Coronavirus e controllo operaio
A proposito di una parola d’ordine … citata a sproposito
Valerio Torre
«Passerà inevitabilmente un certo tempo
prima che le masse, che si sono sentite
per la prima volta libere dopo aver abbattuto
i proprietari fondiari e la borghesia,
comprendano – non dai libri,
ma dalla loro stessa esperienza sovietica –
e sentano che senza … un controllo statale
sulla produzione e la distribuzione dei prodotti,
il potere dei lavoratori, la libertà dei lavoratori
non si può mantenere, e sarà inevitabile
il ritorno sotto il giogo del capitalismo»
(V.I. Lenin, “I compiti immediati del potere sovietico”)
Credo si possa affermare senza tema di smentite che, per le sue implicazioni planetarie, l’epidemia da Covid‑19 costituisce per noi marxisti rivoluzionari uno dei “grandi appuntamenti della Storia”: ci troviamo, cioè, a scontrarci con un fenomeno totalmente nuovo per le nostre generazioni, paragonabile a quelli sfociati nella Prima e poi nella Seconda guerra mondiale. Il fatto che le classi lavoratrici – e, più in generale, grandi masse popolari – stiano subendo devastanti effetti sia sulla salute e sulle loro vite, sia a livello economico, pone proprio noi, che abbiamo come obiettivo quello di rovesciare il sistema capitalista che opprime, affama, distrugge e uccide, nella condizione di dover cercare e offrire delle risposte.
E, infatti, non sono mancati da parte delle (purtroppo piccole, e allo stato oggettivamente poco influenti) organizzazioni della sinistra rivoluzionaria gli sforzi profusi per elaborare delle linee programmatiche su cui indirizzare il proletariato e le classi subalterne. Le iniziative, da questo punto di vista, sono state lodevoli; ma, purtroppo, nella mia opinione, “fuori fuoco” (per usare un eufemismo). In particolare, rispetto a una delle rivendicazioni avanzate. Mi riferisco a quella del “controllo operaio”.
Tale parola d’ordine è stata perlopiù riferita – considerando il settore che in questo momento è maggiormente colpito e che si trova in prima linea nella lotta all’epidemia – al sistema sanitario e a quello farmaceutico, per cui si rinvengono in rete diversi articoli in cui essa è sviluppata e appare come “centrale” nella proposta che viene avanzata. Solo a titolo d’esempio, cito qui i testi prodotti da diverse organizzazioni politiche: “Una risposta operaia all’emergenza coronavirus”, “Il Coronavirus e il socialismo”, “Pandemia di Covid-19: la catastrofe imminente e come combatterla”, “La parola è alla lotta: sciopero generale!”, “Coronavirus: di fronte alla crisi e al nazionalismo reazionario, internazionalismo di classe!”. In particolare, i compagni che hanno presentato l’ultimo dei testi citati hanno dato un passo in più: hanno, cioè, inteso dare una “copertura teorica” alla parola d’ordine del controllo operaio pubblicando anche, sul loro sito, un testo di León Trotsky che affronta specificamente questo tema.
Dal mio punto di vista, è profondamente sbagliato, dal versante teorico e politico, avanzare in questa fase la rivendicazione del controllo operaio, che, come cercherò di spiegare, non solo non fa fare un solo passo in avanti al movimento operaio, ma è anche dannosa in quanto fonte di confusione dal punto di vista dei principi: e la confusione sotto quest’aspetto porta inevitabilmente a commettere errori nell’azione politica. Un “lusso” che, nella condizione in cui versiamo, non possiamo assolutamente permetterci.
Preciso, prima ancora di addentrarmi nel tema, e a scanso di equivoci, che il fatto di prendere a base del mio ragionamento l’iniziativa dei compagni che hanno deciso di fondare la propria posizione utilizzando il testo di Trotsky, non implica affatto il venir meno della mia simpatia politica, così come dei vincoli politici di comune militanza nel campo del marxismo rivoluzionario, sia nei confronti loro che delle altre organizzazioni che hanno avanzato la rivendicazione del controllo operaio: la polemica teorica e politica – che ad esempio i bolscevichi conducevano impegnando molte delle loro energie intellettuali – non è un “campo di battaglia” per la sterile affermazione del proprio ego, bensì uno strumento per avanzare sul terreno dei principi e quindi in quello della prassi rivoluzionaria.
