Di fronte all’epidemia di coronavirus, la principale preoccupazione dei governi del capitale è solo apparentemente quella della salute dei propri cittadini. In realtà, tutte le misure adottate – e perfino quelle non adottate – hanno a cuore il puntellamento delle rispettive economie, e cioè la salvaguardia dei profitti dei capitalisti. Questo perché, dopo che erano trascorsi poco più di dieci anni dalla più violenta crisi economica da quella degli anni 30 del secolo scorso, l’economia globale stava iniziando a mostrare sì segni di crescita , ma debole e anemica; e con alcuni punti di sofferenza, come ad esempio l’Italia, quasi in stagnazione. Insomma, la ristrutturazione del sistema non si era verificata su basi solide, ma precarie.
L’inatteso arrivo del Covid-19 ha provocato (e sta provocando) un nuovo forte rallentamento dell’economia.
Quali sono allora le prospettive del ciclo economico alla luce dell’epidemia in atto? Quali le conseguenze per i padroni, e soprattutto – per quel che ci riguarda – per i lavoratori?
A queste domande cerca di dare una rigorosa risposta da un punto di vista marxista l’economista Rolando Astarita nel testo che, tradotto in italiano, pubblichiamo qui di seguito.
Buona lettura.
La redazione
Verso una depressione globale?
Rolando Astarita[*]
Lunedì 9 marzo, i mercati azionari hanno subito la peggior caduta dal 2008. Si è verificato dopo un forte ribasso del prezzo del petrolio e dopo nuove notizie sull’espansione del coronavirus che hanno significativamente aggravato le preoccupazioni per la possibilità di una recessione mondiale. Il Dow Jones si è ridotto di quasi l’8%. Le perdite in Francia, Germania e Spagna anch’esse sono state intorno all’8%; la Borsa di Milano è crollata dell’11%. Quella del Messico è caduta del 6,4%. Quella di San Paolo del Brasile del 12,7% (la perdita su base annua è del 35%). Il Merval (indice borsistico) di Buenos Aires ha perso il 13,7%. Nelle ultime settimane e fino alla chiusura del 9 marzo, Wall Street ha perso il 19%. Le Borse europee sono cadute, in media, del 23% dal loro massimo di febbraio. Il prezzo del petrolio è crollato, negli Usa e in Europa, del 25%; in Asia del 30%. Le quotazioni delle imprese petrolifere hanno avuto perdite a due cifre: British Petroleum del 20%, Shell del 18%, Total del 17%, Chevron del 14%, Petrobrás del 29% (perdendo il 55% del suo valore in un anno); l’Adr della Ypf argentina[1] è caduto del 28% (pari al 59% su base annua). Le divise dei Paesi latinoamericani si sono deprezzate.
Ancor più grave, quarantene di massa, come in Italia (60 milioni di persone) o in Cina (100 milioni), rappresentano scenari nuovi e dall’esito imprevedibile. Inoltre, ora è in corso una guerra dei prezzi tra Russia e Arabia Saudita. Come ha riconosciuto un funzionario del fondo Black Rock intervistato dal The New York Times, l’incertezza è maggiore oggi che nel picco della crisi finanziaria del 2008. Naturalmente, gli investitori cercano rifugio in titoli governativi. Il 9 marzo il rendimento dei Buoni del Tesoro a dieci anni è giunto a un record minimo: 0,4949% (quando salgono i prezzi dei titoli per aumento della domanda, scende il loro rendimento). L’oro, altro bene‑rifugio, è salito dell’1,6%.
Domina – va sottolineato – l’incertezza nel senso in cui ne parlava Keynes: non ci sono elementi per poter neppure calcolare probabilità di sviluppi futuri. Nessuno sa, ad esempio, quanto potrà durare il virus – si indebolirà con l’arrivo delle temperature calde? – o come ne verrà colpita la produzione globale nella misura in cui l’epidemia continui ad espandersi. Però, tutto indicherebbe che certamente ci sono le condizioni per una depressione globale. Essenzialmente, perché l’attuale crisi si sviluppa su economie che nuotano in un mare di debiti, debolezza degli investimenti e crescenti squilibri. Ma prima di addentrarci in questo tema, mi sia consentita una riflessione più generale, riferita all’attualità dell’approccio materialista.
