I nostri lettori ricorderanno che, lungo tutto il 2017, in collaborazione con la rivista americana Jacobin Magazine, abbiamo pubblicato su questo sito, traducendoli in italiano, i numerosi saggi commemorativi del centenario della Rivoluzione russa del 1917, scritti da diversi dei migliori studiosi internazionali del tema e facenti parte della serie apparsa in inglese su quella rivista.
Purtroppo, per la limitatezza delle nostre forze, non siamo riusciti a tradurre tutti questi importanti saggi, ma, fino ad oggi, quattordici di essi sui venti apparsi. In particolare, non abbiamo pubblicato quello che chiudeva idealmente la serie, e cioè la monografia di Neil Davidson sul più importante lavoro di ricostruzione storica del processo rivoluzionario russo che, tra il febbraio e l’ottobre del 1917, portò per la prima volta la classe operaia al potere: la Storia della Rivoluzione russa di León Trotsky.
Malauguratamente, il 3 maggio scorso, Neil Davidson è prematuramente scomparso. Per ricordarlo, rimediamo alla nostra mancanza con la traduzione e pubblicazione in italiano su questo sito del suo importante studio.
Buona lettura.
La redazione
La storia dal basso
La Storia della Rivoluzione russa resta un’opera unica nel panorama della storiografia marxista
Neil Davidson [*]
Mentre questa serie di articoli che abbiamo pubblicato per commemorare la Rivoluzione russa volge al termine, dobbiamo prendere in considerazione il più avvincente resoconto di quel momento. Scritta da uno dei suoi principali protagonisti, la Storia della Rivoluzione russa di León Trotsky fu completata nel 1930, quando Trotsky era da poco stato esiliato dalla Russia e viveva in Turchia.
Nonostante la sua lunghezza – l’edizione del 1977 a cui mi riferisco si estende per quasi 1300 pagine – l’opera si concentra sul periodo che va dal febbraio all’ottobre 1917. Ad eccezione di sei capitoli iniziali, che illustrano la cornice teorica e il contesto storico del libro, e sei appendici di confutazioni di ricostruzioni dello stalinismo, ogni volume tratta solo un intervallo di mesi[1]. Il primo volume da febbraio a giugno, il secondo da luglio a settembre e il terzo copre il mese di ottobre, concludendosi all’indomani della presa di potere da parte dei bolscevichi[2].
Nessun altro lavoro storico sull’argomento ha raggiunto questo grado di precisione. Non sorprende che il primo volume abbia immediatamente incontrato critiche per la sua “prolissità”, alle quali Trotsky rispose nella prefazione al secondo e terzo volume:
«Si può fare la fotografia di una mano: basta una pagina. Ma per esporre i risultati di uno studio microscopico dei tessuti di una mano, occorre un volume. L’autore non si fa illusioni sulla completezza e sul carattere definitivo della ricerca che ha compiuto. Tuttavia, in molti casi, ha dovuto usare metodi propri più del microscopio che della macchina fotografica»[3].
L’opera si presenta in forma di narrazione, ma Trotsky usa il suo “microscopio” per condurre un’analisi approfondita, mettendo occasionalmente in pausa lo sviluppo della storia per affrontare i problemi che man mano andavano emergendo. In genere, dedicando interi capitoli a questi temi: ad esempio su quello della direzione (“Gli uomini della Rivoluzione di febbraio”); sui possibili esiti alternativi (“I bolscevichi avrebbero potuto prendere il potere in luglio?”); su situazioni nuove (“Il dualismo di poteri”); su problemi ancora in sospeso (“La questione nazionale”) e sull’atto stesso della presa del potere statale (“L’arte dell’insurrezione”). Queste apparenti digressioni non interrompono o distolgono dal flusso della storia, ma piuttosto arricchiscono la nostra comprensione degli eventi prima di riprendere la narrazione.
Un quadro teorico chiaro supporta queste analisi. In effetti, poche opere della storiografia marxista presentano un taglio così decisamente teorico come la Storia. E ancor meno testi iniziano introducendo un nuovo concetto teorico, come fa Trotsky nel primo capitolo.
Se il principale contributo strategico di Trotsky al marxismo è stato la sua caratteristica versione di “rivoluzione permanente”, il suo più importante contributo teorico è stato quello dello “sviluppo disuguale e combinato”. Attraverso quest’elaborazione, egli ha voluto spiegare in maniera semplice le condizioni in cui poteva aver luogo la rivoluzione permanente, dapprima in Russia, poi in altri Paesi che si trovavano in condizioni simili, a partire dalla Cina.
Venticinque anni prima, Trotsky aveva sostenuto che, sebbene in Russia si fossero sviluppati rapporti capitalistici di produzione, e anzi stessero addirittura diventando dominanti, la rivoluzione borghese – nel senso dell’istituzione di uno Stato capitalista – non si era ancora verificata. L’esistenza di una classe operaia militante faceva sì che la borghesia fosse riluttante ad avviare una rivoluzione per proprio conto, per paura di non riuscire a controllarla.
