Dopo le elezioni in Bolivia
L’inesistente “golpe” nel fantastico mondo del “socialismo andino”
Verso la stabilizzazione: dal nazionalismo borghese di Evo Morales al regime democratico‑borghese di Luis Arce
Valerio Torre
Mentre scriviamo, il Tribunale Supremo Elettorale di Bolivia (Tse) ha appena terminato lo spoglio dei voti, da cui è emerso che Luis Arce, il candidato del Mas (il partito di Evo Morales), è stato eletto presidente con oltre il 55%, a fronte di un risultato di poco inferiore al 29% dello sfidante Carlos Mesa, rappresentante di una coalizione di centrodestra. Esattamente il 14% per l’altro concorrente, Luis Fernando Camacho, candidato dell’estrema destra reazionaria.
L’estrema lentezza nel conteggio delle schede non è stata dovuta, come pure con una buona dose di impressionismo e complottismo qualcuno ha sostenuto, alla volontà di “oscurare” quella che andava profilandosi come una vittoria inequivocabile di Arce e, se possibile, dare tempo agli sconfitti per preparare qualche artificio truffaldino (oppure violento) per ribaltare il risultato. Al contrario, si è trattato di una modalità scelta d’intesa fra tutti i candidati su proposta del Tse, che ha messo da parte il sistema di conteggio rapido che alle elezioni dell’anno passato ha consentito i brogli elettorali su cui Evo Morales aveva costruito la propria rielezione, prima di rinunciare alla carica sotto la spinta delle proteste popolari[1].
Però, scopo di quest’articolo non è tanto commentare l’esito del voto, che per la sua magnitudine è stato chiaro da pochissime ore dopo l’inizio dello spoglio sulla base degli exit poll. Intendiamo, invece, riallacciandoci all’analisi che realizzammo un anno fa[2], approfondire il tema che in quella sede avanzammo riesaminandolo alla luce di queste elezioni che hanno visto il ritorno al potere del Mas.
L’inesistente “golpe” e la fervida fantasia della sinistra
L’asse centrale del nostro scritto richiamato nella nota 1 era che in Bolivia non si era prodotto nessun colpo di stato. Contrariamente a ciò che sosteneva la stragrande maggioranza delle organizzazioni nazionali e internazionali di sinistra (sia riformista che rivoluzionaria), abbiamo affermato che non era stato un “golpe” a destituire Morales, ma che quest’ultimo, dopo aver perso – a causa della cattiva gestione del potere – l’appoggio di tutte le forze sindacali e popolari che l’avevano portato al governo, nonché delle forze armate, vistosi isolato si era dimesso volontariamente. Lo stesso avevano fatto altri personaggi di spicco del Mas e del suo esecutivo. In questo vuoto di potere si era inserita la vicepresidente del Senato, Jeanine Áñez, rappresentante della destra boliviana, autoproclamatasi Capo di Stato ad interim e presidente di un governo provvisorio. In questa confusa situazione si verificavano intanto scontri e violenze fra i sostenitori dei diversi partiti, con la polizia che – schieratasi con le proteste degli oppositori di Evo – interveniva pesantemente nei confronti dei simpatizzanti del Mas[3]. Il governo insediatosi, ovviamente, incarnava gli interessi della destra reazionaria delle regioni della c.d. “Media Luna”, cioè i territori più ricchi della Bolivia, dove sono insediate le principali attività produttive e le élite bianche del Paese.
L’analisi marcatamente impressionistica della stragrande maggioranza della sinistra mondiale l’ha portata, con una lettura “campista” delle dinamiche sviluppatesi in Bolivia a partire dalla salita al potere di Morales, a farsi sostenitrice della teoria del “golpe” orchestrato dall’imperialismo ai danni del “socialismo andino” propugnato dal Mas. E invece, agli argomenti con cui abbiamo sostenuto che non si era verificato alcun colpo di stato non è stato contrapposto nessun valido ragionamento che potesse confutare la nostra tesi. Anzi, tutto ciò che è accaduto da un anno a questa parte, e cioè dalla caduta di Evo all’elezione di Arce passando per il governo di Áñez, conferma inequivocabilmente le nostre conclusioni.
