Lavoratori in uniforme?
Quando la collaborazione di classe è il frutto marcio del riformismo, non quello … “Acerbo”
Valerio Torre
Genova, 11 novembre. I lavoratori dell’Arcelor Mittal portano la loro protesta nelle strade e fin sotto la Prefettura del capoluogo ligure contro la decisione dell’azienda di licenziare alcuni operai e poi di attuare la serrata. A un certo punto, dopo un confronto molto ravvicinato che sembra preludere alla consueta repressione manu militari, i poliziotti che presidiano l’ingresso del palazzo istituzionale indietreggiano e si tolgono i caschi. La folla applaude calorosamente interpretando il gesto come un atto di solidarietà da parte degli agenti.
Non ci interessa qui indagare sulle ragioni che hanno indotto questi ultimi a tanto. Casi del genere se ne sono contati in passato anche in occasione di manifestazioni reazionarie.
Ci interessa, invece, soffermarci sulla dichiarazione a caldo rilasciata dal segretario nazionale di Rifondazione comunista, Maurizio Acerbo, e dal responsabile lavoro del partito, Antonello Patta.
I due dirigenti politici scrivono testualmente che «le immagini degli agenti che si tolgono i caschi applauditi dagli operai in sciopero rappresentano un potente messaggio di unità della classe lavoratrice». E dunque, nell’opinione della loro organizzazione, i poliziotti devono essere considerati membri della “classe lavoratrice”, assimilati agli operai nella difesa di supposti “comuni interessi”.
Quest’opinione non rappresenta una novità. In numerose occasioni, diversi partiti di sinistra, anche di quella che si considera “rivoluzionaria”, hanno espresso una simile caratterizzazione[1].
Ciò accade quando la carenza di una solida teoria marxista porta ad analisi impressionistiche. In altri termini, il fatto che gli agenti di polizia percepiscano uno stipendio induce esponenti politici di tal fatta a ricomprenderli nella più ampia categoria di “lavoratori”.
Abbiamo già incidentalmente trattato l’argomento riguardo alla questione della sindacalizzazione dei poliziotti in altri articoli su questo sito, per esempio in occasione dell’assassinio negli Usa di George Floyd. È bene, però, affrontarlo ex professo da un punto di vista teorico.
«L’esistenza determina la coscienza»
La base del ragionamento di chi sostiene l’opinione qui criticata è data dal fatto che gli agenti di polizia sarebbero costretti a vendere la propria forza‑lavoro e ad essere perciò sussunti in una situazione di sfruttamento da parte del capitale e dello Stato: ciò produrrebbe la loro inclusione nella classe lavoratrice.
Tuttavia,
«il problema di quest’argomento è che dimentica che in questo caso la funzione repressiva svolta da questi individui determina un’esistenza sociale che in nessun modo può essere assimilata alla situazione della classe operaia. La logica della polizia, e di corpi similari, è la repressione e la preparazione per condurre la guerra di classe in difesa della proprietà privata. La loro situazione “strutturale” colloca … questi individui contro la classe operaia»[2].
Secondo un altro tipo di ragionamento, la “provenienza” della stragrande maggioranza dei poliziotti dalle classi disagiate (figli di operai o di impiegati di basso rango; o addirittura, secondo un’accezione romantica, “figli del popolo”) impone di considerarli come “lavoratori”.
Sennonché, come spiegava Trotsky alla vigilia dell’avvento del nazismo in Germania,
«il fatto che gli agenti di polizia siano stati reclutati in gran parte tra gli operai social-democratici non significa assolutamente nulla. Anche qui l’esistenza determina la coscienza. L’operaio che diviene poliziotto al servizio dello Stato capitalista è un poliziotto borghese e non un operaio. Durante gli ultimi anni, questi poliziotti hanno avuto più da lottare contro gli operai rivoluzionari che contro gli studenti nazionalsocialisti. Una tale scuola non può non lasciar traccia. Ma il fatto più importante è che ogni poliziotto sa che, se i governi cambiano, la polizia resta»[3].