Virus e concezione materialista
Un primo aspetto che vorrei sottolineare è che l’apparizione del coronavirus ci ha drammaticamente ricordato che siamo esseri costituiti da una base biologica. Ho posto tale questione quando ho trattato le nozioni di lavoro astratto e concreto. Scrivevo in questa nota:
«… il punto di partenza dell’analisi marxista non è dato da individui che ottimizzano il consumo di determinati beni, come solitamente sostiene la versione neoclassica, bensì da individui che lavorano in forma associata, impiegando la loro forza lavoro umana per produrre i beni che permettano loro di riprodurre la forza lavoro. E questo è il contenuto ultimo del lavoro astratto; è l’impiego umano di energia, nervi e muscoli. È un condizionamento fisico e fisiologico, poiché una società di produttori non può consumare più energia per lavorare rispetto al reintegro energetico della sua forza lavoro totale che le permetta il consumo dei beni che produce. Naturalmente, le modalità in cui gli esseri umani uniformano il loro impiego di energia, e assimilano i tempi di produzione, cambiano storicamente a seconda dei cambiamenti nei rapporti sociali di produzione. Tuttavia, queste modalità non fanno scomparire il fatto che l’impiego umano di energia costituisce la sostanza di ogni lavoro».
E poi aggiungevo:
«L’affermazione che il contenuto del lavoro astratto è impiego umano di energia, inteso nel senso fisiologico, va contro il senso comune, dominante nella teoria sociale critica, che ha costruito tutto il suo ragionamento sulla netta separazione delle società umane rispetto al resto degli esseri viventi; e sulla separazione dell’essere umano dalla sua base biologica».
E citavo autori di Critical Human Ecology, i quali sostengono che «nella teoria sociale critica esiste una tendenza a negare il ruolo dell’ambiente biofisico sulle società umane. I teorici sociali critici si focalizzano principalmente su fattori culturali quando studiano le società, trascurando il fatto che esistono costrizioni materiali che attraversano la storia, e che la produzione materiale e la riproduzione – gli scambi materiali tra le società e i loro ambienti – costituiscono il fondamento di ogni società». E ancora: «I limiti naturali non possono essere superati dalla mera accumulazione di conoscenza culturale. In ultima istanza, dato che gli esseri umani sono entità biologiche, le società umane sono costrette da molti degli stessi principi ecologici e termodinamici che moderano la crescita e la riproduzione di altre specie» (qui). Quest’approccio materialista appare ineludibile nell’analisi della crisi in evoluzione.
Colpita la forza lavoro, si scatena una spirale discendente
Quanto appena detto si traduce nel fatto che l’espansione del virus sta colpendo, in forma diretta, la forza lavoro, la forza produttiva imprescindibile – per lo meno, dato l’attuale grado di sviluppo tecnologico – per mettere in movimento l’insieme delle forze produttive. E cioè, non c’è alcuna possibilità, per ora, di prescindere dal lavoro umano. L’osservazione è pertinente, dato che molti sociologi respingono la teoria del valore‑lavoro facendo ricorso all’argomento per cui essa “non è attuale, poiché il lavoro umano è stato rimpiazzato dalla robotica e dall’automazione”. Tuttavia, se la forza lavoro è obbligata a restare in casa per la quarantena, o per la malattia, non è possibile mettere in movimento l’insieme delle forze produttive, né far circolare il prodotto sociale. E questa situazione porta alla caduta del prodotto.
D’altra parte, la necessità di frenare i contagi spinge alla caduta del consumo (turismo, servizi ricreativi, ristoranti), la qual cosa a sua volta contrae ancor di più la produzione. Cioè, la domanda cade perché crollano le entrate (salari, rendite, profitti del capitale, ecc.) e perché si modificano, per ragioni “fisiologiche”, le abitudini dei consumi. Conseguentemente, crollano insieme produzione, circolazione e domanda, in un movimento a spirale discendente. In tutti i settori aumenta l’inutilizzo – ad esempio, aerei fermi o semivuoti, come pure ristoranti, centri commerciali, e così via – portando ad un aumento delle perdite e, a lungo termine, a sospensione o licenziamento di lavoratori.
Parallelamente, peggiora la situazione fiscale: si registrano cadute delle entrate tributarie e aumento delle spese della sanità pubblica. E questo metterà più pressione ai mercati finanziari e potenzierà la crisi. Precisiamo anche che, nella misura in cui il virus si dovesse estendere a Paesi sottosviluppati, i loro servizi sanitari e sociali potranno esserne sopraffatti, aggravando le già magre condizioni dei lavoratori e della popolazione in generale.