Le riesamineremo, perciò, alla luce di questi avvenimenti.
Le domande non risposte
Partiamo dalla rinuncia di Evo Morales. Come abbiamo sostenuto nell’articolo indicato nella nota 1, egli si dimise dopo avere perso l’appoggio del più grande e storicamente importante sindacato boliviano, la Cob (Central Obrera Boliviana)[4], e delle organizzazioni popolari e indigene che da sempre gli erano state vicine, oltre che delle forze armate (che solo fino a poche settimane prima venivano considerate la “colonna vertebrale rivoluzionaria” del Paese). Non solo: gli si pronunciarono contro i sindacati dei minatori, cioè la classe operaia più forte della Bolivia. La Federación Sindical de Trabajadores Mineros de Bolivia (Fstmb), per bocca del suo principale dirigente, Orlando Guitérrez, chiese espressamente a Morales che si facesse da parte con queste inequivocabili parole: «La rinuncia è inevitabile, compagno Presidente. Dobbiamo lasciare nelle mani del popolo il governo nazionale … La tua gestione è terminata»[5]. Allo stesso modo si regolarono la Federación Nacional de Cooperativas Mineras de Bolivia (Fencomin) e la Federación de Cooperativas Mineras de Potosí (Fedecomin).
Dunque, il nerbo della classe operaia boliviana aveva voltato le spalle a colui che tante aspettative aveva suscitato fra le masse popolari.
Dopo le dimissioni di Morales, si dimise anche il controverso vicepresidente, Álvaro García Linera; sicché per procedimento costituzionale doveva essere la presidente del Senato ad assumere l’incarico. Ma Adriana Salvatierra, anch’essa esponente del Mas, pensò bene di dimettersi pure lei[6]. In mancanza perfino del presidente della Camera, anch’egli dimissionario, subentrò nella linea di successione la vicepresidente del Senato Jeanine Áñez, che assunse infine l’incarico di Capo dello Stato per formare un governo provvisorio.
Apriti cielo! Tutte le organizzazioni della sinistra internazionale qualificarono subito Áñez come un’usurpatrice e a capo di un governo golpista. Peccato che fu lo stesso Mas, che intanto conservava una solida maggioranza parlamentare, ad essere di diverso avviso e a considerare quello di Áñez come un “governo legittimo”[7].
E allora, già a questo punto occorre porsi qualche domanda. Come può ritenersi, in presenza delle circostanze fin qui descritte, che fossimo in presenza di un golpe militare (o, come qualcuno ha sostenuto, civico‑militare)? Da quando in qua un colpo di stato ad opera dei militari lascia intatte le forme istituzionali della democrazia borghese e, soprattutto, conserva a coloro che sarebbero stati “spodestati” una solida maggioranza parlamentare? Quale golpe reazionario, storicamente, ha lasciato ampia libertà di propaganda, agitazione e organizzazione alle forze politiche e sindacali che sostenevano il governo deposto? In quale regime diretto da militari si è assistito ad una normale attività parlamentare in cui la maggioranza (il Mas) e la minoranza (gli altri partiti) dibattono nelle aule parlamentari un disegno di legge per portare il Paese a nuove elezioni il più rapidamente possibile? E dove mai si è visto che golpisti consentissero frattanto l’elezione a presidenti di entrambe le Camere di due rappresentanti del partito estromesso dal governo?
Con quali argomenti pretenderebbero di rispondere a queste domande, dalla logica stringente, coloro che, a sinistra, hanno addirittura ritenuto che quello Áñez era un governo “fascista”, o nel migliore dei casi una dittatura militare simile a quelle di Pinochet o di Videla? Sarebbe stato o no corretto, se questa caratterizzazione fosse stata rispondente alla realtà, che la militanza del Mas e dei sindacati della Cob e della Fstmb fosse passata alla clandestinità come fecero quelle del Cile e dell’Argentina? Perché, di fronte a una pretesa dittatura militare, le organizzazioni di base non agitarono la parola d’ordine “abbasso la dittatura” chiamando i lavoratori e le masse popolari a sollevarsi e cercare di rovesciarla?
