Le elezioni, il referendum, Rosa Luxemburg … e Novella 2000
Cosa nasconde il radicalismo verbale dell’estremismo?
Valerio Torre
«Per un marxista, non è la citazione
bensì il metodo corretto
ciò che permette di risolvere il problema.
Ma con l’aiuto di un metodo corretto
non è difficile trovare la citazione appropriata»
(L. Trotsky)
Il 20 e 21 settembre prossimi si terranno le elezioni per il rinnovo dei consigli regionali di sette regioni (Veneto, Campania, Liguria, Puglia, Marche, Toscana e Valle d’Aosta). A queste consultazioni è stato accorpato anche il referendum costituzionale che dovrà decidere se confermare o respingere la legge che prevede il taglio dei parlamentari.
Abbiamo esposto le ragioni che ci spingono a votare per il NO all’approvazione di tale riforma[1] e vi ritorneremo nel prosieguo di questo articolo. Intendiamo ora, invece, soffermarci sulle elezioni regionali.
Ciò che faremo al seggio elettorale
Abbiamo, a differenza di tanti, il senso della misura; per cui le righe che seguono non debbono essere intese come una “indicazione di voto”: non abbiamo la pretesa di essere rappresentativi di alcunché, sicché sarebbe presuntuoso da parte nostra dare “indicazioni”. Vogliamo però spiegare ai nostri “venticinque lettori” di manzoniana memoria[2] che in nessuna delle regioni chiamate al voto è presente una qualsiasi lista che in qualche modo rappresenti le ragioni della classe operaia. Oltretutto, le normative che riguardano la possibilità di concorrere alle elezioni sono estremamente penalizzanti per le piccole organizzazioni, e, rendendo di fatto pressoché impossibile una loro autonoma presentazione, sono perciò antidemocratiche. Per questi motivi rifiuteremo la scheda per questa consultazione mentre ritireremo quella per il referendum, chiedendo di esplicitare e verbalizzare le motivazioni di tale condotta.
Si tratta, infatti, di un procedimento non espressamente disciplinato dalla legge, ma consentito dalla circolare del Ministero dell’Interno n. 30/2016 del 27/5/2016, al punto h. L’elettore che voglia manifestare il proprio “astensionismo attivo” (così viene definito) dovrà rifiutare la scheda chiedendo al presidente del seggio di raccogliere a verbale le sintetiche motivazioni del rifiuto. Per facilitare la speditezza delle operazioni di voto – ed evitare anche di incorrere in ingiustificati ostacoli da parte dell’ufficio elettorale della sezione – è consentito di depositare un documento che esponga le ragioni dell’elettore e che dovrà essere allegato al verbale delle operazioni elettorali. Ed è esattamente ciò che faremo, soprattutto in Campania, che è la regione dove prevalentemente opera il nostro piccolo collettivo, considerando che entrambe le liste che pretenderebbero di collocarsi “a sinistra”, e cioè “Potere al popolo” e “Terra”, sono espressione di una politica riformista e non di classe, prive di un programma anticapitalista[3].
Le citazioni e il “contesto”
Per quanto riguarda invece la consultazione referendaria, rinviamo – come già accennato – alle ragioni esposte nell’articolo segnalato nella nota 1 a supporto del NO alla riforma costituzionale.
Se torniamo in argomento, è perché ci è stato segnalato un articolo presente sul web, scritto da sostenitori di una sorta di boicottaggio del referendum, i quali contestano sia le ragioni del SÌ che quelle del NO. In particolare, relativamente a queste ultime, essi polemizzano con tutte le organizzazioni che si rifanno al marxismo rivoluzionario; ma dedicano uno spazio spropositato, che sicuramente non meritiamo attesa la nostra ininfluenza (di cui siamo consapevoli), proprio a quel nostro testo.
L’utilizzo di un linguaggio sgradevole, greve e volgare utilizzato dai suddetti boicottatori dissimula in realtà la loro sesquipedale ignoranza teorica e la chilometrica distanza dal marxismo (che peraltro non si fanno scrupolo di far trapelare tra le righe).