Trotsky sul controllo operaio
Come anticipato, tutte le organizzazioni che hanno scritto i testi citati (anche se in rete se ne possono trovare ancora altri) hanno avanzato – sia pure con alcune sfumature – la parola d’ordine del controllo operaio sul settore sanitario e farmaceutico. Facendo ricorso a questo concetto che appartiene al legato teorico del marxismo, sostengono cioè che, a partire dalla presente fase di emergenza sanitaria – e anzi, proprio perché in questo frangente il sistema capitalista ha mostrato tutte le sue mancanze, privilegiando i profitti dei privati a scapito della salute della stragrande maggioranza dei cittadini – è necessario che la sanità, la produzione di farmaci, la cura medica delle persone, siano sottoposte al controllo dei lavoratori raggruppati in comitati che devono farsi carico di tali settori, proprio perché questi debbono presiedere al benessere della società e non già agli interessi particolari di un gruppo di capitalisti che fanno profitti a scapito della salute generale.
In effetti, così esposto, sembra un ragionamento di buon senso; e non ho difficoltà ad ammettere che in teoria potrebbe incontrare un discreto favore. Inoltre, è un ragionamento a supporto del quale è stato pubblicato, come ho già detto, un testo scritto da Trotsky nel 1931, intitolato “A proposito del controllo operaio della produzione. Lettera ad alcuni compagni”[1].
Ritengo, tuttavia, che i compagni in questione abbiano fatto un torto, non solo all’autore di quel testo, ma anche alla teoria e ai principi del marxismo rivoluzionario, pubblicandolo allo scopo di coonestare la proposta programmatica presentata e non contestualizzandolo nel periodo storico in cui era stato concepito, sicché chi non conosce gli avvenimenti di quell’epoca ne trae un insegnamento distorto.
La Germania vide, nel periodo fra il 1919 e il 1933, il sorgere di un regime politico democratico che si fondava su una carta costituzionale approvata nella città di Weimar[2]. Tale Costituzione, all’art. 165, prevedeva, tra le altre cose, la formazione di consigli dei lavoratori cui era demandato il compito di co‑gestire le fabbriche insieme agli imprenditori (c.d. “gestione sociale delle imprese”, o “democrazia economica”). Su questo sistema, e sulla rivendicazione di controllo operaio della produzione, un gruppo di appartenenti all’Opposizione di sinistra tedesca chiese un parere a Trotsky, che rispose con una lettera del 20 agosto 1931, che costituisce, appunto, il testo pubblicato dai compagni a cui mi sto riferendo.
Il fatto è che Trotsky spiega molto chiaramente che l’esperienza tedesca dei consigli di fabbrica altro non era se non «la partecipazione degli operai alla direzione della produzione […] basata sulla collaborazione e non sulla lotta di classe»: una collaborazione «tra i vertici dei sindacati e le organizzazioni capitalistiche», che però non si concretava nel «controllo operaio sul capitale, ma [nell’] addomesticamento della burocrazia operaia da parte del capitale». E aggiunge poi che in epoca di dominio normale del regime capitalista, quando cioè vi è «una borghesia che si regga saldamente», quest’ultima
«non consentirà mai una dualità di poteri nelle aziende. Il controllo operaio è dunque realizzabile solo a condizione di un brutale mutamento nei rapporti di forza a svantaggio della borghesia e del suo Stato. Il controllo può essere imposto alla borghesia solo con la forza, da un proletariato che sia sulla via di strapparle il potere e con ciò stesso la proprietà dei mezzi di produzione. Così il regime di controllo operaio è provvisorio, transitorio per sua stessa natura, e può corrispondere solo al periodo di crollo dello Stato borghese, di offensiva del proletariato, di ritirata della borghesia: cioè al periodo della rivoluzione proletaria intesa nel significato più largo del termine».
