Lenin a proposito della … “patrimoniale”
Centocinquant’anni fa nasceva il grande rivoluzionario Vladimir Il’ič Ul’janov, universalmente conosciuto come “Lenin”, colui che, insieme a Lev Trotsky, fu il dirigente della Rivoluzione russa, dei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, e che ancor oggi rappresenta lo “spettro” che terrorizza la borghesia di ogni dove: la quale, benché al momento ancora salda al potere, teme sempre la possibilità che il suo dominio vacilli fino a crollare.
In questo periodo di violenta crisi – non solo sanitaria, ma anche economica e, potenzialmente, sociale – ci piace commemorare questa ricorrenza, non attraverso un agiografico ricordo di quelle che furono la sua vita, le sue opere e la sua azione rivoluzionaria, ma attraverso un testo che Lenin stesso scrisse nel maggio del 1917, e quindi – vogliamo sottolinearlo – solo cinque mesi prima della presa del potere: un testo che ci pare estremamente appropriato rispetto al momento che stiamo vivendo, di emergenza sanitaria, perché riguarda una delle parole d’ordine che tante organizzazioni e gruppi della sinistra (rivoluzionaria e riformista) stanno agitando nel tentativo di dare una risposta alla crisi prodotta dall’epidemia di coronavirus.
Infatti, in quest’articolo, pubblicato sulla Pravda in due parti il 29 e il 30 maggio 1917 (16 e 17 maggio, secondo il calendario giuliano allora in vigore in Russia), Lenin prende posizione su una misura che oggi, nel nostro lessico politico‑economico, viene definita “patrimoniale” e che si compendia nel noto slogan “la crisi la debbono pagare i ricchi”. Si tratta della rivendicazione, che appunto la sinistra sta avanzando in questi giorni, di una forte imposizione fiscale sui redditi (o, in alcune varianti, sui patrimoni: ma proprio questo denota una notevole confusione in chi declina la proposta) di quelli che vengono definiti “i ricchi”.
Giova ricordare che, quando Lenin scrisse quest’articolo, simile proposta era stata presentata addirittura da un socialista, Matvej Ivanovič Skobelev, menscevico, già vicepresidente del Soviet di Pietrogrado e in quel frangente, su indicazione di questo, ministro del lavoro nel governo prodotto della Rivoluzione di febbraio.
Ebbene, questa rivendicazione – che addirittura Lenin ironicamente definisce “più radicale” rispetto al programma dei bolscevichi – fu proposta in un periodo di piena attività rivoluzionaria, con organismi di doppio potere insediati e praticamente alla vigilia dell’Ottobre: eppure, Lenin stesso riteneva che persino allora fosse «impossibile applicare il programma di Skobelev». Perché? Ma è ovvio: perché «non si possono … fare passi di una qualche importanza in questa direzione quando si va a braccetto con dieci ministri del partito dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti». E cioè, per ritornare a un presente di gran lunga più arretrato rispetto al maggio 1917, perché non si può chiedere a un governo borghese di intaccare i profitti di quella stessa borghesia che ne è l’azionista unico.
Lenin, dunque, conclude ricordando che solo il potere degli operai, basato sulle milizie popolari, e dunque sull’armamento generale del popolo – con il necessario scioglimento degli organismi repressivi dello Stato borghese (polizia ed esercito) – può portare a termine un programma del genere, a vantaggio delle classi subalterne.
Crediamo, per terminare, che non ci sia modo migliore di commemorare la ricorrenza della nascita di Lenin che lasciare a lui la parola perché, in questo periodo di grande smarrimento della sinistra rivoluzionaria, quest’ultima possa, riorientandosi, uscire dalla marginalità in cui versa e tornare in connessione con le classi che dovrebbe rappresentare.
Buona lettura.
La redazione
Catastrofe inevitabile e promesse smisurate
V.I. Lenin
(Articolo primo)
L’inevitabile sfacelo economico e la catastrofe di inaudite proporzioni che ci minaccia pongono una questione talmente grave che allo scopo di chiarirla completamente è opportuno ritornarvi sopra sempre più spesso. Abbiamo già indicato, nell’ultimo numero della Pravda, che il programma del comitato esecutivo del soviet dei deputati degli operai e dei soldati non differisce più in niente da quello del “terribile” bolscevismo.