Ma la classe operaia avrebbe potuto realizzare la rivoluzione contro lo Stato precapitalista e, almeno nella versione trotskiana di rivoluzione permanente, passare direttamente alla costruzione del socialismo, sempre che ciò fosse stato parte di un vittorioso movimento rivoluzionario internazionale.
Trotsky inizia la sua Storia indagando lo sviluppo disuguale del capitalismo in Russia. La concorrenza militare delle potenze occidentali aveva costretto gli zar a una modernizzazione parziale. Come egli osservò in una conferenza[4], «la Grande Guerra, prodotto delle contraddizioni dell’imperialismo mondiale, trascinò nel suo vortice Paesi che si trovavano in diversi stadi di sviluppo, ma impose a tutti i partecipanti gli stessi obblighi».
Lo Stato russo generò uno sviluppo combinato nella speranza di superare la sua arretratezza, cioè il suo sviluppo disuguale. Ma come lo stesso Trotsky scrisse in un saggio sulla Rivoluzione cinese:
«L’arretratezza storica non implica una semplice riproduzione dello sviluppo dei Paesi avanzati, dell’Inghilterra o della Francia, con un ritardo di uno, due o tre secoli. Essa produce una formazione sociale “combinata” completamente nuova nella quale le ultime conquiste della tecnica e della struttura capitalistiche affondano le proprie radici in rapporti di barbarie feudale o pre‑feudale, trasformandoli ed assoggettandoli, e creando dei rapporti di classe particolari»[5].
La stabilità tipica delle società feudali o dipendenti si sgretola con l’arrivo dell’industrializzazione capitalista e tutto ciò che ne consegue: rapida crescita demografica, espansione urbana sfrenata, drammatici cambiamenti ideologici. Lo sviluppo combinato significava che regioni arretrate potevano fare solo progressi settoriali in aree specifiche, e non già riprodurre l’esperienza complessiva delle economie avanzate. Nella Storia, Trotsky sottolinea la natura parziale di queste integrazioni:
«La Russia era talmente in ritardo rispetto agli altri Paesi da essere costretta, almeno in certi campi, a superarli[6]. […] L’assenza di forme sociali e di tradizioni stabili fa sì che un Paese in ritardo – almeno entro certi limiti – sia straordinariamente accessibile all’ultimo grido della tecnica e del pensiero mondiale. Ma il ritardo resta sempre ritardo[7]» [grassetto aggiunto].
Tuttavia, entro questi limiti, società pur arretrate potrebbero raggiungere livelli di sviluppo più elevati rispetto ai loro rivali più affermati. Trotsky continua:
«Mentre l’agricoltura contadina, sino alla rivoluzione, restava per lo più quasi al livello del XVII secolo, l’industria russa, per la sua tecnica e per la sua struttura, si trovava al livello dei Paesi capitalisti avanzati, e per certi aspetti persino li superava»[8] [grassetto aggiunto].
Queste integrazioni non minavano necessariamente lo Stato, dal momento che «un Paese arretrato … spesso peggiora quello che prende a prestito dall’estero, per adattarlo alla propria cultura primitiva»[9]. In effetti, almeno inizialmente, un “adattamento peggiorativo” ha contribuito a preservare la Russia in uno stadio pre‑capitalista.
A partire dal 1861, lo zarismo si trovò nella necessità di produrre armi per difendere l’assolutismo feudale, sicché creò fabbriche usando le tecniche caratteristiche del capitalismo monopolistico. Ma i lavoratori che servivano per alimentare questa produzione minacciavano lo Stato. I lavoratori industriali costituivano un gruppo più abile e politicamente più consapevole rispetto a qualsiasi altro in precedenza affrontato dallo Stato assolutista o incipientemente capitalista.
Lo sviluppo disuguale e combinato creò in Russia una classe operaia che possedeva livelli eccezionali di militanza rivoluzionaria, benché essa fosse soltanto una minoranza della popolazione. Lo Stato non democratico, che avrebbe dovuto preservare questo “adattamento peggiorativo” del capitalismo, spinse la classe operaia a distruggerlo.
Pertanto, per Trotsky, lo sviluppo disuguale e combinato tendenzialmente rafforzò l’organizzazione politica e industriale dei lavoratori, la loro comprensione teorica e la loro attività rivoluzionaria. Ciò non garantiva la vittoria – erano necessari un partito rivoluzionario con perspicacia strategica e un contesto globale in cui le rivoluzioni nei Paesi più avanzati avrebbero potuto aiutare la Russia materialmente arretrata – ma era il punto di partenza fondamentale, sia per la rivoluzione che per la narrazione di Trotsky.
