Come avevamo preannunciato in una nota a margine di un precedente saggio dello stesso Autore, presentiamo oggi ai nostri lettori uno scritto di Felipe Demier sulle analisi che Trotsky elaborò rispetto ai Paesi arretrati e al ruolo che rispettivamente in essi giocavano il proletariato e le borghesie nazionali, alla luce della teoria della rivoluzione permanente e di quella dello sviluppo disuguale e combinato. In particolare, lo scritto pone bene in luce come l’internazionalismo non fosse per Trotsky un principio astratto o, peggio, un’aspirazione “etica”, «bensì il riflesso politico e teorico del carattere internazionale dell’economia, dello sviluppo mondiale delle forze produttive e dell’estensione mondiale della lotta di classe» (così, esplicitamente, Trotsky, nel testo “La rivoluzione permanente”).
Crediamo che su questi temi – che, contrariamente a quanto, con giudizio superficiale, si possa pensare, conservano una stringente attualità – sia importante, come marxisti rivoluzionari, riflettere e discutere approfonditamente.
Buona lettura.
La redazione
Trotsky e il “Sud Globale”
Rivoluzione permanente, regimi politici e oppressioni (nazionali e razziali)
Felipe Demier [a]
«Por que vocês não sabem
Do lixo ocidental?»
(Milton Nascimento, “Para Lennon e McCartney”) [b]
Tutta la teoria di Trotsky sulla rivoluzione permanente è stata centrata sull’idea che lo sviluppo del capitalismo nelle regioni arretrate[1] prevedeva una storicità propria, contrariamente alla logica della ripetizione delle “tappe” del capitalismo europeo classico nei Paesi “coloniali” e “semicoloniali”, così come proclamava la Terza Internazionale. La forma specifica in cui il capitalismo si presentava nei Paesi arretrati (combinando dialetticamente elementi moderni con strutture arcaiche) non sarebbe conseguenza, secondo Trotsky, di una mera questione di “stadi” diversi tra questi ultimi e i Paesi a capitalismo avanzato. Quest’affermazione, a sua volta, si basava su una prospettiva che comprendeva il capitalismo mondiale come una totalità contraddittoria, e non già come una mera somma di nazioni (parti) isolate.
Proprio perché frammenti dialetticamente integrati in un tutto (il capitalismo mondiale), le regioni “coloniali” e “semicoloniali” non potevano sviluppare la loro storia separatamente, e, dunque, non sarebbe stato per esse possibile superare il loro stato di arretratezza passando a uno “stadio” superiore entro il quadro del capitalismo. Il sistema capitalista, specialmente a partire dalla sua fase imperialista, non avrebbe lasciato più spazio per questi sviluppi “autonomi”, rendendo impossibile alle regioni arretrate la ripetizione della storia delle regioni all’avanguardia. Allo stesso modo, lo sviluppo storico delle nazioni centrali era dipeso e dipendeva interamente dalle relazioni stabilite con le formazioni economico‑sociali periferiche. Questa totalizzante prospettiva di Trotsky costituiva la base del suo internazionalismo, in opposizione frontale alla teoria del “socialismo in un Paese solo” sostenuta dagli stalinisti, e ciò lo portava a difendere posizioni politiche completamente diverse da quelle di questi ultimi[2].
Nei brani che seguono, estratti da La rivoluzione permanente, si può percepire il collegamento esistente tra la concezione di Trotsky sullo sviluppo storico dei Paesi arretrati e le sue proposte politiche per il proletariato di questi ultimi:
«Come instaurare allora la dittatura del proletariato in certi Paesi arretrati, come la Cina, l’India ecc.? Rispondiamo: la storia non si fa su ordinazione. […] Non bisogna mai partire da un’armonia aprioristica dell’evoluzione sociale. Nonostante la dolce stretta teorica di Stalin, la legge dello sviluppo diseguale esiste ancora. Fa valere la propria forza sia nei rapporti tra i Paesi diversi sia nella correlazione dei vari processi all’interno di un singolo Paese. Solo su scala mondiale sarà possibile il superamento dello sviluppo diseguale sul piano economico e sul piano politico. Ciò significa, in particolare, che non si può considerare la questione della dittatura del proletariato in Cina esclusivamente entro il quadro dell’economia e della politica cinese. Qui ci troviamo di fronte a due posizioni che si escludono reciprocamente: una è quella della teoria internazionalista e rivoluzionaria della rivoluzione permanente, l’altra è quella della teoria nazionalriformista del socialismo in un Paese solo. Non solo la Cina arretrata, ma nessun Paese del mondo potrà costruire il socialismo entro il quadro nazionale: le forze produttive altamente sviluppate, che trascendono i confini nazionali, vi si oppongono non meno delle forze insufficientemente sviluppate per la nazionalizzazione. […] Ciò significa forse, quanto meno, che tutti i Paesi, anche i Paesi coloniali arretrati, sono maturi per la dittatura del proletariato, se non per il socialismo? No, non significa affatto questo. E allora come realizzare in genere e più particolarmente nelle colonie la rivoluzione democratica? Alla domanda risponderò con un’altra domanda: e chi vi ha detto che tutti i Paesi coloniali siano maturi per la realizzazione immediata e integrale dei compiti nazionaldemocratici? La questione va capovolta. Nelle condizioni della fase imperialista, la rivoluzione nazionaldemocratica può vincere solo se i rapporti sociali e politici di un Paese sono maturi per l’avvento al potere del proletariato come guida delle masse popolari. […] In Cina, dove, nonostante una situazione estremamente favorevole, la direzione dell’internazionale comunista ha impedito al proletariato di lottare per il potere, i problemi nazionali hanno avuto una soluzione meschina, precaria, negativa sotto il regime del Kuomintang»[3].