Dobbiamo rilevare oggi che il programma del ministro menscevico Skobelev va più lontano del bolscevismo. Ecco questo programma, nella versione del giornale ministeriale Riec:
«Il ministro [Skobelev] dichiara che […] l’economia nazionale è sull’orlo dell’abisso. È necessario un intervento in tutti i settori della vita economica, perché le casse della tesoreria sono vuote. La situazione delle masse lavoratrici deve essere migliorata, e a tal fine è necessario prelevare gli utili dalle casse degli imprenditori e dalle banche. (Una voce: “In che modo?”). Con una tassazione spietata sui patrimoni, risponde il ministro del lavoro Skobelev. La scienza finanziaria conosce questo mezzo. L’imposta sulle classi possidenti deve essere aumentata fino a toccare il 100% dei profitti. (Una voce: “Questo vuol dire prendere tutto!”). Purtroppo, dichiara Skobelev, varie società anonime hanno già pagato i dividendi agli azionisti. Ma per questa stessa ragione dobbiamo colpire le classi possidenti con un’imposta progressiva individuale. Andremo ancora oltre, e, se il capitale vuole conservare i metodi borghesi di gestione dell’economia, lavori senza utili per non perdere i clienti […]. Dobbiamo imporre l’obbligo del lavoro a tutti i signori azionisti, ai banchieri, ai fabbricanti, i quali sono scoraggiati dalla scomparsa degli incentivi che prima li stimolavano al lavoro […]. Dobbiamo costringere i signori azionisti a sottomettersi allo Stato, dobbiamo imporre anche ad essi un obbligo: l’obbligo del lavoro».
Consigliamo agli operai di leggere e rileggere questo programma, di discuterlo e di riflettere sulle condizioni necessarie alla sua applicazione.
Tutto il problema consiste nelle condizioni per realizzarlo, nel cominciarne subito l’applicazione.
Di per sé, questo programma non è solo eccellente e non coincide soltanto con il programma del bolscevismo, ma, in un punto, cioè dove promette di “prelevare gli utili dalle banche” fino al “100%”, va anche più lontano del nostro.
Il nostro partito è molto più modesto. Nella sua risoluzione esige di meno e cioè: il controllo sulle banche e il passaggio “graduale” (udite! udite! i bolscevichi sono per la gradualità!) a una “tassazione progressiva più equa sui redditi e sul patrimonio”.
Il nostro partito è più moderato di Skobelev.
Skobelev prodiga promesse smodate e persino smisurate, senza però comprendere le condizioni in cui sarà possibile realizzare in concreto quelle promesse.
Il problema è tutto qui.
Non soltanto è impossibile applicare il programma di Skobelev, ma, in generale, non si possono neanche fare passi di una qualche importanza in questa direzione quando si va a braccetto con dieci ministri del partito dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti e ci si serve di un apparato burocratico di funzionari di cui il governo capitalistico (con la sua appendice di menscevichi e di populisti) è costretto a contentarsi.
Meno promesse, cittadino Skobelev, e un po’ più di senso pratico! Meno frasi altisonanti e un po’ più di comprensione del modo in cui bisogna mettersi all’opera.
Ci si può e ci si deve mettere all’opera immediatamente, senza perdere un sol giorno, per salvare il paese dalla spaventosa catastrofe che lo minaccia. Ma l’essenziale è che il “nuovo” governo provvisorio non vuole mettersi all’opera e, se anche lo volesse, non potrebbe farlo, perché è legato con mille fili alla difesa degli interessi del capitale.
Si può e si deve chiamare tutto il popolo perché si metta all’opera, promulgando in un sol giorno un decreto che convochi senza indugio:
- i soviet e i congressi degli impiegati di banca, delle singole banche e di tutta la Russia, con il compito di elaborare immediatamente le misure pratiche necessarie per la fusione di tutte le banche e di tutti gli istituti di credito in una sola banca nazionale e per un controllo più rigoroso su tutte le operazioni finanziarie, con l’immediata pubblicazione dei risultati del controllo;
- i soviet e i congressi degli impiegati di tutti i trusts e sindacati capitalistici, con il compito di prendere misure per realizzare il controllo e la contabilità e di pubblicare immediatamente i risultati del controllo.
- Questo decreto deve assicurare il diritto di controllo non soltanto a tutti i soviet di deputati degli operai, dei soldati e dei contadini, ma anche ai soviet degli operai di ogni grande fabbrica e ai rappresentanti di ogni grande partito politico (considerando, per esempio, come tale ogni partito che abbia presentato alle elezioni di Pietrogrado del 12 maggio liste proprie in almeno due rioni). Tutti i registri contabili e tutti i documenti devono essere sottoposti a questo controllo.