Una delle critiche che viene mossa al nostro scritto è quella di avere estrapolato e decontestualizzato alcune citazioni per usarle a supporto delle ragioni da noi difese: si sostiene, cioè, che i passaggi da noi riportati riguardino epoche storiche morte e sepolte, che nulla avrebbero a che fare con la situazione odierna.
Ah, il “contesto”! Un dio pagano che da Bernstein in poi viene invocato da tutti gli opportunisti per giustificare l’abbandono dei principi del marxismo con la scusa che “non siamo più agli inizi del 1900”, ormai “il contesto è diverso”, “l’Italia di oggi non è la Russia di allora”, e altre consimili amenità. Sull’altare del “dio contesto” la furia iconoclasta di questi sedicenti “antidogmatici” e puristi dell’azione, piuttosto che della teoria, soddisfa l’incontenibile brama di bruciare quelli che proprio loro ergono a “sacri libri”, mentre per noi sono soltanto la teorizzazione e sistematizzazione dell’esperienza storica del movimento operaio.
Se questi astensionisti d’acciaio conoscessero la storia, oltre che la teoria, saprebbero che Lenin era un fior di “citazionista”, avendo scritto uno dei suoi più famosi saggi – Stato e rivoluzione – raccogliendo in un quaderno (il famoso, ma certo ignoto agli adoratori del “dio contesto”, Quaderno azzurro) proprio le più importanti citazioni della teoria dello Stato elaborata da Marx e da Engels. E, verosimilmente, avrebbero rivolto anche al grande rivoluzionario russo l’accusa di “citazionismo”.
Rosa Luxemburg e il parlamentarismo borghese: un approccio dialettico
Ci è stato anche segnalato che qualcuno degli esponenti dell’eterogeneo gruppo dei “boicottatori”, inconsapevole di poter essere anch’egli accusato di sterile “citazionismo”, abbia su qualche social forum utilizzato delle citazioni di Rosa Luxemburg a supporto della propria posizione: in particolare, attingendo dal più famoso dei suoi pamphlet – Riforma sociale o rivoluzione? – la critica feroce che la rivoluzionaria polacca lanciò contro la democrazia borghese proprio in occasione del Bernsteindebatte. Utilizzando gli argomenti che Rosa scagliò contro Bernstein e i suoi seguaci, nonché contro il parlamentarismo borghese, i “citazionisti‑boicotattori” pensano così di avere posto fine alla discussione.
Il fatto è che Rosa Luxemburg era una maestra nell’uso del metodo marxista di analisi dialettica, a differenza di questi suoi abusivi saccheggiatori. E, quantunque siamo consapevoli di far venire l’orticaria ai nostri critici, ci vediamo costretti a citare alcuni notevoli passaggi del suo pamphlet.
Rosa Luxemburg non si limita a ripetere – come pappagallescamente fanno gli intrepidi astensionisti nostrani – che il parlamentarismo borghese è l’espressione degli interessi della classe dominante. Al contrario: dialetticamente, ella osserva che «non appena la democrazia tende a smentire il suo carattere classista ed a trasformarsi in uno strumento dei reali interessi del popolo, le stesse forme democratiche vengono sacrificate dalla borghesia e dalla sua rappresentanza statale»[4].
Sorpresa! Luxemburg che difende la possibilità che il parlamento borghese diventi “strumento dei reali interessi del popolo”? Immaginiamo lo sbigottimento dei nostri acerrimi critici, i quali, a digiuno del metodo dialettico, ignorano ciò che avvenne durante la Rivoluzione finlandese del 1917‑1918[5], la guerra civile spagnola e il colpo di stato del 1973 in Cile[6], allorquando, per l’appunto, la borghesia aveva perso il controllo del suo parlamento.
E non è finita: perché la stessa Rosa evidenzia che
«oggi il movimento operaio socialista è e può essere l’unico punto d’appoggio della democrazia, e … non i destini del movimento socialista sono legati alla democrazia borghese, ma piuttosto i destini dello sviluppo democratico sono legati al movimento socialista»[7].