Il primo storico marxista
Qualunque sia la valutazione che della Storia si voglia dare dopo il “tour de force” del capitolo introduttivo, essa non può prescindere da quanto lo scritto sia originale, anzi senza precedenti, all’interno della tradizione marxista, proprio in quanto opera di storia. È curioso, dal momento che il sinonimo più comune di marxismo è “materialismo storico”, quante poche opere di storiografia marxista siano state effettivamente scritte prima del 1930.
Gli scritti di Marx ed Engels dei primi anni del 1850 – “Le lotte di classe in Francia”, “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania”, “Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte”, e, più tardi, la difesa di Marx della Comune di Parigi (“La guerra civile in Francia”) – sono spesso citati come antesignani della tradizione a cui Trotsky ha poi contribuito. Ma queste non sono opere storiografiche; sono brillanti valutazioni giornalistiche scritte all’indomani degli eventi. Delle opere di Trotsky, forse quella che ad esse assomiglia maggiormente è 1905, al pari di quelle segnata da una vicinanza cronologica all’argomento trattato e anch’essa scritta in condizioni simili di sconfitta ed esilio.
Naturalmente, i fondatori del marxismo stavano formulando una teoria dello sviluppo storico e si basavano sempre su esempi storici per illustrare e confermare i loro argomenti, ma, tra tutti i loro lavori, solo La guerra dei contadini in Germania (1850) di Engels può essere seriamente considerata un’opera di storia, e analizza un episodio occorso in un passato relativamente distante che viene esplicitamente trattato come un monito circa i pericoli insiti nel tentativo di prendere il potere prima che le condizioni siano mature.
La situazione non cambiò affatto con l’avvento della Seconda Internazionale nel 1889. In parte, perché, in assenza di qualcosa che assomigliasse a una rivoluzione proletaria nel periodo che intercorse tra la Comune di Parigi del 1871 e la Rivoluzione russa del 1905, furono le rivoluzioni borghesi a diventare i principali temi storici per i marxisti. Questi studi tendevano a rinvenire linee di discendenza per il pensiero socialista contemporaneo, ad esempio nella Rivoluzione inglese, o a scoprire esempi di comunismo nei precedenti movimenti millenaristi.
Le storie sulla Rivoluzione francese – la più importante delle rivoluzioni borghesi per quanto riguarda la partecipazione di massa – esistevano da oltre cento anni (le opere iniziali di Francois Mignet e Adolphe Thiers apparvero negli anni Venti dell’Ottocento), ma fu necessario attendere l’inizio del XX secolo per la prima ricostruzione socialista, anche se non proprio marxista, grazie all’opera Storia socialista della Rivoluzione francese di Jean Jaurès.
In breve, Trotsky aveva pochi modelli marxisti ai quali riferirsi. Almeno formalmente, quindi, la Storia assomiglia più ai lavori dei suoi predecessori borghesi del XIX secolo. In particolare, la Storia dell’Inghilterra dall’ascesa di Giacomo VII alla Rivoluzione (1848–1853) di Thomas Babington Macaulay ha una sorprendente somiglianza strutturale con l’opera di Trotsky. Ambedue iniziano con un’ampia panoramica dello sviluppo nazionale alla vigilia della rivoluzione prima di focalizzarsi su un resoconto pressoché quotidiano; entrambe mostrano la stessa profondità di caratterizzazione degli attori storici; tutti e due gli autori innervano le loro opere con una peculiare teoria della storia. E in effetti, il “whiggismo” di Macaulay è un principio organizzativo tanto importante quanto lo è il marxismo di Trotsky.
Lo stesso Marx non aveva un’opinione molto lusinghiera di Macaulay, definendolo «un sistematico falsificatore della storia»[10], e Trotsky era solo lievemente più generoso («Macaulay banalizza il dramma sociale del secolo XVII dietro formulazioni generali, a volte interessanti ma sempre superficiali»[11]). Ma le analogie tra le loro storie ci sono lo stesso.
Stilisticamente, Trotsky ricorda un altro scozzese vittoriano, benché piuttosto diverso da Macaulay. Nel terzo volume della sua famosa biografia, Isaac Deutscher riprende A.L. Rowse confrontando Trotsky con Thomas Carlyle[12].
Per quanto bizzarro possa apparire al principio, Deutscher ha identificato una vera comunanza tra i due uomini: entrambi acutamente tirano fuori l’ironia storica, entrambi respingono il mediocre registro della storia accademica in favore di un linguaggio appropriato agli eventi che descrivono, ed entrambi gettano luce sui cambiamenti nella coscienza collettiva. Confrontiamo questi passaggi.
Ecco come Carlyle descrive la svolta radicale delle masse parigine durante il luglio 1789, il giorno prima dell’assalto alla Bastiglia:
«Quale Parigi al calare della notte! Una città metropolitana europea che all’improvviso si scrolla di dosso le sue vecchie combinazioni e i compromessi; per frantumarli insieme tumultuosamente, mentre ne ricerca di nuovi. Non saranno più gli usi e i costumi a dirigere gli uomini; ogni uomo, con la sua propria originalità, deve iniziare a pensare; o seguire quelli che pensano. Settecentomila persone, di colpo, scoprono che tutti i loro antichi sentieri, i vecchi modi di agire e di decidere, svaniscono da sotto i loro piedi … Lunedì la grande città si è svegliata, non quella dei giorni lavorativi: ma una diversa! L’operaio è diventato un combattente; vuole una cosa sola: le armi».