Nei quasi dodici mesi che sono trascorsi dalle dimissioni di Morales alle nuove elezioni, le forze della sinistra internazionale che hanno dato fiato alla narrazione del “golpe” e del “governo dittatoriale imposto dall’imperialismo statunitense” non hanno saputo e potuto rispondere a queste domande. Anzi, dopo il risultato elettorale, con incredibile faccia tosta e tutte gongolanti hanno ripreso e rilanciato quella narrazione strombazzando che “la democrazia ha vinto sull’imperialismo” e che “il popolo boliviano si è ripreso la propria sovranità”.
Il “golpe” alla prova dell’esito elettorale
Ma non sono state solo le circostanze fin qui descritte a deporre contro la tesi del “colpo di stato”. Anche lo svolgimento stesso delle elezioni di quest’anno dimostra che il governo Áñez non era affatto “golpista”, né incarnava una dittatura militare. Sulla sola base degli exit poll, senza neanche attendere l’esito dello scrutinio, la presidente ad interim riconosceva immediatamente Arce come vincitore.
Aún no tenemos cómputo oficial, pero por los datos con los que contamos, el Sr. Arce y el Sr. Choquehuanca han ganado la elección. Felicito a los ganadores y les pido gobernar pensando en Bolivia y en la democracia.
— Jeanine Añez Chávez (@JeanineAnez) October 19, 2020
Non era da meno un illustre rappresentante di quell’imperialismo statunitense che avrebbe – secondo la narrazione “tossica” qui contestata – eterodiretto il “golpe”. A Michael G. Kozak, responsabile dell’Ufficio per gli affari dell’emisfero occidentale del Dipartimento di Stato Usa, sono bastati i primissimi exit poll per congratularsi con il neoeletto presidente boliviano[8].
Felicitamos al presidente electo de Bolivia Arce y al vicepresidente electo Choquehuanca, y aplaudimos al pueblo boliviano por su votación pacífica.
Esperamos trabajar con el gobierno recién elegido para promover la prosperidad económica, los #DDHH y las libertades de prensa.— Brian A. Nichols (@WHAAsstSecty) October 19, 2020
E così pure, lo sfidante, Carlos Mesa, immediatamente riconosceva di fatto la propria sconfitta proclamandosi a capo dell’opposizione parlamentare.
Doy un Gracias muy sentido a los bolivianos que votaron por CC. Al pueblo boliviano por su compromiso democrático. A los militantes y directivos de CC, a nuestros aliados: FRI, Primero la Gente y Chuquisaca Somos Todos. Nos toca ser cabeza de oposición. Honraremos a Bolivia
— Carlos D. Mesa Gisbert (@carlosdmesag) October 19, 2020
E dunque, come è possibile continuare a parlare di “golpe” e di “dittatura militare” quando i presunti “usurpatori” e i loro sostenitori internazionali non hanno atteso nemmeno i risultati definitivi per riconoscere la vittoria schiacciante di coloro che meno di un anno prima essi avrebbero “violentemente spodestato”? In quale regime dittatoriale vengono invitate istituzioni internazionali quali osservatori del processo elettorale, e sotto gli occhi di queste (Unione Interamericana degli Organismi Elettorali, Organizzazione degli Stati Americani, Centro Carter, Unione Europea, Dipartimento dell’Onu e Parlamento del Mercosur) le operazioni si svolgono «senza contrattempi e con tranquillità»?
E ancora, se Áñez era una presidente “golpista”, com’è che è bastato al Mas approvare in parlamento – addirittura prima ancora delle elezioni! – una mozione di censura contro il potentissimo e feroce ministro (anch’egli “golpista”) Arturo Murillo per ottenere che venisse rimosso dall’incarico[9]? Allora è davvero così semplice combattere contro le dittature militari?
E infine, se la coalizione elettorale sconfitta nelle urne era il frutto di un “colpo di stato” che aveva instaurato un “regime di dittatura militare”, com’è possibile che il vincitore alle elezioni, Luis Arce, abbia subito dichiarato che sua intenzione è quella di formare un esecutivo di unità nazionale, e dunque in alleanza proprio con quei “golpisti” che solo undici mesi prima avrebbero cacciato con la forza il Mas ed Evo Morales dal governo del Paese?