Dunque, secondo i nostrani boicottatori le lotte per il suffragio universale, per il voto alle donne, sarebbero lotte per ottenere i “diritti formali” della democrazia borghese? E, quindi, in ultima analisi, chi le ha condotte, chi addirittura ha sacrificato in esse la propria vita, ha difeso il parlamentarismo borghese?
Che strano. Rosa Luxemburg non sembra pensarla così:
«Se per la borghesia la democrazia è diventata un elemento in parte superfluo, in parte di ostacolo, essa per la classe operaia, invece, è diventata necessaria e indispensabile. Necessaria, prima di tutto in quanto offre le forme politiche (autogoverno, diritto elettorale) che serviranno al proletariato da appigli e punti di appoggio nella sua opera di trasformazione della società borghese. Ma anche indispensabile, perché solo in essa, nella lotta combattuta per la democrazia, nell’esercizio dei diritti democratici, il proletariato diviene cosciente dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici. La democrazia insomma è indispensabile, non in quanto rende superflua la conquista del potere politico da parte del proletariato, ma al contrario perché fa di questa conquista una necessità e al tempo stesso l’unica possibilità»[8].
Che significa, dunque, il ragionamento della grande rivoluzionaria? Significa che la democrazia è un valore essenziale che il movimento socialista deve salvare dalla stessa borghesia reazionaria quando, in nome dei propri interessi, questa dimentica i “principi democratici” formalmente proclamati e sbandierati ed è subito pronta a tradire e sacrificare le forme democratiche.
Quando Rosa sosteneva che la trasformazione del parlamento borghese in “strumento dei reali interessi del popolo” induceva la borghesia a “sacrificare le stesse forme democratiche”, non aveva avuto modo di assistere al sorgere del fascismo, cioè un regime in cui, sebbene controvoglia, le classi dominanti usano metodi di guerra civile contro il proletariato ed eliminano del tutto le forme parlamentari della democrazia borghese. Nondimeno, sorprendentemente, il suo ragionamento e la sua analisi dialettica si attagliano perfettamente a regimi che avrebbero visto la propria nascita molti anni dopo.
Trotsky sui diversi regimi borghesi
Trotsky, che poté invece assistere allo sviluppo e alla mutazione della democrazia liberale in bonapartismo e poi in fascismo, spiegava bene questa linea evolutiva:
«[…] con la guerra imperialista è iniziato il palese declino del capitalismo e, prima di tutto, della sua forma democratica di dominio. Ora non si tratta più di concedere nuove riforme e nuove elemosine, bensì di rosicchiare e di eliminare le antiche. Il dominio della borghesia entra così in contraddizione non solo con gli istituti della democrazia proletaria (sindacati e partiti politici), ma anche con la democrazia parlamentare entro il cui quadro si sono costituite le organizzazioni operaie. Di qui la campagna contro il “marxismo” da una parte e contro il parlamentarismo democratico dall’altra»[9].
A differenza dei nostri ferrei critici, che sono invischiati nel pantano della logica formale – su cui ci soffermeremo in conclusione di questo testo – la borghesia utilizza molto bene il metodo dialettico. Non quello marxista, sia chiaro; ma quello funzionale ai propri interessi. Sicché, a seconda delle necessità della fase storica, passa più o meno indifferentemente dall’una all’altra forma di regime di dominazione: attraverso la democrazia liberale, quando può tradurre quest’ultima in forme ordinate, pacifiche, conservatrici; e attraverso l’utilizzo di metodi di guerra civile contro il proletariato, quando si sente invece costretta dall’impellente necessità di tutelare il proprio “diritto allo sfruttamento” minacciato da qualche forza contrapposta. Tra questi due estremi, non si fa scrupolo di ricorrere a una maggiore o minore torsione in senso reazionario della forma democratico‑borghese introducendo di volta in volta elementi di bonapartismo (come peraltro sta accadendo da anni anche in Italia, persino sotto gli occhi degli ignari boicottatori nostrani che sembrano non accorgersi di nulla).