- Il decreto deve invitare tutti gli azionisti, tutti i direttori e tutti i membri dei consigli di amministrazione di tutte le società a rendere pubblici i nomi dei possessori di almeno diecimila (o cinquemila) rubli di azioni e ad indicare a quali azioni e società sono “interessate” queste persone. Per le dichiarazioni non rispondenti al vero (dinanzi agli organismi di controllo degli impiegati di banca, ecc.) bisogna prevedere la confisca di tutti i beni e la condanna a non meno di cinque anni di detenzione.
- Il decreto deve invitare tutto il popolo a istituire subito, attraverso gli organi di autogoverno locale, l’obbligo generale del lavoro e a creare, per il controllo e l’attuazione di questa misura, una milizia popolare alla quale parteciperà tutta la popolazione (milizia da costituire subito nelle campagne e, attraverso la milizia operaia, nelle città, ecc.).
Senza l’obbligo generale del lavoro il paese non può essere salvato dalla catastrofe. E senza una milizia di tutto il popolo l’obbligo generale del lavoro non può essere applicato. Questo lo capiscono tutti, a meno di non essere piombati nel cretinismo ministeriale o nello squilibrio mentale dovuto alla fiducia nell’eloquenza governativa.
Chiunque voglia salvare realmente dalla catastrofe decine di milioni di cittadini dovrà propugnare queste misure.
Parleremo nel prossimo articolo del passaggio graduale a una ripartizione più equa delle imposte e del modo in cui si dovranno scegliere in mezzo al popolo e sostituire pian piano ai ministri quegli organizzatori realmente capaci (siano essi operai o capitalisti) che avranno dato prova di sé nel realizzare con successo le misure da noi indicate.
(Articolo secondo)
Quando Skobelev, in un discorso esagitato, fatto a nome del governo, arriva ad annunciare un’imposta del 100% sui profitti dei capitalisti, ci troviamo dinanzi a un modello di frase ad effetto. Nei parlamenti delle repubbliche borghesi queste frasi servono sempre a ingannare il popolo.
Ma qui vi è qualcosa di peggio di una frase. «Se il capitale vuole conservare i metodi borghesi di gestione dell’economia, lavori senza utili per non perdere i clienti», ha detto Skobelev. Sembra una minaccia “terribile” verso i capitalisti, ma di fatto è un tentativo (forse inconsapevole da parte di Skobelev, ma indubbiamente consapevole da parte dei capitalisti) di mantenere l’onnipotenza del capitale sacrificando i profitti per un breve lasso di tempo.
Gli operai prendono “troppo”, pensano i capitalisti. Scarichiamo su di loro la responsabilità senza conceder loro né il potere né la possibilità di dirigere effettivamente tutta la produzione. Noi capitalisti possiamo anche rinunciare per qualche tempo ai profitti, ma «conservando i metodi borghesi di gestione dell’economia, senza perdere i clienti», affretteremo il fallimento di questa situazione transitoria dell’industria, la disorganizzeremo con ogni mezzo e getteremo tutta la colpa sugli operai.
Che sia proprio questo il calcolo dei capitalisti lo dimostrano i fatti. I proprietari delle miniere di carbone del sud disorganizzano appunto la produzione, «la disorganizzano e la trascurano coscientemente» (si veda nella Novaia gizn del 16 maggio il resoconto delle dichiarazioni di una delegazione operaia). Il quadro è chiaro: la Riec mente spudoratamente e addossa la colpa agli operai. I proprietari delle miniere «disorganizzano coscientemente la produzione». E Skobelev gorgheggia: «Se il capitale vuole conservare i metodi borghesi di gestione dell’economia, lavori senza utili». Il quadro è ben chiaro!
Per i capitalisti e per i funzionari è vantaggioso distogliere con “promesse smisurate” l’attenzione del popolo dal fatto principale, cioè dal passaggio reale del controllo reale nelle mani degli operai.
Gli operai devono respingere la fraseologia, le promesse, le dichiarazioni, la progettomania dei burocrati della capitale, i quali sono sempre pronti a formulare piani, decreti, statuti e regolamenti d’effetto. Abbasso tutte queste menzogne! Abbasso tutta questa baraonda di progetti borghesi e burocratici che falliscono dappertutto! Abbasso questo modo di rinviare tutto alle calende greche! Gli operai devono esigere l’istituzione immediata ed effettiva di un controllo esercitato obbligatoriamente dagli stessi operai.