E ancora:
«Se il borghese non è più il padrone, cioè non comanda più completamente nella sua fabbrica, ne consegue che non comanda più completamente neppure nel suo Stato. Ciò significa che a un regime di dualità di poteri nelle aziende corrisponde un regime di dualità di poteri nello Stato».
È evidente, allora, che la situazione politico‑sociale appena descritta e che neppure era attuale nella Germania del 1931 – benché fosse un regime politico instabile in cui si fronteggiavano un potente movimento operaio, sia pur diviso fra comunisti e socialdemocratici[3], e un incipiente movimento nazista – non ha nulla a che vedere con la situazione dell’Italia del 2020, in cui abbiamo una borghesia saldamente al potere e un movimento operaio passivo, diviso e che, soprattutto, ha ripudiato nella sua stragrande maggioranza le idee socialiste o è indifferente rispetto ad esse. E che le condizioni per avanzare la rivendicazione in questione siano del tutto inesistenti nella nostra attuale realtà, lo conferma lo stesso Trotsky, quando ipotizza che
«per l’appunto in Germania, dove esiste una forte socialdemocrazia, la lotta per il controllo operaio della produzione sarà, secondo ogni verosimiglianza, la prima tappa del fronte unico rivoluzionario degli operai che precederà la loro lotta aperta per il potere»[4].
Ma tutto ciò, pur essendovene stata la possibilità, non si concretò nella Germania del 1931. E non si capisce come potrebbe essere sia pure solo immaginato nell’Italia di oggi, in cui manca ogni sia pur minima attività rivoluzionaria delle masse. Non a caso, infatti, Trotsky aggiungeva che la parola d’ordine del controllo operaio
«bisogna avanzarla in modo giusto. Lanciata senza alcuna preparazione, con una imposizione burocratica, […] non solo può essere un colpo mancato, ma anche compromettere ancora di più il partito agli occhi della massa operaia […]. Prima di avanzare pubblicamente questa parola d’ordine di battaglia che implica una grave responsabilità, bisogna saggiare bene la situazione e preparare il terreno»[5].
E però, proprio perché sarebbe stato necessario contestualizzare lo scritto di Trotsky, bisognava pubblicare anche la replica che il successivo 12 settembre il rivoluzionario russo fece alla risposta di quel gruppo di militanti tedeschi dell’Opposizione di sinistra, con cui essi avevano respinto la lettura di Trotsky invocando inesistenti soviet che avrebbero dovuto applicare il controllo operaio. Trotsky scrisse che nella sua lettera del 20 agosto egli aveva
«segnalato in modo abbastanza inequivoco che i consigli di fabbrica possono convertirsi in organismi di controllo operaio soltanto partendo dalla premessa di una pressione tale da parte delle masse che il doppio potere nelle fabbriche e nel Paese sia già parzialmente in preparazione e parzialmente insediato. È chiaro che ciò ha tante poche possibilità di accadere sotto l’imperio della legge in vigore sui consigli di fabbrica quante ne ha la rivoluzione di aver luogo nel quadro della Costituzione di Weimar».
E concludeva sprezzantemente:
«Non solo voi non avete i soviet, ma non avete un ponte verso di essi, né una strada verso il ponte, e neppure un percorso verso la strada»[6].
Non solo Trotsky: Lenin e Rosa Luxemburg sul controllo operaio
Pochi mesi dopo, nel gennaio del 1932, Trotsky tornò ad occuparsi della situazione tedesca in un testo molto lungo[7], in cui dedicò un capitolo abbastanza esteso al tema del controllo operaio (“Il controllo operaio e la collaborazione con l’Urss”) e al quale rimando i lettori. Ma ritengo utile riportarne qui solo alcune brevi frasi che sono estremamente esplicative:
«… per noi, la parola d’ordine del controllo è legata a un periodo di dualità di poteri nella produzione corrispondente al passaggio dal regime borghese al regime proletario. […] L’idea stessa di questa parola d’ordine è nata da un regime transitorio nelle aziende in cui il capitalista e il suo amministratore non possono più fare un passo senza il consenso degli operai […]. I rapporti di forza nella fabbrica sono determinati dalla potenza della pressione generale esercitata dal proletariato sulla società borghese. In generale, il controllo è concepibile solo con una preponderanza indubitabile delle forze politiche del proletariato su quelle del capitale»[8].