Tuttavia, quando è spinta da situazioni critiche,
«la borghesia è incapace di mantenersi al potere con i sistemi dello Stato parlamentare che essa stessa ha creato, ha bisogno del fascismo come arma di autodifesa […]. Ma la borghesia non ama il modo “plebeo” di realizzazione dei suoi obiettivi […] in quanto gli sconvolgimenti, anche se provocati per difendere la società borghese, implicano dei pericoli. Di qui la contrapposizione tra fascismo e partiti borghesi tradizionali. La grande borghesia fa ricorso al fascismo con la stessa allegria con cui una persona che ha la mascella ammalata si fa strappare i denti»[10].
Prima che gli adoratori del “dio contesto” possano accusarci di vedere il fascismo alle porte, ci preme precisare che queste – per loro indigeste – citazioni servono a mostrare e dimostrare ciò che abbiamo già accennato: e cioè, quanto la borghesia sia infinitamente più “dialettica” dei monolitici e inflessibili puristi della lotta contro di essa e le sue istituzioni. Per loro no, non c’è differenza tra regime democratico‑parlamentare borghese, regime più o meno bonapartista (sia pure nelle forme apparenti della democrazia istituzionale) e regime fascista: sono tutti espressione di una «sovrastruttura funzionale al mantenimento della struttura economica vigente e alla preservazione del potere nelle mani della classe dominante». Così stando le cose, secondo costoro non ci sono spazi di agibilità democratica (nemmeno puramente formali) da difendere: la “ricetta magica” che propongono è di una semplicità disarmante. È sufficiente «tagliare i ponti con l’istituzionalismo, in tutte le sue varianti», come «parte dell’impegno attivo che i marxisti devono mettere in atto quotidianamente contro le istituzioni borghesi e i suoi tranelli».
Perbacco! Come non averci pensato prima?
Be’, no. In realtà qualcun altro ci aveva già pensato. Ne parleremo fra poco.
La logica formale e l’otzovismo dei giorni nostri
Intorno al 1907[11], all’interno della frazione bolscevica del Posdr sorse una tendenza che si denominò degli “otzovisti”. All’indomani della Rivoluzione del 1905, era subentrato un periodo di riflusso del movimento operaio, favorito anche dalla repressione del regime zarista. Iniziò anche una fase di smarrimento fra gli intellettuali, e persino fra gli stessi bolscevichi. Gli otzovisti esprimevano posizioni estremistiche e avanzavano rivendicazioni radicali: in particolare, esigevano il “ritiro” (otzvat’, in russo) dei deputati bolscevichi dalla Duma, giungendo a pretendere che il partito boicottasse il lavoro nelle organizzazioni legali e passasse immediatamente all’azione violenta. Se però politicamente gli otzovisti erano estremisti per le misure da loro proposte, da un punto di vista teorico esprimevano una posizione di destra avendo aderito a una corrente filosofica che di fatto rinnegava il materialismo[12].
Lenin condusse una lotta implacabile contro questa tendenza, combattendola con forza anche attraverso il famoso saggio Materialismo ed empiriocriticismo.
Ora, non è ovviamente questa la sede per affrontare un simile tema, dalle profonde implicazioni filosofiche. Ma è interessante notare che già ben oltre centodieci anni fa c’era chi aveva sviluppato uno degli argomenti – forse quello principale – su cui si basa il traballante edificio dei boicottatori nostrani.
I nostri intrepidi astensionisti di principio, che possiamo certamente iscrivere alla setta degli otzovisti (da operetta, naturalmente) proclamano, infatti, che, «essendo le istituzioni borghesi […] larghissimamente delegittimate, gran parte della popolazione non si reca alle urne né si interessa dei teatrini elettorali»; e che «larga parte di popolazione … non vota, dato che […] non è interessata alla difesa degli spazi “formali” di “agibilità democratica” e alle disquisizioni intorno ad essa».