Ecco la premessa essenziale per riuscire nell’intento, per salvarsi dalla catastrofe. Senza questo, tutto il resto è inganno. Ma, quando sia posta tale premessa, non ci affretteremo a prelevare il “100% dei profitti”. Possiamo e dobbiamo essere più moderati, passare gradualmente a una tassazione più equa, differenziare i piccoli dai grandi azionisti, prendere assai poco ai primi e prendere molto (ma non obbligatoriamente tutto) soltanto ai secondi. Il numero dei grandi azionisti è infimo; la loro funzione, come la loro ricchezza, è immensa. Si può dire, senza tema di sbagliare, che, se si compilasse un elenco dei cinquemila o anche dei tremila (o forse anche solo dei mille) uomini più ricchi della Russia, o se si ricercassero (per mezzo del controllo esercitato dal basso, attraverso gli impiegati delle banche, dei sindacati capitalistici, ecc.) tutti i fili e i legami del loro capitale finanziario, tutte le loro relazioni bancarie, si scoprirebbe tutto il nodo del dominio del capitale, la massa principale delle ricchezze accumulate con il lavoro altrui, tutte le radici veramente importanti del “controllo” sulla produzione sociale e sulla ripartizione dei prodotti.
Ebbene, proprio questo controllo deve passare nelle mani degli operai. Proprio questo nodo e queste radici il capitale esige che restino nascosti al popolo. «Meglio accettare per qualche tempo il sacrificio di “tutto” il profitto o del 99% dei nostri redditi, anziché svelare al popolo le radici del nostro potere»: ecco come ragiona la classe dei capitalisti e il suo inconsapevole servitore, il burocrate.
Quanto a noi, non rinunceremo in nessun caso al nostro diritto e alla nostra rivendicazione. Aprire al popolo la cittadella del capitale finanziario e sottometterla al controllo operaio: ecco che cosa vuole e vorrà l’operaio cosciente. E ogni giorno una massa sempre più numerosa di poveri, una maggioranza sempre più vasta della popolazione e, in generale, un numero crescente di persone oneste, che cercano in buona fede di scongiurare la catastrofe, si convinceranno che questo ragionamento è giusto.
Bisogna impadronirsi della cittadella principale del capitale finanziario. Altrimenti, tutte le frasi e tutti i progetti di salvezza saranno soltanto una mistificazione. Quanto ai capitalisti, considerati individualmente e persino nella loro maggioranza, il proletariato non intende “spogliarli” (come diceva Sciulghin per “spaventare” sé stesso e i suoi), non soltanto non intende privarli “di tutto”, ma intende invece affidar loro un’opera utile e onorevole da compiere sotto il controllo degli operai.
Nel momento in cui si avvicina una catastrofe inevitabile la cosa più utile e necessaria per il popolo è l’organizzazione. Prodigi di organizzazione proletaria: ecco qual è oggi la nostra parola d’ordine, ecco quale sarà a maggior ragione la nostra parola d’ordine e la nostra rivendicazione quando il proletariato avrà preso il potere. Se le masse non si organizzano, è impossibile istituire l’obbligo generale del lavoro, che è divenuto assolutamente necessario, è impossibile esercitare un controllo in qualche modo efficace sulle banche, sui sindacati industriali, sulla produzione e sulla ripartizione dei prodotti.
Bisogna perciò cominciare – e cominciare subito – dalla milizia operaia per avviarci con passo saldo ed esperto, pur rispettando la necessaria gradualità, verso l’istituzione di una milizia popolare, verso la sostituzione della polizia e dell’esercito permanente con l’armamento generale del popolo. Bisogna perciò trarre organizzatori capaci da tutti gli strati del popolo, da tutte le classi, senza escludere i capitalisti, che hanno attualmente l’esperienza più ricca in questo campo. In mezzo al popolo vi sono molti uomini di talento adatti a scopo. Si tratta di forze ancora sopite tra i proletari e tra i contadini, forze che non hanno trovato modo di esplicarsi. Bisogna suscitarle dal basso, praticamente, per esempio, fra coloro che sono riusciti a sopprimere le “code” in una data località, a istituire i comitati di inquilini, a unire i domestici, a creare aziende agricole modello, a far funzionare una qualsiasi fabbrica passata nelle mani degli operai e così via. Questi organizzatori suscitati dal basso, dalla pratica, attraverso il controllo pratico delle loro capacità, devono diventare “ministri”, non nella vecchia accezione della parola, non nel senso che venga offerto loro un portafoglio, ma nel senso che si affidino loro le funzioni di istruttori e organizzatori viaggianti del popolo, i quali devono concorrere dappertutto a instaurare l’ordine più rigoroso, la massima economia del lavoro umano, la disciplina fraterna più severa.
Ecco che cosa il partito del proletariato deve propagandare in mezzo al popolo per salvarlo dalla catastrofe. Ecco che cosa il partito del proletariato deve attuare, pian piano, ma fin da ora, nelle singole località in cui detiene il potere. Ecco che cosa dovrà realizzare integralmente, quando avrà ottenuto il potere nello Stato.