Al contempo, la caduta della produzione e della domanda in Paesi centrali – la Cina innanzitutto – colpisce in pieno i Paesi esportatoti di petrolio, alimenti e altre materie prime. Ciò che aggraverà le difficoltà dei conti con l’estero, deprimerà maggiormente la domanda mondiale e darà luogo a ulteriori svalorizzazioni di capitali. A questo riguardo, la situazione è diversa da quella del 2008, in cui si veniva da un periodo di forte ascesa dei prezzi delle materie prime, sicché molti Paesi esportatori avevano riserve che hanno aiutato a sostenere la domanda mondiale, consentendo di ridurre i loro livelli di indebitamento. E inoltre – cosa ancor più importante – tra il 2009 e il 2012 la Cina ha sostenuto la domanda con ingenti iniezioni di spesa statale. Nulla di tutto ciò si verifica adesso: i prezzi delle materie prime – il petrolio in primo luogo – sono in discesa; i livelli di indebitamento dei Paesi arretrati sono aumentati; e la Cina ha rallentato la produzione.
Inoltre, nella misura in cui la produzione si è globalizzata, la spirale discendente diventa globale. Nessun paese capitalista può sfuggire a questa dinamica. Le catene internazionali di valore, in particolare, fanno sentire gli effetti negativi della caduta in qualunque dei loro anelli, colpendo il resto della catena; con l’aggravante che queste ripercussioni ribassiste si intensificheranno se si inaspriscono misure protezionistiche. Lo abbiamo visto soprattutto con la Brexit, o con le guerre commerciali fra Stati Uniti e Cina. Ora possono intensificarsi, ad esempio, mediante le svalutazioni competitive; o, peggio ancora, a causa di politiche xenofobe e reazionarie (chiusure di frontiere, attacchi a migranti).
Un’economia debole e in un mare di debiti
Nel settembre dello scorso anno, nella nota “Economia globale 2019; aggiornamento” (qui) scrivevo che dalla fine della crisi del 2008‑2009 la situazione dell’economia mondiale non era di depressione, o recessione, ma neppure di forte crescita. Le economie dell’eurozona e del Giappone continuavano ad essere stagnanti; la crescita era debole negli Usa e in Canada; e relativamente importante nei Paesi arretrati. Dal 2009 c’è stato un prolungato periodo di crescita globale debole, o semi‑stagnazione, e bassi investimenti.
In tal modo si era configurata una crescita anemica «sostenuta dall’aumento del credito e in un mare di debiti». Tra gli altri dati, citavo un report della Unctad[2] che diceva: «Agli inizi del 2018, il volume del debito mondiale era aumentato a circa 250 trilioni di dollari[3] – il triplo delle entrate mondiali – se comparato con i 142 trilioni di dollari registrati un decennio fa. La stima più recente della Unctad indica che la relazione tra debito mondiale e Pil è attualmente di quasi un terzo maggiore rispetto al 2008». A sua volta, la Banca Mondiale segnalava che «nelle economie emergenti e in via di sviluppo [il debito] è aumentato in media dal 15% del Pil al 51% nel 2008». L’Ocse avvertiva che il debito privato cresceva rapidamente nelle economie più grandi: tra il 2008 e il 2018 lo stock globale di obbligazioni societarie non finanziarie era raddoppiato in termini reali, giungendo a quasi 13 trilioni di dollari. Nello stesso senso, il Fmi notava che negli Stati uniti il debito delle società era passato dai 4,9 trilioni di dollari del 2007 ai 9,1 trilioni alla fine del 2018: un aumento dell’86%. E gran parte di questo debito era stato destinato al riacquisto di azioni e al pagamento di dividendi.
Ma il debito delle società non era solo aumentato, si era addirittura modificato in peggio: aumento delle emissioni di obbligazioni con rating BBB, sia in Europa che negli Usa. In quella nota dicevo che queste obbligazioni erano adatte per investitori istituzionali, ma che una caduta del loro rating – ad esempio, a causa dell’indebolimento dell’economia – avrebbe «scatenato vendite forzate da parte dei fondi che hanno l’obbligo di mantenere i loro investimenti a un livello di affidabilità»[4]. D’altra parte, benché fosse diminuita l’emissione di obbligazioni‑spazzatura, erano aumentati i crediti fondati su leverage loans. Si tratta di prestiti rischiosi per imprese (una descrizione la si trova qui). In quella nota dicevamo: «Negli Stati Uniti il loro volume si è più che raddoppiato dal 2010. E sempre più vengono usati per finanziare l’assunzione di rischi finanziari attraverso fusioni e acquisizioni, acquisizioni con indebitamento, pagamento di dividendi e riacquisto di azioni». Prestiti che sono stati potenziati da strumenti finanziari opachi, adatti ad ogni tipo di manovre speculative.