In un testo del novembre 1908[13], Lenin ci racconta che un operaio otzovista aveva scritto una lettera – poi pubblicata sul periodico bolscevico Proletarij – in cui rivendicava il ritiro dei parlamentari bolscevichi dalla Duma con le seguenti motivazioni:
«Uno dei motivi principali che hanno sollecitato il partito a prendere parte alle elezioni è stata la speranza riposta nella funzione propagandistica e agitatoria della tribuna della Duma. […] La realtà ha tuttavia dimostrato […] che l’agitazione alla terza Duma si riduce a zero, anzitutto, per la composizione stessa del gruppo e, inoltre, a causa della totale indifferenza delle masse per tutto ciò che avviene tra le mura del palazzo di Tauride»[14].
È incredibile come ben centododici anni dopo vengano riproposte le stesse, identiche critiche. Sarà per caso perché chi oggi non vuol passare per “citazionista” in realtà esprime il proprio totale disprezzo per la teoria?
Bene. Vediamo ora come Lenin affronta gli argomenti dell’operaio otzovista.
«Alla Duma … si sviluppa, e noi tutti lo sappiamo, la politica dell’autocrazia, una politica di sostegno dello zarismo da parte del grande proprietario fondiario centonero e del grande capitalista ottobrista, una politica di servilismo del parolaio cadetto liberale nei confronti dello zarismo. Essere indifferenti per “tutto ciò che avviene tra le mura del palazzo di Tauride” significa essere indifferenti nei confronti dell’autocrazia, nei confronti di tutta la sua politica interna ed estera! L’autore ha fatto […] un ragionamento ispirato al menscevismo alla rovescia. “Se le masse sono indifferenti, devono esserlo anche i socialdemocratici”. Ma noi siamo il partito che guida le masse verso il socialismo e che non segue affatto ogni mutamento d’umore e ogni avvilimento delle masse. […] i socialdemocratici rivoluzionari fedeli ai principi non si piegano a ogni mutamento d’umore delle masse. […] dire che l’agitazione si riduce a zero a causa della totale indifferenza delle masse significa non ragionare da socialdemocratici».
E poi, dopo avere fatto un’analisi concreta della situazione concreta, e cioè dopo aver considerato che il periodo in cui questa discussione avveniva era «di stagnazione, di crisi e di dissolvimento di tutte le organizzazioni socialdemocratiche e operaie», e non certo un periodo «di evidente interesse delle masse per le forme direttamente rivoluzionarie della lotta» (quante assonanze con la situazione dell’Italia del 2020, vero? A dispetto del differente “contesto”!), Lenin conclude:
«Forse – diciamo noi – avreste ragione, compagno otzovista, se la massa potesse “oggi” […] spezzare … le barriere: cioè, se la massa potesse oggi spezzare le “barriere” della terza Duma, forse sarebbe inutile per la socialdemocrazia rivoluzionaria inviare alla Duma un proprio reparto. Forse. Ma voi stesso dite che non è possibile, voi stesso riconoscete che nelle attuali condizioni è indispensabile un lavoro preliminare serio e tenace per tramutare questa possibilità in realtà».
Dunque, come si vede, e concludiamo qui questo scritto, Lenin utilizza a pieno il metodo dialettico dell’analisi marxista. Gli otzovisti da operetta, invece, sono invischiati nella loro logica formale: “istituzioni delegittimate = disinteresse delle masse = disinteresse dei comunisti per quelle istituzioni”. E, in ultima analisi, ciò non rappresenta altro che stare alla coda delle masse: le quali – è chiaro – non si accorgeranno neanche di passata di una posizione siffatta, e l’ignoreranno.
Forse sarebbe il caso, visto il loro disprezzo per la teoria, che gli otzovisti nostrani abbandonassero la loro logica formale e iniziassero almeno a studiare un po’ di logica marxista. Potremmo consigliare loro, ad esempio, il bel libro di George Novack, Introduzione alla logica marxista, … se non fosse che essi sembrano molto più avvezzi a formarsi su rotocalchi come Novella 2000[15].
Note
[1] “Contro l’estremismo iper‑rivoluzionario”, su questo stesso sito.