Ed ecco Trotsky nel primo e nel secondo giorno della Rivoluzione di febbraio:
«Una folla di donne, non tutte operaie, si diresse verso la Duma municipale per chiedere pane. Era come chiedere latte a un bue. In vari quartieri comparvero bandiere rosse e cartelli le cui scritte dimostravano che i lavoratori esigevano pane e non volevano più saperne dell’autocrazia e della guerra. La “giornata della donna” era riuscita, era stata piena di slancio e non aveva causato vittime. Ma di che cosa fosse gravida, in serata nessuno ancora sospettava. All’indomani, il movimento, lungi dal calmarsi, raddoppia di energia: circa la metà degli operai industriali di Pietrogrado sono in sciopero il 24 febbraio. Sin dal mattino gli operai si presentano nelle fabbriche e, invece di mettersi al lavoro, tengono comizi, e successivamente si dirigono verso il centro della città. Nuovi quartieri, nuovi settori della popolazione vengono trascinati nel movimento. La parola d’ordine: “Pane!” è lasciata cadere o è soffocata da altre: “Abbasso l’autocrazia!” “Abbasso la guerra!”»[13].
Lo stile di Trotsky è accessibile, al contrario degli stilismi barocchi di Carlyle. Nondimeno, entrambi hanno in modo evidente lo stesso approccio alla scrittura storica, ben diverso dai lavori di quelli che Carlyle chiama “Professori Dryasdust”[14], che ai suoi tempi iniziavano a dominare la storiografia.
Perry Anderson descrive giustamente Trotsky come “il primo grande storico marxista” e osserva che «per lungo tempo la Storia della Rivoluzione russa è rimasta unica nella letteratura del materialismo storico».
In terza persona
Non solo! L’opera resta eccezionale avuto riguardo agli standard della storiografia marxista. Perché? Soprattutto a causa del ruolo che Trotsky svolse nel processo che descrive.
I personaggi politici di epoche precedenti spesso hanno lasciato memorie del loro coinvolgimento in eventi rivoluzionari: pensiamo al racconto di Alexis de Tocqueville sulla Rivoluzione francese del 1848–1849. Ma una delle conseguenze delle sconfitte delle rivoluzioni socialiste dopo il 1917 – sebbene non la più importante rispetto invece alla continuazione dello sfruttamento, dell’oppressione e della guerra imperialista – è che ci sono stati ben pochi storici che vi hanno direttamente partecipato per registrarle. Trotsky non ha successori perché la sua tematica rimane unica.
Ci sono state, naturalmente, molte monografie degli eventi sul e intorno al 1917. Quando Trotsky scrisse il suo libro, poteva accedere ai racconti di prima mano di avversari menscevichi come Nikolai Sukhanov, compagni bolscevichi come Alexander Shlyapnikov e simpatizzanti stranieri che erano stati presenti a Pietrogrado come John Reed.
Il resoconto di quest’ultimo[15] è stato particolarmente utile per i propositi di Trotsky, dal momento che Lenin l’aveva raccomandato, il movimento comunista l’aveva ampiamente letto, e da esso emergeva il ruolo di Trotsky nel momento in cui la burocrazia stalinista cercava di negarlo. Ma queste opere, e le molte altre citate da Trotsky, riguardano principalmente le esperienze o le osservazioni personali dei loro autori: non tentano di ricostruire il processo nel suo insieme.
Forse l’unica opera che, in questo senso, assomiglia in una certa misura alla Storia di Trotsky è la Histoire de la Commune de 1871, scritta nel 1876 da Prosper‑Olivier Lissagaray, che aveva combattuto sulle barricate e fu perciò costretto ad andare in esilio. Ma, come lui stesso dichiarò, Lissagaray non era certo «né membro, né ufficiale, né funzionario della Comune».
Trotsky, al contrario, apparteneva al Comitato centrale bolscevico, aveva ricoperto il ruolo di presidente del Soviet di Pietrogrado ed era il principale responsabile dell’effettivo avvio dell’insurrezione da parte del Comitato militare rivoluzionario.
Ma le loro opere sono simili anche sotto un altro aspetto. Lissagaray ha descritto se stesso come qualcuno che «per cinque anni ha vagliato ogni elemento; che non si è avventurato a fare una sola affermazione senza aver accumulato prove». Egli realizzò quell’indagine in parte per impedire che il suo lavoro venisse respinto a causa di errori individuali, ma soprattutto perché la classe operaia ha bisogno e merita la verità: «Chi racconta alle persone leggende rivoluzionarie, chi le diverte intrattenendole con storie sensazionali, è criminale come il geografo che disegna carte false per i naviganti».