Una specifica testimonianza in tal senso la troviamo nel bel libro di Leopold Trepper, capo dello spionaggio sovietico nella Germania nazista, che, durante il periodo del suo arresto da parte della Gestapo e prima di essere riuscito ad evadere, raccolse le confidenze di uno dei suoi carcerieri:
«Sono stato poliziotto al tempo del Kaiser, sono stato poliziotto della Repubblica di Weimar, sono un piedipiatti di Hitler, domani potrei benissimo essere un servitore del regime di Thaelmann»[4].
Una conferma “sul campo”, insomma, della riflessione di Trotsky, secondo cui è “l’esistenza che determina la coscienza”.
Ma, oltre a ogni altra considerazione, la dichiarazione di Acerbo‑Patta si caratterizza anche per essere una colossale sciocchezza alla luce degli studi che Karl Marx sviluppò in Teorie sul plusvalore (in particolare con la differenziazione tra lavoro produttivo e improduttivo), e ai quali rimandiamo per ragioni di sintesi, non mancando però di segnalare che per Marx può sussistere il pagamento di un salario senza che esista la relazione capitale‑lavoro[5].
In conclusione, ritenere che gli agenti di polizia siano dei “lavoratori in divisa” e che per questo facciano parte della classe lavoratrice, per di più condividendo gli stessi interessi con gli operai che essi sono soliti reprimere, non costituisce solo una completa idiozia: rappresenta, anzi, una vera e propria “intelligenza col nemico”, poiché porta alle estreme conseguenze la collaborazione di classe. E cioè, la collaborazione diretta con i carnefici della classe operaia[6].
Note
[1] Basti pensare al Pstu, sezione della Lit‑Quarta Internazionale in Brasile, che in diversi articoli ha argomentato che la polizia militare brasiliana (di cui è nota la particolare ferocia) appartiene alla “classe operaia” in funzione della sua “innegabile condizione proletaria” (sic!), in particolare sostenendo che, così come un lavoratore che uccide sua moglie non per questo diventa meno proletario, allo stesso modo un poliziotto che uccide un lavoratore in sciopero non cessa di appartenere alla classe lavoratrice. Queste “perle di saggezza” possono essere lette qui.
[2] R. Astarita, “La concezione marxista di classe operaia”, su questo stesso sito.
[3] L. Trotsky, “E ora?”, in Scritti 1929‑1936, Arnoldo Mondadori editore, 1970, p. 330.
[4] L. Trepper, Il grande gioco. Le memorie del capo della “orchestra rossa“, Arnoldo Mondadori editore, 1976, p. 201. Ernst Thaelmann era il segretario del Partito comunista tedesco.
[5] È quello che accade, per esempio, con i dirigenti o amministratori delegati di aziende, che non sono concretamente assoggettati ai mezzi di produzione, ma, al contrario, vigilano sul processo di produzione e fanno sì che gli operai continuino – essi sì – ad esservi assoggettati. Sono, in altri termini, gestori dello sfruttamento, e, in quanto tali, rendono possibile il dominio del capitale sul lavoro vivo. Svolgendo questa funzione, essi ricevono un “salario” che è qualitativamente distinto da quello che ricevono gli operai. Perciò, benché stipendiati dal proprietario, essi sono capitalisti destinati allo sfruttamento del lavoro salariato: la loro funzione non è tecnica, bensì sociale. Nel caso dei poliziotti, si tratta di un settore sociale la cui funzione è quella del controllo sociale che garantisca il dominio borghese e mantenga l’ordine necessario allo sfruttamento padronale e al perpetuarsi dell’autorità dello Stato capitalista.
[6] Non ci soffermiamo qui, per non appesantire il testo, sulla differenziazione fra polizia ed esercito, né sulla questione – centrale per i bolscevichi – del lavoro di propaganda all’interno delle forze armate per guadagnarne un settore e spezzare così la catena di comando. Ci riserviamo, eventualmente, di approfondirla in un altro scritto.