Conseguenza: la crisi si inserisce in uno scenario di debolezza
La crisi scoppiata con l’apparizione del coronavirus si inserisce in questa situazione finanziaria e di debolezza dell’accumulazione. Ed è questa combinazione – interazione potenziata tra la sfera della produzione e la circolazione, e la sfera delle finanze e del credito – quella che può sprofondare l’economia globale nella depressione. Il fatto è che, come l’aumento dei prezzi degli attivi potenzia il rapporto di indebitamento[5], e questo porta a maggiori aumenti, quando sopraggiunge la caduta dei valori il movimento si inverte, verso il basso e a spirale (sul rapporto di indebitamento, si veda qui).
Questa possibilità è mostrata dalle cifre dei debiti. Secondo Bloomberg, oggi il debito delle imprese statunitensi supera quella delle famiglie per la prima volta dal 1991. Imprese di energia, soprattutto quelle che hanno investito in shale oil[6], sono molto indebitate; così pure imprese di trasporto come American Airlines e Hertz. Sempre secondo Bloomberg, il debito societario è passato dai 10,7 trilioni di dollari del dicembre 2008 ai 16 trilioni del settembre 2019. Il valore delle obbligazioni ad alto rendimento (cioè, investimenti rischiosi) raggiunge 1,3 trilioni, contro i 786 miliardi di dollari di dieci anni fa. Quasi la metà del mercato obbligazionario investment grade ha un rating BBB; per queste obbligazioni c’è la possibilità di un peggioramento del rating, ciò che renderebbe necessarie vendite in massa. Al contempo, il mercato dei prestiti mediante leva finanziaria raggiunge 1,15 trilioni di dollari.
Teniamo conto che i meccanismi recessivi si intrecciano e si rafforzano, con la possibilità di trascinare uno dopo l’altro tutti i settori. In particolare, queste dinamiche sono inerenti al credito, che agisce come elemento unificatore. Come scriveva Marx:
«In un sistema di produzione in cui tutto il meccanismo del processo di produzione riposa sul credito, deve evidentemente prodursi una crisi, una affannosa ricerca dei mezzi di pagamento, al momento in cui improvvisamente il credito viene a mancare e tutti i pagamenti devono essere fatti in contanti. A prima vista sembra quindi che la crisi, nel suo complesso, sia unicamente una crisi creditizia e monetaria. Ed effettivamente si tratta in realtà unicamente della convertibilità delle cambiali in denaro. Ma queste cambiali rappresentano, per la maggior parte, acquisti e vendite reali che, avendo assunto un’estensione di gran lunga superiore al bisogno sociale, sono in definitiva la base di tutta la crisi» (El Capital, p. 630, t. 3)[7].
Per questo, quando scoppiano queste dinamiche, tutti gli attivi sono in un livello di correlazione vicino a uno: ossia, non c’è modo di attenuare le ingenti svalorizzazioni ricorrendo alla diversificazione degli investimenti.
In conclusione, ci sono gli elementi perché assistiamo a una spirale fortemente discendente dell’economia degli Stati Uniti, e probabilmente di quelle europee, che trascinerebbe l’economia globale. La Federal Reserve ha iniettato denaro nel mercato, e la stessa cosa faranno le altre banche centrali, ma difficilmente ciò invertirà la caduta della produzione e della domanda. L’importante è tenere presente l’interazione tra cadute della produzione e domanda, peggioramento delle difficoltà finanziarie e ripercussione di queste nuovamente sulla produzione e la domanda, inasprendo la crisi. Sottolineo che si tratta di uno scenario, perlomeno, possibile; e la caduta, o il rallentamento dell’economia mondiale, è già un fatto. Per i lavoratori si avvicinano tempi di aumento della disoccupazione, crollo dei redditi e peggioramento delle condizioni di vita.
Note
[1] L’American Depositary Receipt (Adr) è un titolo negoziabile a garanzia di un deposito di un’impresa argentina in una banca statunitense che consente alla prima di emettere azioni direttamente nella Borsa degli Usa [Ndt].
[2] Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo [Ndt].
[3] L’equivalente di 250.000 miliardi di dollari [Ndt].
[4] Ciò che nel linguaggio finanziario si definisce come “investment grade” [Ndt].
[5] In inglese, “financial leverage”. In italiano si utilizza anche l’espressione “leva finanziaria” [Ndt].
[6] Petrolio di scisto [Ndt].
[7] K. Marx, Il Capitale, libro III, Editori Riuniti, 1994, p. 576 [Ndt].
(Traduzione di Ernesto Russo)
[*] Rolando Astarita è uno studioso marxista di economia. Insegna all’Università di Quilmes e di Buenos Aires, in Argentina.