Nonostante (e, forse, “contro”) Evo
Cerchiamo allora di fare un po’ d’ordine dopo aver messo da parte questa colossale sciocchezza del “colpo di stato”: una stanca litania che non fa altro che dislocare le organizzazioni della sinistra internazionale che la sostengono nel campo del nazionalismo borghese[10].
Cominciamo col dire che all’interno del Mas è venuta alla luce, e si è consolidata nell’ultimo anno, una profonda avversione nei confronti di Evo Morales e del suo vice dell’epoca, Álvaro García Linera, ritenuti responsabili della perdita di consensi fra le classi lavoratrici e, soprattutto, le popolazioni indigene, che hanno integrato nel tempo la base di massa del partito. Questa avversione non era altro che il riflesso di ciò che era emerso proprio in quella base di massa, e cioè il ripudio delle politiche con cui Evo ha costruito il proprio potere appoggiandosi non già sulle classi popolari, ma sulla borghesia capitalista, in particolare dell’agrobusiness: politiche che sono state vissute come il tradimento del programma originario del Mas e delle aspettative che questo aveva suscitato. Oggi, all’interno del partito c’è un forte dibattito sull’eventuale ritorno di Morales in patria, con un consistente settore che è contrario[11]. Del resto, Luis Arce è stato molto chiaro: «Nessuno disconoscerà il ruolo che Evo ha avuto, soprattutto a livello internazionale. Ma questo non significa che governerà. Sarò io a governare»[12].
C’è stato bisogno di un enorme lavoro di ricostruzione della fiducia delle masse indigene degli altipiani e delle valli andine nei confronti del Mas: un lavoro di ritessitura dei rapporti che è ricaduto sulle spalle del candidato a vicepresidente, David Choquehuanca, che ha percorso in lungo e in largo le comunità originarie costruendo la propria candidatura come quella di un uomo non di apparato; e, in quanto tale, contrapposta a quella dei settori del Mas affini a Evo Morales e García Linera, dai quali in passato egli era stato discriminato. Ha svolto, insomma, grazie anche alle proprie radici di etnia aymara, un importante ruolo di “riconciliazione” con tutta l’area rurale di La Paz, che alla fine è risultato decisivo per il responso nelle urne[13].
Choquehuanca sarebbe stato il candidato presidente ideale in questo senso, anche in quanto espressione dei settori “non‑evisti” del Mas. Tuttavia, il peso che ancora conserva Morales nel partito ha portato a una soluzione di compromesso, sfociata nella candidatura di Arce a presidente e quella di Choquehuanca come vice. E delle differenze e contrapposizioni che oggi si agitano all’interno del Mas si è avuta un’eco nelle prime dichiarazioni di Arce dopo la vittoria, quando ha fatto trapelare una timida consapevolezza degli errori commessi nella passata gestione del potere. Ecco perché «il Mas non ha vinto per Evo, ma nonostante Evo»[14]: la qual cosa costituisce la sconfessione più completa di quanto, anche a sinistra, è stato detto; e cioè, che il voto così massiccio per il Mas rappresenterebbe la dimostrazione che Evo Morales non architettò brogli elettorali nel 2019 per vincere. In altri termini, si sostiene, il peso elettorale – oggi – del Mas prova che non c’era bisogno – allora – di brogli per vincere.
Al contrario! È proprio la vittoria del duo Arce‑Choquehuanca a fornire la dimostrazione che il distacco da Evo di importanti settori di massa lo indussero a un escamotage pur di essere ancora una volta rieletto. Sarebbe invece bastato che Morales avesse rispettato la Costituzione che gli impediva di ricandidarsi; non avesse indetto un referendum per superare il divieto; avendolo perso, non avesse fatto ricorso a una Corte di giustizia addomesticata per farsi beffe della volontà popolare; sarebbe insomma bastato che si fosse fatto democraticamente da parte come chiedevano importanti settori della sua base perché il Mas, “cambiando cavallo” potesse vincere – come quest’anno – le elezioni. Avrebbe, peraltro, evitato che una destra particolarmente reazionaria, come quella di Camacho, rialzasse la testa.
Dopo la vittoria: ma chi è, davvero, Arce?