Questo che abbiamo appena esaminato era il Trotsky degli anni 30. Ma non è che prima di quest’epoca le cose fossero per lui diverse.
Poche settimane dopo la presa del potere, Edward Alsworth Ross, un giornalista dell’Independent statunitense, intervistò Trotsky a proposito dei piani economici del neonato Stato sovietico. È interessante riportare i passaggi che riguardano proprio il controllo operaio:
«È intenzione del vostro partito espropriare i proprietari degli stabilimenti industriali in Russia?
No – rispose – non siamo ancora pronti per farci carico di tutta l’industria. […] Per ora, speriamo di pagare ai proprietari i profitti di una fabbrica nell’ordine del 5‑6% annuo del loro attuale investimento. Ciò a cui puntiamo ora è il controllo, più che la proprietà.Cosa intende per “controllo”?
Voglio dire che controlleremo che la fabbrica sia diretta, non dal punto di vista dei profitti privati, ma da quello del benessere in senso socialdemocratico. Ad esempio, non permetteremo che il capitalista chiuda la fabbrica per affamare i lavoratori fino a sottometterli o perché non gli sta fruttando. Se sta producendo un bene economicamente necessario, deve continuare a funzionare. Se il capitalista dovesse abbandonarla, la perderà […]. Inoltre, “controllo” implica che i libri e la corrispondenza della compagnia saranno aperti al pubblico, in modo tale che d’ora in poi non vi sia più il segreto industriale. Se quest’impresa ha successo in un processo di produzione o produrrà un dispositivo migliore, ciò sarà condiviso con altre aziende dello stesso settore industriale, così da trarne il massimo vantaggio possibile per la collettività. […] “Controllo” significa anche che le materie prime quantitativamente limitate – carbone, petrolio, ferro, acciaio – saranno assegnate ai diversi stabilimenti a seconda della loro utilità sociale […]»[9].
Di questi concetti troviamo una conferma assolutamente coincidente in diversi scritti di Lenin[10]. Oltre quelli riportati in nota, va sottolineato quanto Lenin sosteneva in un altro testo, risalente ad appena un mese prima della presa del potere, quando ormai la situazione rivoluzionaria era acutissima. Il controllo operaio – che il processo rivoluzionario aveva ormai introdotto – veniva di fatto “silurato” (così, testualmente) dai banchieri e dai capitalisti proprio perché in ciò favoriti dall’esistenza di “istituzioni democratiche” (cioè, democratico-borghesi), seppur discendenti dalla Rivoluzione di febbraio. Nelle parole di Lenin,
«[…] l’essenza economica dello sfruttamento capitalistico non viene affatto intaccata se alle forme monarchiche di governo si sostituiscono forme democratiche repubblicane […]. Il sabotaggio moderno, il più recente, il sabotaggio democratico repubblicano di ogni controllo, di ogni censimento e sorveglianza si fa così: i capitalisti (come, s’intende, tutti i menscevichi e i socialisti‑rivoluzionari) a parole riconoscono “con calore” il “principio” del controllo e la sua necessità, ma insistono semplicemente nella sua applicazione “graduale”, metodica, e “regolata dallo Stato”. In realtà sotto queste belle parole si nasconde il siluramento del controllo, che è ridotto a zero, a una finzione, a una commedia; tutti i provvedimenti seri e pratici vengono differiti, e si creano istituzioni di controllo straordinariamente complicate, ingombranti, burocratiche, senza vita, che dipendono interamente dai capitalisti e che non fanno e non possono fare assolutamente nulla»[11].
Come si vede, anche per Lenin, sotto un governo democratico‑borghese, sia pure prodotto di una rivoluzione (quella di febbraio), non è possibile imporre il controllo operaio, per il semplice motivo che la classe che governa la società (e l’economia) è, sulla base del potere che essa stessa ancora detiene, quella borghese: lo si può ottenere sotto forma di concessione, ma esso sarà esercitato proprio dalla classe che dovrebbe essere controllata e non da quella che dovrebbe controllare!