Anche se Trotsky partecipò in prima persona ad avvenimenti decisivi della Rivoluzione russa, ha effettivamente adottato lo stesso approccio, rifiutando di basare il suo resoconto sui suoi ricordi e impressioni:
«Quest’opera non è affatto basata su ricordi personali. La circostanza che l’autore abbia partecipato agli avvenimenti non lo ha dispensato dal dovere di stabilire il suo racconto su documenti rigorosamente controllati. L’autore parla di se stesso, nella misura in cui vi è costretto dal corso degli avvenimenti, in “terza persona”. E non si tratta semplicemente di una forma letteraria: il tono soggettivo, inevitabile in un’autobiografia o in memorie, sarebbe inammissibile in uno studio storico. Tuttavia, dato che l’autore ha partecipato alla lotta, gli è più facile comprendere non solo la psicologia degli attori, individui singoli o collettività, ma anche l’intima correlazione degli avvenimenti»[16].
Col riferirsi a se stesso in terza persona Trotsky distingue il proprio ruolo di autore da quello di attore, un effetto che segna il testo come non solo moderno ma come un’opera di modernismo letterario, al pari del Manifesto del Partito Comunista, di Storia e coscienza di classe di György Lukács e di Sul concetto di storia di Walter Benjamin.
Ma non dovremmo prendere Trotsky completamente in parola. Egli trae delle citazioni dal suo scritto su Lenin del 1924[17], che rappresenta, appunto, un’opera di “ricordi personali”: i quali, però, non cambiano il proprio status sol perché citati come prove. E, di tanto in tanto, il lettore deve interrogarsi sul potere della memoria dell’autore quando apparentemente egli riporta contributi ai dibattiti o persino discorsi senza un chiaro riferimento a una qualsiasi traccia scritta. La Storia non è dotata di un apparato accademico formale, ma in genere Trotsky elenca le sue fonti nel testo: nei rari casi in cui non lo fa, si può immaginare che si stia davvero basando sulla propria memoria.
Tuttavia, in genere cita documenti stampati o inediti. In questo contesto, vale la pena contrapporre Trotsky a uno degli altri autori a cui Deutscher lo ha paragonato, Winston Churchill, in particolare riferendoci alla sua storia della Seconda guerra mondiale.
Il paragone è legittimo, dato che anche Churchill ha svolto un ruolo politico importante negli eventi di cui parla e possedeva una spiccata visione del mondo, benché molto diversa. Ma Churchill basa espressamente il suo racconto sul proprio punto di vista e spesso descrive eventi senza alcuna prova a sostegno, in particolare il famigerato episodio in cui lui e Stalin stabilirono in che modo i loro rispettivi Stati avrebbero esercitato influenza sull’Europa orientale e sui Balcani dopo la guerra.
Il punto non è che questo episodio è stato riferito in maniera inesatta – anzi, esso mostra precisamente il tipo di spartizione antidemocratica su cui questi due criminali si sarebbero accordati, rivelando al di là delle intenzioni di Churchill le sue illusioni sull’estensione del potere britannico nel dopoguerra – ma rende evidente un ben diverso approccio rispetto a quello di Trotsky, che è molto più rispettoso delle norme accademiche in tema di uso delle prove.
Alcuni critici hanno sottolineato che Trotsky cita delle fonti che in altri passaggi critica definendole imprecise o inesatte. Ma di solito Trotsky spiega perché si basa o meno su un determinato autore.
Ad esempio, utilizza il resoconto di Reed su come Lenin abbia iniziato il suo rapporto al Secondo Congresso pan‑russo dei Soviet: «E ora occupiamoci di costruire l’ordine socialista». Ma spiega anche che non sono rimasti verbali del Congresso, bensì solo resoconti giornalistici “tendenziosi”: «La frase introduttiva che John Reed mette in bocca a Lenin non è riportata in nessun resoconto giornalistico. Ma è completamente nello spirito di Lenin. Reed non poteva inventarla»[18]. Più avanti, spiega come Reed potrebbe aver ideato una “storica seconda conferenza” del tutto immaginaria il 21 ottobre:
«Reed era un osservatore straordinariamente attento, capace di trascrivere nelle pagine del suo libro i sentimenti e le passioni dei giorni decisivi della rivoluzione […] conversazioni e frasi frammentarie catturate al volo, e che avrebbero comunque richiesto un traduttore: tutte queste cose hanno reso inevitabili alcuni errori specifici»[19].
Anche se Trotsky può citare le sue fonti e distinguerle tra loro, ciò non significa che ne faccia un utilizzo affidabile. Il libro è un’opera di parte sotto due aspetti.