Ma oltre all’importante lavoro di ricucitura di Choquehuanca, altre condizioni sono state determinanti nella sconfitta di Mesa e della sua coalizione di centrodestra. Innanzitutto, una cattiva gestione pubblica durante gli undici mesi di governo; un’instabilità marcata della compagine governativa con le dimissioni e la sostituzione di diversi ministri; l’emergere delle stesse dinamiche di corruzione che si erano verificate durante il periodo di governo del Mas; una pessima conduzione dell’economia, soprattutto durante l’attuale emergenza sanitaria, che ha gettato nella miseria intere fette di popolazione; la percezione generalizzata a livello di massa che un governo di centro destra sarebbe potuto risultare persino peggiore di un esecutivo a guida Mas[15]; le forti divisioni nel campo della destra, e, da ultimo, una campagna elettorale pressoché passiva di Carlos Mesa[16].
Tutto ciò ha portato alla schiacciante – e inattesa per tutti gli analisti – vittoria al primo turno di Arce: che però, pur avendo avuto la maggioranza in entrambi i rami del parlamento, sufficiente per l’ordinaria amministrazione, a differenza della precedente composizione parlamentare non è riuscito ad ottenere quella dei due terzi, necessaria per le più importanti decisioni da assumere. Questo comporterà una costante e obbligata negoziazione con i partiti dell’opposizione[17].
Come abbiamo accennato, la candidatura di Luis Arce ha rappresentato una soluzione di compromesso tra le due tendenze che si sono manifestate all’interno del Mas. Ma il neoeletto presidente, benché si dia arie da “marxista”, è sostanzialmente un “tecnico”, un economista di taglio accademico che ha lavorato dal 1987 al 2005 nella Banca Centrale di Bolivia, svolgendo incarichi che gli valsero nel 2006 la nomina a ministro dell’Economia da parte di Evo Morales[18]. Ha svolto quest’incarico seguendo politiche economiche ortodosse – tanto che alcuni lo hanno definito “un neoliberista che non è uscito allo scoperto”[19] – ma che, complici gli altissimi prezzi delle materie prime di cui il sottosuolo boliviano è pieno, hanno fatto sì che la povertà estrema della popolazione si riducesse dal 38,2% al 15,2%[20].
Tali politiche, di stretto controllo della spesa pubblica ma di particolare favore per le imprese multinazionali di sfruttamento delle risorse energetiche, hanno creato una notevole stabilità economica e finanziaria del Paese e sono risultate gradite ai circoli del capitalismo internazionale, vista la crescita costante del Pil che ha reso la Bolivia un luogo dove gli investimenti appaiono remunerativi.
Il nazionalismo borghese di Evo verso la diluizione in un regime democratico‑borghese
Questa è la ragione per cui l’elezione di Arce alla presidenza della repubblica, sebbene sia mal vista dalla destra più reazionaria e razzista delle regioni della Media Luna (rappresentata da Luis Camacho), è invece molto ben gradita dal settore imprenditoriale, che pensa di poter fare buoni affari in un Paese governato da un tecnico sperimentato, sulla base di politiche economiche accorte e osservanti dei principi della “buona amministrazione” e dell’ortodossia capitalistica, e, soprattutto, su uno sfondo di pace sociale che invece l’altra parte non avrebbe saputo garantire.
Ecco perché la Confederación de Empresarios Privados de Bolivia (l’equivalente della nostra Confindustria), oltre a congratularsi con Arce e Choquehuanca per la loro elezione, si è da subito «dichiarata disponibile a sostenere gli sforzi e le iniziative statali, nell’elaborazione e la realizzazione di politiche globali in ambito economico, soprattutto per la riattivazione del settore produttivo e la ripresa dell’occupazione»[21].
Del resto, in un’intervista di pochi giorni fa, concessa dopo la vittoria, Arce è stato chiaro rispetto al suo rapporto con gli industriali: «Continueremo con il nostro modello economico, che a loro ha fruttato molto economicamente. […] Ciò che non possono negare è che il periodo in cui sono stato ministro io è stato quello più redditizio che abbiano mai avuto. Hanno aumentato il flusso della loro ricchezza»[22]. Ecco: una “confessione” così spontanea, fatta con tanto candore, vale mille volte più di mille argomenti per confutare che il Mas ed Evo Morales abbiano instaurato in Bolivia un “socialismo andino”. E vale ancor di più per combattere la colossale sciocchezza del “golpe” orchestrato dall’imperialismo per rovesciare un siffatto “regime socialista”.