Ma troviamo un’altra conferma di questi concetti anche in un notissimo pamphlet di Rosa Luxemburg[12], famoso per la feroce polemica sviluppata nei confronti del revisionismo di Bernstein, ma in cui c’è un paragrafo (“Instaurazione del socialismo per mezzo di riforme sociali”) dedicato proprio al controllo operaio, che qui troviamo definito come “controllo sociale”[13].
La rivoluzionaria polacca polemizza qui con un altro dirigente dell’ala bernsteiniana della socialdemocrazia tedesca, Konrad Schmidt, secondo il quale delle riforme legislative sociali ben congegnate avrebbero potuto gradualmente introdurre un «controllo sociale sempre più esteso sulle condizioni della produzione», tanto da ridurre poco a poco il ruolo del capitalista da proprietario a semplice “gerente” della fabbrica. Progressivamente, quindi, quest’ultimo avrebbe visto «diventare il suo possesso sempre più inutile per sé, la direzione e l’amministrazione dei suoi capitali». E tutto ciò sarebbe derivato dal ruolo dei sindacati, grazie alla loro «influenza sempre crescente sulla regolazione della produzione»: di qui alla “gestione sociale” dell’economia il passo sarebbe stato breve. L’idea di Schmidt (e di Bernstein) era che, attraverso una legislazione di fabbrica, si sarebbe potuto introdurre – come denuncia Rosa Luxemburg – «un pezzo di “controllo sociale” e, come tale, un pezzo di socialismo».
Tuttavia:
«Qui la mistificazione è palese. Lo Stato odierno non è una “società” nel senso della “classe operaia in ascesa”, ma il rappresentante della società capitalistica, cioè uno Stato di classe. Perciò anche la riforma sociale da esso adottata non è una realizzazione del “controllo sociale”, cioè il controllo della libera società lavoratrice sul proprio processo lavorativo, ma un controllo dell’organizzazione di classe del capitale sul processo produttivo del capitale»;
sicché, il “controllo sociale”
«si manifesta non come limitazione della proprietà capitalistica, ma al contrario come sua difesa. Oppure, per esprimerci in termini economici, esso non rappresenta un attentato allo sfruttamento capitalistico, ma una regolamentazione, un ordinamento di questo sfruttamento»[14].
Credo sia utile pure fare riferimento alle “Tesi sulla tattica” approvate dal Terzo congresso dell’Internazionale comunista il 12 luglio 1921:
«Tutte le parole d’ordine concrete che corrispondono alle necessità economiche delle masse operaie debbono essere ricondotte nell’alveo della lotta per il controllo della produzione, non come piano di organizzazione burocratica dell’economia nazionale sotto il regime capitalistico, ma come lotta contro il capitalismo condotta dai consigli di fabbrica e dai sindacati rivoluzionari. Soltanto costruendo tali organizzazioni, soltanto collegandole secondo i settori industriali e i centri industriali, sarà possibile unificare la lotta delle masse operaie […]. I consigli di fabbrica assolveranno questo compito soltanto se nasceranno nel corso di lotte per obiettivi economici comuni alle ampie masse operaie, soltanto se creeranno un legame tra tutti i settori rivoluzionari del proletariato, cioè i partiti comunisti, gli operai rivoluzionari e i sindacati che si stanno sviluppando in senso rivoluzionario»[15].
Come si vede – e nella parte di testo che precede il brano appena citato è detto chiaramente – la preoccupazione dell’Internazionale comunista era non solo politica – e cioè raggruppare intorno a una parola d’ordine le masse – ma anche organizzativa, vale a dire avendo cura di costruire gli organismi capaci di metterla in pratica. Però risulta abbastanza difficile intravedere nell’attuale situazione italiana, pur nella lodevole intenzione di chi rivendica il controllo operaio dei settori sanitario e farmaceutico, l’esistenza di consigli di fabbrica (e cioè, soviet di fabbrica) che dovrebbero farsi carico del compito della lotta per quest’obiettivo; né si può immaginare la possibilità, nell’immediato, di costruirli!