Innanzitutto, ovviamente, Trotsky faceva parte del movimento rivoluzionario, in cui aveva avuto un ruolo di direzione. Di fatto, egli respinge espressamente ciò che Max Weber aveva già iniziato a promuovere come scienza sociale “oggettiva”. Come sottolinea Trotsky, la sua evidente parzialità non priva il suo lavoro di valore scientifico:
«Il lettore serio e dotato di spirito critico non ha bisogno di una ingannevole imparzialità […] ma gli occorre la buona fede scientifica che, per esprimere le proprie simpatie e antipatie, francamente e senza mascherature, cerca di fondarsi su uno studio onesto dei fatti, sulla dimostrazione dei rapporti reali tra i fatti, sulla individuazione di quanto nello svolgimento dei fatti vi è di razionale»[20].
Trotsky opera una distinzione tra neutralità, una cosa impossibile per chiunque non sia completamente privo di opinioni politiche, e obiettività, una necessità per chiunque non voglia limitarsi al ruolo di propagandista.
Ma Trotsky è di parte in un altro senso. Egli aveva una particolare interpretazione di come la rivoluzione avesse vinto, di quali gruppi sociali e singoli partecipanti ne fossero stati gli attori e della relazione tra essi. In questo senso, il suo intento era quello di screditare le pretese del regime stalinista, che vedeva il passato come materia grezza da modellare e rimodellare per soddisfare le esigenze politiche del presente. Come ebbe a scrivere, «il burocrate‑storico», incaricato di scrivere le “leggende della burocrazia”, «rifà la storia, corregge biografie, crea false reputazioni. È stato necessario burocratizzare la rivoluzione prima che Stalin potesse diventarne il coronamento»[21].
Sarebbe un errore pretendere che la partigianeria in questo secondo senso di Trotsky non abbia prodotto distorsioni. La sua necessità di mettere le cose in chiaro lo ha portava in qualche caso a esagerare le differenze tra Lenin e praticamente tutti gli altri nel Partito bolscevico, soprattutto Stalin.
La difficoltà qui non è la sua enfasi sul ruolo decisivo di Lenin. In due capitoli cruciali (“Il riarmo del partito” e “Lenin lancia l’appello all’insurrezione”), Trotsky sostiene che senza l’arrivo di Lenin nell’aprile 1917 e la sua insistenza nel prendere il potere durante tutto il mese di settembre, la Rivoluzione di ottobre non avrebbe avuto luogo:
«La crisi che la direzione opportunista doveva inevitabilmente provocare, senza Lenin avrebbe assunto un carattere eccezionalmente acuto e prolungato, mentre le condizioni della guerra e della rivoluzione non lasciavano al partito molto tempo per l’assolvimento del suo compito. Così non è affatto da escludere che il partito disorientato e scisso avrebbe potuto lasciarsi sfuggire l’occasione rivoluzionaria favorevole per molti anni»[22].
Trotsky non sta dicendo che i bolscevichi non sarebbero mai arrivati alla strategia corretta senza Lenin, o che l’opportunità rivoluzionaria non sarebbe mai più tornata. Segnala semplicemente che il tempo è essenziale nelle situazioni rivoluzionarie e che, senza Lenin, il partito lo avrebbe fatto trascorrere.
La riflessione di Trotsky sulle singole figure è in linea con i classici principi marxisti riguardo alle persone che fanno la storia in condizioni che non vengono scelte da loro, e dimostra anche che la misura in cui esse possono cambiare la storia è il risultato di un processo storico.
Prendiamo ad esempio lo zar Nicola II, l’ultimo rappresentante di un sistema condannato a scomparire e uno dei personaggi i cui dilemmi ricorrono in tutti i primi capitoli della Storia:
«In sezione orizzontale, nella storia della monarchia, Nicola era l’ultimo anello di una catena dinastica. I suoi predecessori più prossimi, che pure avevano appartenuto a una collettività di famiglia, di casta, di burocrazia, anche se più estesa, avevano cercato di prendere varie misure, di adottare vari metodi di governo per difendere il vecchio regime sociale contro il destino che lo minacciava e tuttavia avevano lasciato in eredità a Nicola II un impero caotico, che già portava in grembo la rivoluzione. Se Nicola avesse avuto una scelta, si sarebbe trattato di una scelta tra diverse strade verso la rovina»[23].
Lenin aveva maggiori spazi di manovra, poiché rappresentava una classe che aveva la possibilità di prendere il potere piuttosto che, impotente, guardarlo passare. Ma anche Lenin era stato modellato dallo sviluppo russo:
«L’involucro esterno degli avvenimenti contribuiva molto in questo caso a una meccanica contrapposizione del singolo individuo, dell’eroe, del genio, alle condizioni obiettive, alla massa, al partito. In realtà, un’antitesi del genere mostra soltanto un aspetto delle cose. Lenin non era un elemento fortuito dell’evoluzione storica, ma un prodotto di tutto il passato della storia russa. Era collegato a questa storia con le radici più profonde. Assieme agli operai avanzati, aveva partecipato a tutte le lotte del quarto di secolo precedente»[24].