Dopo le elezioni, gli analisti stanno già ipotizzando che, a fronte dei dati macro‑economici in forte calo[23], il nuovo governo dovrà essere improntato all’austerità, dovrà ridurre le spese destinando gli investimenti pubblici a progetti redditizi, più che alla domanda interna, e aumentare la produttività; e avanzano tali ipotesi segnalando peraltro che il modello economico applicato da Arce quando era ministro si basava su prezzi del petrolio a 130 dollari, mentre oggi il greggio è quotato a 30.
Del resto, il neoeletto presidente ha dimostrato – ove ce ne fosse stato bisogno – la sua “compatibilità” con il capitalismo internazionale quando, alla domanda se per reperire le risorse necessarie all’applicazione del suo programma economico farà ricorso a una moratoria del pagamento del debito pubblico, ha risposto invece che «sarà necessario negoziare il debito boliviano con gli organismi finanziari»[24]. Capito? Neppure una semplice sospensione, solo una rinegoziazione!
E dunque, stando così le cose, le previsioni che allo stato si possono fare circa la situazione in Bolivia dopo le elezioni vanno nel senso di una possibile stabilizzazione del quadro politico, con un governo tutt’altro che “antimperialista”, ma invece molto ben gradito ai circoli economici e al capitalismo. Le borghesie imperialiste, così come quella autoctona, fanno già oggi affidamento sulla capacità del nuovo presidente, che ha già dato buona prova di sé, di controllare le masse popolari per evitare una polarizzazione sociale – che invece era la posta su cui voleva scommettere l’estrema destra reazionaria, razzista e dai tratti fascisteggianti che si è riconosciuta in Camacho – estremamente dannosa per gli interessi del capitale: il cui programma è, ovviamente, quello di approfondire la penetrazione in Bolivia che proprio “l’antimperialista” Evo Morales ha favorito col suo immaginario “socialismo andino”[25].
È in questo senso che deve essere letta la soddisfazione espressa a livello internazionale dai più vari organismi del capitalismo e dalle borghesie mondiali per l’elezione di un affidabile Luis Arce.
Altro che “vittoria del popolo boliviano contro il disegno dell’imperialismo statunitense”! Altro che “recupero della sovranità nazionale”! Altro che “sconfitta del golpe ad opera della democrazia”!
Note
[1] Emersero, in particolare, diverse “anomalie”: dalla presenza di alcuni server non previamente registrati che immettevano dati di votazione nel sistema, all’accertamento che numerosi verbali delle operazioni di voto erano stati falsificati, fino alla votazione espressa da elettori che risultavano invece defunti. Su questa vicenda – ma, più in generale, sui quasi quattordici anni di gestione del potere da parte di Evo Morales e del Mas – ci siamo espressi nell’articolo “Ascesa e caduta di Evo Morales”, sempre su questo sito.
[2] Cfr. il testo cui rimanda la nota precedente.
[3] L’esercito, invece, rimase passivo e “neutrale”.
[4] Si tratta del leggendario sindacato nato su basi teoriche marxiste e che fu protagonista della Rivoluzione boliviana del 1952.
[5] “Mineros a Evo: Presidente la gestión ha terminado, la renuncia es inevitable”, 10/11/2019, Erbol.
[6] “Adriana Salvatierra, presidenta del Senado de Bolivia, renuncia a su cargo”, 10/11/2019, AM de Querétaro.
[7] “El Mas reconoce a Jeanine Áñez y destraba las nuevas elecciones”, 21/11/2019, El Deber. V. anche “El Mas reconoce en proyecto de ley la sucesión constitucional en la Presidencia”, 20/11/2019, El Día.
[8] Dal canto suo, dopo pochi giorni Mike Pompeo, Segretario di Stato Usa, oltre a congratularsi con il vincitore, ha specificato che «gli Stati Uniti non vedono l’ora di lavorare con il nuovo governo democraticamente eletto su questioni di reciproco interesse» (“Congratulations to Bolivia’s President-Elect Luis Arce”, 21/10/2020, U.S. Department of State).