E allora: quale controllo?
È evidente, in conclusione, che l’alternativa è fra l’imporre il controllo operaio allo Stato capitalista sull’onda di una potente e duratura mobilitazione della classe lavoratrice, con i suoi metodi di lotta e i suoi organismi, appoggiata da ampi settori di classe urbana e piccola borghesia depauperata, in un quadro di forte arretramento delle classi dominanti, oscillanti e incerte sul da farsi, e dunque sullo sfondo di un processo rivoluzionario in atto; oppure il chiederlo, più o meno timidamente, attraverso la concessione di una riforma. E mi piace osservare che, perfino nella Germania dell’epoca in cui Rosa Luxemburg scriveva il saggio citato in precedenza, un poderoso movimento operaio non andò oltre delle riforme che davano soltanto l’illusione del controllo operaio; né nella Russia post‑rivoluzionaria di febbraio il controllo operaio venne realmente esercitato dalla classe operaia nel proprio interesse, pur con un processo rivoluzionario ancora in atto e con organismi di doppio potere insediati.
La situazione dell’Italia nel 2020 – benché in piena emergenza sanitaria, e dunque immersa in una crisi sociale finora inimmaginabile per le sue conseguenze sia sulla salute che sulle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne – è tuttavia, dal versante sociale e politico, tale da rendere irrealistico non solo imporre, ma neppure richiedere il “controllo operaio”.
Declinare in questo contesto una simile parola d’ordine è indice di un volontarismo a sua volta frutto dello smarrimento dei principi del marxismo. Come abbiamo visto nel breve excursus dei testi citati, il controllo operaio può essere concepito in un’epoca in cui vi siano, nel vivo di un processo rivoluzionario, organismi di doppio potere; oppure, come misura che viene imposta da un governo operaio insediato al potere (è il caso del governo sovietico subito dopo l’insurrezione vittoriosa dell’Ottobre). In entrambi i casi, è il prodotto di un brusco cambiamento – in itinere, nella prima ipotesi; già occorso, nella seconda – nei rapporti di forza tra classe lavoratrice e borghesia capitalista.
Oppure, può essere il frutto, in presenza di determinate condizioni che allo stato neppure minimamente esistono nell’Italia di oggi, di una concessione per via legislativa da parte delle classi dominanti: e in questo caso, non sarebbe altro che uno strumento burocratico (ad esempio, attuato dalle direzioni sindacali) e di carattere riformista. Ad ogni buon conto, una rivendicazione così posta nelle condizioni date finisce per indurre nei lavoratori la falsa illusione – e dunque crea “falsa coscienza”[16] – che attraverso riforme negoziate con il governo borghese sia possibile ottenere un miglioramento nella propria vita: ciò significa che la classe operaia sarebbe autorizzata a pensare che può esserci una soluzione ai suoi problemi sol che si approvino dei provvedimenti favorevoli da parte del governo borghese, retrocedendo così da un’opposizione conseguente a quest’ultimo.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare a questo punto che si tratta di una parola d’ordine per mobilitare le masse. Ma, a ben vedere, è un’obiezione mal posta: proprio perché una simile rivendicazione è stata avanzata nelle condizioni di dominio stabile del capitale – e dunque senza che vi siano le condizioni per declinarla agglutinando e organizzando intorno ad essa la classe lavoratrice – tanto varrebbe a questo punto, nell’illusione di mobilitarla, agitare direttamente la parola d’ordine della presa del potere e della rivoluzione socialista: ma il risultato sarebbe il medesimo! Non a caso, le stesse “Tesi sulla tattica” citate (nota 15) evidenziavano che perfino «rivendicare la socializzazione o la nazionalizzazione delle più importanti branche dell’industria, come fanno i partiti centristi, è ancora una volta ingannare le masse popolari».