[2] A. Manzoni, I promessi sposi, cap. I.
[3] Su “Potere al popolo” manteniamo ferme, nonostante il tempo trascorso, le caratterizzazioni estremamente critiche che esponevamo nell’articolo “Potere al popolo o potere dei lavoratori?” e che, semmai, si sono da allora ulteriormente aggravate. Per quanto riguarda invece “Terra”, si tratta di una lista che raggruppa comitati ambientalisti e nella quale si è catapultata Rifondazione comunista (o, meglio, ciò che ne resta), partito del tutto incapace ormai di una politica e di una connotazione autonome. In ogni caso, entrambe le liste presentano dei programmi riformisti, che non mettono minimamente in discussione il sistema capitalistico.
[4] R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, in Scritti politici, vol. 1, Editori Internazionali Riuniti, 2012, p. 189.
[5] Ne abbiamo parlato su questo stesso sito attraverso i due articoli, “La rivoluzione finlandese” e “Le lezioni della Finlandia: replica a Eric Blanc”.
[6] Sul colpo di stato che pose fine al processo rivoluzionario cileno, abbiamo pubblicato da ultimo “Le lezioni dell’11 settembre 1973”.
[7] R. Luxemburg, op. cit., p. 216.
[8] R. Luxemburg, ivi, p. 222.
[9] L. Trotsky, “La sola via”, in I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali, 1924‑1940, Giulio Einaudi Editore, 1970, p. 360.
[10] L. Trotsky, op. cit., pp. 361‑362.
[11] Ahinoi! Ci siamo ricascati: ora susciteremo l’ira degli adoratori del “dio contesto”. E vabbè: ce ne faremo una ragione.
[12] Trotsky spiega molto efficacemente che «mentre i menscevichi consideravano sempre e comunque necessario partecipare a qualsiasi “parlamento”, anche sotto la irresistibile pressione della rivoluzione, anche a un parlamento puramente arbitrario modellato dallo zar, gli otzovisti pensavano che boicottando il parlamento insediato in conseguenza della sconfitta della rivoluzione sarebbero stati in grado di suscitare una nuova pressione di massa». E, facendo ricorso alla sua nota ironia, conclude: «Poiché le scariche elettriche si accompagnano ai tuoni, gli “irreconciliabili” tentavano di generare delle scariche elettriche per mezzo di tuoni artificiali» (L. Trotsky, Stalin, A.C. Editoriale, 2017, p. 194).
[13] V.I. Lenin, “A proposito di due lettere”, in Opere, vol. 15, Edizioni Lotta comunista, 2002, pp. 271‑286.
[14] Il grassetto è nostro.
[15] Ci siamo fin troppo lungamente espressi a proposito delle critiche nei nostri confronti avanzate dagli intrepidi boicottatori. Ma non possiamo chiudere questo testo senza accennare di passata al volgare riferimento che essi fanno al compagno Valério Arcary, autore dell’articolo che accompagna lo scritto da loro criticato. Premettiamo che il Collettivo che anima questo sito non è, come vorrebbero fare intendere gli otzovisti da operetta nostrani, la succursale italiana del Psol brasiliano, dalla cui pratica politica è ben lontano. Nondimeno, a beneficio di chi non segue le vicende della sinistra del Brasile, va detto che il Psol è un “partito‑contenitore”, che raggruppa – tra le altre – la tendenza marxista di sinistra Resistência. Valério Arcary, che milita in tale corrente e della cui personale amicizia chi scrive questo testo è onorato, è uno dei più importanti studiosi marxisti brasiliani, profondo conoscitore della storia del movimento operaio e valente teorico, con un’importante traiettoria politica nel campo del marxismo rivoluzionario, avendo partecipato anche alla Rivoluzione dei Garofani del 1974 in Portogallo. Le parole di dileggio nei suoi confronti espresse dai boicottatori provengono, invece, da chi ha tutt’al più partecipato a qualche assemblea condominiale o riunione parrocchiale. E in quanto tali si qualificano.