Esiste tuttavia un problema con quanto Trotsky dice a proposito di Lenin: in diversi passaggi, Trotsky sostiene che il Partito bolscevico è stato essenziale per il successo della rivoluzione e che partiti rivoluzionari con un ruolo dirigente sono una condizione necessaria per tutte le future rivoluzioni. Tuttavia, la sua rappresentazione dei bolscevichi – o, quantomeno, della loro direzione – indica che in svariate occasioni essi errarono nel comprendere la situazione, conservando schemi preesistenti ma irrilevanti, e maturarono delle vere e proprie svolte a destra.
Trotsky sostiene che ciò avrebbe comportato meno problemi se Lenin non fosse stato costretto all’esilio:
«Il suo disaccordo con lo strato dirigente dei bolscevichi aveva il significato di una lotta tra il passato e il futuro del partito. Se Lenin non fosse stato artificialmente tenuto lontano dal partito a causa dell’emigrazione e della guerra, il meccanismo esterno della crisi non sarebbe stato così drammatico e non avrebbe mascherato a tal punto la continuità intrinseca dello sviluppo del partito»[25].
Ciò equivale a dire che il partito avrebbe comunque commesso degli errori, ma Lenin avrebbe potuto correggerli più facilmente. Altrove Trotsky attribuisce alla “pressione degli operai dal basso”, al di là delle “critiche di Lenin dall’alto”, il merito di aver corretto gli errori dei bolscevichi. Un partito che richiede una periodica correzione di linea non è chiaramente una “avanguardia” in ogni senso. Ciò costituisce una delle rare occasioni in cui il desiderio di Trotsky di indebolire specifiche mitologie staliniste mina di fatto le sue stesse argomentazioni sul ruolo del partito rivoluzionario.
Benché la Storia della Rivoluzione russa sia un’opera politicamente impegnata, la ricerca recente conferma la maggior parte – se non addirittura tutte – delle valutazioni e interpretazioni di Trotsky. Persino biografi profondamente ostili, come Robert Service, devono riconoscere che «raramente egli è stato accusato di inesattezza». Ian Thatcher, un altro recente biografo che non può essere accusato di simpatie verso il trotskismo o, più in generale, il marxismo, è andato oltre, suggerendo che la Storia ha più che resistito alla recente ricerca e ha persino continuato a suggerire nuove aree di indagine:
«La sintesi dei fattori che Trotsky ha dovuto evidenziare per spiegare il 1917 costituisce ancor oggi il nostro programma di ricerca della Rivoluzione Russa. […] Rapportata alla Storia della Rivoluzione russa, la maggior parte delle ricerche “moderne” non sembrano dopo tutto così “moderne”».
Questo è un giudizio straordinario per un libro scritto ottantacinque anni fa: le persone tendono a leggere la Storia d’Inghilterra di Macaulay o La rivoluzione francese di Carlyle per le loro qualità letterarie o per quel che esse ci dicono sulle posizioni ideologiche dei loro autori, non perché ci aiutino a capire il 1688 o il 1789. Possiamo anche leggere la Storia di Trotsky in quest’ottica, ma essa conserva pur sempre un posto importante in qualsiasi bibliografia seria del 1917.
Di certo, oggi sappiamo di più sulla Rivoluzione russa rispetto a quanto chiunque potesse saperne nel 1930, non da ultimo grazie al valido lavoro dei suoi storici sociali “revisionisti” dalla fine degli anni 60 in avanti. Ma essi hanno integrato piuttosto che sostituito il libro di Trotsky. Condividendo l’interesse dei revisionisti per la storia dal basso, Trotsky riconosce la necessità di bilanciarla con la storia dall’alto. Ugualmente intenzionato a spiegare le strutture della società russa, le colloca all’interno di un sistema globale che influisce sulle sue forme e le modella.
Quest’ultimo aspetto ci riporta al punto di partenza di Trotsky. E al nostro: lo sviluppo disuguale e combinato.
Storia viva
Nella prima pagina della Storia, Trotsky spiega uno dei suoi postulati guida:
«La caratteristica più incontestabile della rivoluzione è l’intervento diretto delle masse negli avvenimenti storici. […] La storia della rivoluzione è per noi, innanzitutto, la storia dell’irrompere violento delle masse sul terreno dove si decidono le loro sorti»[26].
Come caratterizzazione generale delle rivoluzioni non pare adeguata: la maggior parte delle rivoluzioni borghesi avvenute dopo il 1848 furono condotte dall’alto proprio per prevenire “l’irrompere delle masse”. È, tuttavia, un’eccellente caratterizzazione della rivoluzione socialista, e che dobbiamo urgentemente riaffermare.
Le nostre commemorazioni del 1917 non possono esimerci dall’approfondire la conoscenza di ciò che ne seguì, con tutto il suo carico d’orrore che non era ancora evidente quando Trotsky scrisse la sua Storia. La controrivoluzione stalinista del 1928 e i regimi che successivamente l’hanno assunta come modello sono almeno in parte responsabili della diffidenza con cui proprio coloro che avrebbero più da guadagnare dal socialismo guardano alle sue idee.