Il fatto è che agitare una parola d’ordine tanto per farlo non porta a nulla. Tanto per restare sul tema del controllo operaio, affinché questa rivendicazione venga concretamente recepita occorrerebbe esplicitare in maniera approfondita (“spiegare pazientemente”, diceva Lenin) in cosa consiste tale controllo, con che modalità e su che basi si vuole imporla alla classe nemica (organizzazione indipendente dei lavoratori, milizie operaie, occupazione dei luoghi di lavoro), quali conseguenze sociali può avere (reazione repressiva della borghesia). L’alternativa – voglio ripetermi – è una forma di “controllo” (sempre che lo Stato borghese sia disposto a concederlo) di tipo riformista, cioè gestito da direzioni burocratiche sindacali e, paradossalmente, … sottoposto al “controllo” dello Stato.
Probabilmente, uno dei compiti più difficili dei rivoluzionari è trovare le parole d’ordine per entrare in sintonia con le masse. Lo stato di estrema marginalità in cui versiamo oggigiorno dovrebbe indurci a una maggiore cautela nell’affrontarlo: il che implica uno studio approfondito dei principi del marxismo.
Note
[1] L. Trotsky, “A proposito del controllo operaio della produzione. Lettera ad alcuni compagni”, in Scritti 1929‑1936, Arnoldo Mondadori Editore, 1970, pp. 291 e ss.
[2] Da ciò si è soliti parlare, per questo regime politico, di “Repubblica di Weimar”.
[3] Ed è il motivo per cui Trotsky, nello scritto che stiamo esaminando, riteneva che i consigli di fabbrica potessero configurarsi come la realizzazione «del fronte della classe operaia» (op. cit., p. 294).
[4] L. Trotsky, op. cit., p. 297: si tratta di uno dei numerosi passaggi omessi nel testo pubblicato dai compagni che l’hanno presentato. Un’omissione grave, perché i brani mancanti fanno capire come sia del tutto fuori luogo nell’Italia di oggi avanzare quella parola d’ordine. Tanto è vero che, di seguito, lo stesso Trotsky si domandava se nella situazione in atto nella Germania del 1931 fosse possibile farlo: «Tuttavia, è possibile lanciare oggi stesso la parola d’ordine del controllo operaio? La “maturità” della situazione rivoluzionaria è forse sufficiente allo scopo?». E la risposta è che difettava quel «fronte unico degli operai comunisti, socialdemocratici, cattolici, senza partito» rappresentante «la condizione politica fondamentale che manca in Germania per una situazione rivoluzionaria immediata» (ibidem).
[5] Ivi, p. 298.
[6] L. Trotsky, “Factory Councils and Workers’ Control of Production” (12/9/1931), The Militant, 21/11/1931, p. 4.
[7] L. Trotsky, “E ora?”, in Scritti 1929‑1936, cit., pp. 324 e ss.
[8] Ivi, p. 440 e s.
[9] L. Trotsky, “Control obrero y nacionalización”, in Naturaleza y dinámica del capitalismo y la economía de transición, C.E.I.P. “León Trotsky” Ediciones, 1999, p. 229 e s.
[10] Mi riferisco, solo a titolo d’esempio, a V.I. Lenin, “I compiti immediati del potere sovietico”, in Opere, vol. 27, Edizioni Lotta comunista, 2002, pp. 211 e ss.; e al “Discorso per il primo anniversario della rivoluzione”, in op. cit., vol. 28, pp. 135 e ss.
[11] V.I. Lenin, “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa”, in op. cit., vol. 25, p. 309.
[12] R. Luxemburg, “Riforma sociale o rivoluzione?”, in Scritti politici, vol. 1, Editori Internazionali Riuniti, 2012, pp. 161 e ss.
[13] Ivi, pp. 178 e ss.
[14] Ivi, pp. 182 e 185.
[15] Tesi sulla tattica (12 luglio 1921), in A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. 1, t. II, Editori Riuniti, 1974, p. 422 e s. Si veda anche J. Degras, Storia dell’Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, t. I, p. 268 e s.; nonché Assalto al cielo. Documenti e manifesti dei Congressi dell’Internazionale comunista, Giovane Talpa, 2005, p. 223 e s.
[16] Si veda la lettera di Friedrich Engels a Franz Mehring del 14 luglio 1893.