoro e maggiore sfruttamento della forza‑lavoro. A tutto vantaggio, ovviamente, dei capitalisti che conservano la proprietà della fabbrica.
[14] V.I. Lenin, “Catastrofe inevitabile e promesse smisurate”, in Opere, cit., vol. 24, pp. 435 e ss.; pubblicato anche su questo sito.
[15] «[…] gli operai devono essere armati e organizzati. L’intero proletariato deve essere armato subito di moschetti, fucili, cannoni e munizioni […]; gli operai devono cercare di organizzarsi autonomamente come guardia proletaria, con capi eletti e con il proprio stato maggiore eletto; devono cercare di mettersi non agli ordini dell’autorità statale ma dei consigli locali rivoluzionari istituiti dai lavoratori. Laddove i lavoratori sono impiegati dello Stato, devono armarsi e organizzarsi in corpi speciali con dirigenti eletti, o come parte della guardia proletaria. Con nessun pretesto si dovrebbero cedere armi e munizioni; qualsiasi tentativo di disarmare i lavoratori deve essere frustrato, con la forza se necessario».
[16] È quello che non hanno compreso i compagni del Collettivo “Il Pungolo rosso”, che citano in maniera estremamente superficiale il testo di Marx ed Engels, dimenticando che il programma di rivendicazioni transitorie da quest’ultimo avanzato era, appunto, declinato in una situazione rivoluzionaria e con le masse popolari armate, e non era un elenco di belle intenzioni da proporre col cappello in mano e a capo chino al governo borghese di turno. L’intero scritto di questi compagni, peraltro, cita passaggi di vari autori marxisti che tutti, indistintamente, argomentano sul tema nei sensi che abbiamo indicato noi, cioè riferendosi a situazioni rivoluzionarie, con il popolo in armi o addirittura già insediato al potere dello Stato ancora borghese, nel quale applicare misure di transizione al socialismo.
[17] V. precedente nota 4.
[18] È lo stesso metodo utilizzato da Lenin nel testo “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa”, in Opere, cit. vol. 25, pp. 305 e ss. In questo scritto, Lenin articola un programma di misure di transizione al socialismo che non vengono affatto “indirizzate” al governo provvisorio sorto dalla Rivoluzione di febbraio sotto forma di “rivendicazioni”. Al contrario, costituiscono un sistema complessivo per attuare il quale «occorre una dittatura rivoluzionaria della democrazia, diretta dal partito rivoluzionario; la democrazia deve cioè diventare di fatto rivoluzionaria» (ivi, p. 338): in altri termini, deve prima realizzarsi «la conquista del potere da parte del proletariato, con il partito bolscevico alla testa […]» (ivi, p. 335).
[19] Oppure, come abbiamo già specificato, si tratterebbe di una misura che può pure essere realizzata nel quadro del sistema capitalistico, ma su impulso delle classi dominanti e nel loro esclusivo interesse.
[20] Per esempio, in Spagna e in Argentina: v. precedenti note 1, 2 e 9.
[21] F. Engels, The Communists and Karl Heinzen, cit. in nota 11.
[22] Ci preme precisare, a scanso di equivoci, che con il presente testo non vogliamo irridere i compagni di cui stiamo criticando la proposta. La nostra è e vuole essere una critica politica e teorica a quella proposta; e la muoviamo a loro perché essi sono stati gli unici nel campo della sinistra anticapitalista a cercare di darle una consistenza dal punto di vista della teoria (a nostro avviso sbagliando). Peraltro, oltre a muoverci all’interno di quello stesso campo, in diverse occasioni abbiamo avuto il piacere di riprendere su questo sito alcuni testi del Collettivo “Il Pungolo rosso”.
[23] R. Luxemburg, La cuestión nacional y la autonomía, El Viejo Topo, 1998, p. 33.
[24] Quello, cioè, che oggi chiamiamo il movimento comunista.
[25] R. Luxemburg, op. cit., p. 73. Sembra qui di riascoltare l’Engels della polemica contro Heinzen.
[26] Ivi, p. 34.