Ci sono molte ragioni per raccomandare a un vasto pubblico di leggere la Storia della Rivoluzione russa, ma forse la più importante è che essa descrive la creatività e la forza della classe operaia come la vera base del socialismo. Possiamo sperare che, per il bicentenario che verrà, il libro di Trotsky non occuperà più solo un posticino nelle nostre librerie perché il 1917 sarà stato seguito da altre rivoluzioni socialiste che avranno richiesto i propri storiografi.
(Traduzione di Valerio Torre)
Note (tutte le note sono del traduttore)
[1] In proposito, è significativa l’affermazione di Trotsky nell’intervista concessa a B.J. Field e pubblicata il 15 aprile 1933 sul n. 23 del settimanale della Communist League of America, The Militant, p. 4: «Nell’appendice della mia Storia della Rivoluzione russa ho fornito uno studio dettagliato e documentato delle idee del partito bolscevico sulla rivoluzione d’ottobre. Spero che questo studio renda impossibile in futuro attribuire a Lenin la teoria del socialismo in un Paese solo».
[2] L’edizione italiana a cui invece facciamo riferimento nelle note che seguono è quella in due volumi (1268 pagine) edita da Mondadori nella traduzione di Livio Maitan (L. Trotsky, Storia della Rivoluzione russa, Arnoldo Mondadori editore, 1978). Recentemente, nel 2017, l’opera, sempre in due volumi (1407 pagine) è stata ripubblicata per i tipi di Edizioni Alegre, con prefazione di Enzo Traverso.
[3] L. Trotsky, op. cit., vol. 2, p. 526.
[4] Si tratta della conferenza che Trotsky fu invitato a tenere a Copenaghen nel novembre del 1932.
[5] In realtà, il saggio di Trotsky indicato nel testo rappresentava la prefazione al libro del militante trotskista statunitense Harold R. Isaacs, The Tragedy of the Chinese Revolution, pubblicato nel 1938. Tuttavia, dopo aver rotto con il marxismo rivoluzionario, Isaacs modificò in parte il suo scritto, eliminando l’introduzione di Trotsky, che infatti non è presente nelle edizioni successive in lingua inglese, così come in quelle italiane pubblicate nel 1967 e nel 1973 dalla casa editrice Il Saggiatore. La traduzione in italiano della prefazione di Trotsky è stata effettuata da Paolo Casciola con il titolo “Rivoluzione e guerra in Cina” e pubblicata nella collana Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso, n. 18, 1990, pp. 15 e ss.
[6] L. Trotsky, Storia della Rivoluzione russa, cit., vol. 2, p. 525.
[7] Ivi, p. 945.
[8] Op. cit., vol. 1, p. 24.
[9] Ivi, p. 19.
[10] K. Marx, Il Capitale, libro I, Editori Riuniti, 1994, p. 780, nt. 190.
[11] L. Trotsky, “Dove va la Gran Bretagna?”, in I problemi della Rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali. 1924‑1940, Giulio Einaudi Editore, 1970, p. 83.
[12] I. Deutscher, Il Profeta esiliato, Longanesi & C., Milano, pp. 288 e 305.
[13] L. Trotsky, Storia della Rivoluzione russa, cit., vol. 1, p. 124.
[14] Letteralmente, “secchi come la polvere”; per traslato, “Noiosi a morte”. Carlyle definisce così quegli scrittori pedanti, barbosi, che non esprimono sentimenti nei loro lavori.
[15] J. Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, Biblioteca universale Rizzoli, 2001.
[16] L. Trotsky, op. ult. cit., vol. 1, p. 12.
[17] L. Trotsky, Lenin, Samonà e Savelli, 1967.
[18] L. Trotsky, Storia della Rivoluzione russa, cit., vol. 2, pp. 1226‑1227.
[19] L. Trotsky, “Some Legends of the Bureaucracy”. Si tratta del primo di tre saggi supplementari aggiunti al secondo volume della Storia, ma che non figurano nella traduzione italiana a cura di Maitan a cui abbiamo fatto riferimento nella nota 2.
[20] L. Trotsky, Storia della Rivoluzione russa, cit., vol. 1, p. 14.
[21] L. Trotsky, “Some Legends …”, cit.
[22] L. Trotsky, Storia della Rivoluzione russa, cit., vol. 1, p. 359.
[23] Ivi, p. 119.
[24] Ivi, p. 359.
[25] Ibidem.
[26] Ivi, p. 9 e s.
[*] Neil Davidson (1957‑2020), militante socialista e storico marxista, ha insegnato presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Glasgow. Nella sua vasta produzione intellettuale spiccano le opere Discovering the Scottish Revolution 1692–1746, che è stata insignita del prestigioso riconoscimento Deutscher Memorial Prize, How Revolutionary Were the Bourgeois Revolutions? e We Cannot Escape History: States and Revolutions.