[9] “Parlamento boliviano aprueba censura contra Arturo Murillo”, 14/10/2020, TeleSurTv.net. Si vedano anche gli articoli “Áñez cesa a los ministros Murillo y Cárdenas”, 19/10/2020, Los Tiempos; e “Tras triunfo del MAS, sale el ministro más poderoso y se prepara transición”, 20/10/2020, Página Siete.
[10] Non una novità, peraltro. È ciò che è analogamente accaduto con il regime dittatoriale di Maduro in Venezuela, appoggiato dalle stesse organizzazioni della sinistra contro un altro presunto “colpo di stato”. Ne abbiamo parlato in diverse occasioni su questo sito: qui, qui e qui.
[11] “Diferencias internas en el Mas sobre el retorno de Evo Morales a Bolivia”, 20/10/2020, Los Tiempos; “Evo quiere regresar, pero hay diferencias internas en el Mas”, 20/10/2020, Página Siete.
[12] “Luis Arce: «Evo Morales ya no preside Bolivia, soy yo quien va a gobernar»”, 22/10/2020, Ysuca.
[13] “Choquehuanca y Murillo, claves para entender el triunfo de Arce”, 20/10/2020, Página Siete. Nello stesso senso la ricostruzione dell’intellettuale Pablo Solón, un tempo vicino a Evo Morales tanto da avere svolto le funzioni di ambasciatore della Bolivia presso l’Onu, e oggi critico delle politiche eviste: “Porque ganó Lucho & David en las elecciones de Bolivia”, 19/10/2020, Fundación Solón.
[14] Così, espressamente, Pablo Solón nell’articolo citato nella nota precedente.
[15] “De la Cruz dice que la ‘élite logiera cruceña’ y su corrupción llevaron al fracaso la gestión transitoria”, 20/10/2020, Erbol.
[16] “Mesa, el intelectual que no pudo conectar con las clases populares bolivianas”, 24/10/2020, Página Siete.
[17] “El Mas deberá conciliar con CC temas clave en el Senado”, 20/10/2020, Página Siete; “El partido de Luis Arce tendrá seis escaños menos”, 20/10/2020, Página Siete.
[18] «Sebbene fosse una persona che all’epoca si dichiarava di sinistra, non era considerato né un marxista ortodosso né un militante comunista tradizionale», 21/1/2020, BBC News Mundo.
[19] “Luis Alberto Arce, el hombre detrás del éxito de Evo Morales”, 9/10/2014, The Wall Street Journal.
[20] Nell’aprile 2014 la Banca Mondiale ha definito “straordinari” questi risultati.
[21] “Confederación de Empresarios felicita al binomio del Mas por la votación y legitimidad alcanzada”, 23/10/2020, Erbol.
[22] “Luis Arce: «No queremos revancha en Bolivia, hay muchas cosas por hacer»”, 22/10/2020, El País (il grassetto è nostro).
[23] L’economia boliviana è caduta dell’11,1% nel primo semestre 2020. Le previsioni relative al Pil sono per una contrazione del 6,2% e un’inflazione dell’1,7% per la fine dell’anno. Le previsioni relative alla differenza tra entrate e uscite per il 2020 si attestavano a 20 miliardi di bolivianos (2,45 miliardi di euro); e invece lo scorso settembre è stata operata una correzione per la quale si ipotizza per fine anno un deficit di 32 miliardi di bolivianos (oltre 3,9 miliardi di euro). Il tasso di disoccupazione, che a dicembre 2019 era del 4,8%, è stato calcolato al 10,6% lo scorso agosto. Le esportazioni di gas e minerali – essenziali per un Paese costruito secondo una logica “estrattivista” – sono in discesa.
[24] Intervista citata nella nota 22 (il grassetto è nostro).
[25] Altra cosa è – e sarà tutta da verificare – capire quali margini avrà a sua disposizione Arce per non scontentare le masse popolari boliviane se la crisi economica si approfondirà ulteriormente a causa della recrudescenza della pandemia in atto: al momento, chiaramente, non è possibile avanzare previsioni in questa direzione, per cui ci riserviamo di tornare in argomento quando ci saranno elementi per poter approfondire l’analisi.