Partendo da questa interpretazione a proposito delle possibilità di sviluppo dei Paesi arretrati nell’epoca dell’imperialismo, Trotsky polemizzò con la proposta di una “dittatura democratica” (sotto la direzione della “borghesia nazionale”), lanciata per la Cina e altri paesi “coloniali” e “semicoloniali” dalla Terza internazionale:
«Non è possibile prevedere quando e in quali condizioni questo o quel Paese sarà maturo per una soluzione veramente rivoluzionaria della questione agraria e della questione nazionale. Ma in ogni caso possiamo affermare con certezza sin d’ora che non solo la Cina, ma anche l’India potrà arrivare a una vera democrazia popolare, cioè operaia e contadina, solo per mezzo della dittatura del proletariato. Lungo la strada ci potranno essere fasi diverse. Sotto la pressione delle masse popolari la borghesia farà ancora dei passi verso sinistra per poi colpire il popolo implacabilmente. Sono possibili e probabili periodi di “dualismo di poteri”. Ma una ipotesi è esclusa completamente, quella di una vera dittatura democratica che non sia una dittatura del proletariato. Una dittatura democratica non può che assumere le caratteristiche del Kuomintang, cioè non può che essere diretta contro gli operai e i contadini. Bisogna comprenderlo in partenza e insegnarlo alle masse, senza nascondere la realtà di classe dietro una formula astratta»[4].
Salvo che nei suoi innumerevoli scritti sulla Russia, in cui i particolarismi della Terra degli Zar furono opportunamente affrontati[5], Trotsky non si dedicò a riflessioni approfondite sulla “questione nazionale” in altre formazioni sociali. Tuttavia, nelle sue analisi su diversi Paesi, che abitualmente oggi vengono definiti “Sud globale”, cercò sempre di tener conto, quantunque attraverso ricerche secondarie, delle loro specificità storico‑sociali, sempre assumendo quei Paesi – è bene ricordarlo – come parte di una totalità, il capitalismo mondiale.
Ancora nel 1930 (anno di pubblicazione de La rivoluzione permanente), dando continuità alla sua battaglia contro il “tappismo” dell’Internazionale comunista, Trotsky scrisse testi che si riferivano al carattere della rivoluzione in Paesi come l’Italia e l’India. Affermando il ruolo controrivoluzionario di tutti i settori delle classi dominanti di quei Paesi, ancora una volta Trotsky individuò il proletariato come l’unico soggetto capace di dirigere qualsiasi processo rivoluzionario che affrontasse i compiti “democratici” e/o “nazionali” pendenti. In questo senso, per Trotsky in Italia non si sarebbe potuto insediare un regime “democratico”, in quanto tappa intermedia tra il fascismo e un’eventuale futura dittatura del proletariato, che fosse il prodotto di una lotta vittoriosa della borghesia italiana contro il regime di Mussolini. Il rivoluzionario russo ammetteva la possibilità che nel Paese potesse sorgere, in epoca successiva al fascismo, un regime parlamentare e “democratico” che, nella sua concezione, avrebbe potuto essere soltanto opera di una rivoluzione proletaria «insufficientemente matura e prematura», che, abortendo, avrebbe permesso alla borghesia, dopo una crisi rivoluzionaria, di ristabilire, in modo controrivoluzionario, il suo dominio su basi “democratiche”. In ogni modo, segnalava Trotsky, un’eventuale democrazia borghese in Italia sarebbe potuta scaturire da una vittoriosa rivoluzione “democratica” diretta dalla classe dominante[6]. Anche la battaglia per la “liberazione nazionale” dell’India dal giogo dell’imperialismo inglese non poteva, secondo lui, fare affidamento sulla partecipazione degli “oppressori interni”, i quali, nella misura in cui cresceva la lotta delle masse per l’indipendenza, avevano diminuito il loro «desiderio … di separarsi dallo straniero»[7].
Nei primi anni 30, in considerazione del processo rivoluzionario in Spagna iniziato con la caduta della dittatura bonapartista di Primo de Rivera (1930) e il successivo rovesciamento della monarchia (1931), Trotsky si dedicò a scrivere una serie di testi destinati ad analizzare il ruolo politico che il proletariato di quel Paese avrebbe dovuto svolgere perché la rivoluzione potesse avere un corso favorevole. Constatando il carattere “debole” della borghesia spagnola, ancora una volta Trotsky sostenne che soltanto il proletariato, in alleanza con i contadini, avrebbe potuto portare a termine i compiti di una rivoluzione “democratico‑borghese” nella Spagna arretrata, come la riforma agraria e la distruzione dei privilegi della Chiesa cattolica. Perciò, nei suoi scritti del periodo 1934‑1937 (decisivo per il destino della Rivoluzione spagnola), condannò fermamente la politica di fronte popolare portata avanti dall’Internazionale comunista in Spagna. Attribuendo alla borghesia spagnola un carattere “progressista” e orientando gli operai e i contadini a stringere con essa un’alleanza, gli stalinisti sostenevano allora che la rivoluzione doveva restare nei limiti di una repubblica democratico‑borghese, e ciò avrebbe impedito, secondo l’Internazionale comunista, la vittoria del fascismo.
La fragorosa sconfitta del proletariato spagnolo nella rivoluzione, così come la responsabilità dell’Internazionale e del Partito comunista spagnolo in questo fallimento storico, sono universalmente note. La borghesia spagnola, che godeva della fiducia degli stalinisti, avrebbe dimostrato tutto il suo carattere “progressista” e “democratico” accogliendo a braccia aperte il generale Francisco Franco[8].
Nel 1935, mentre era impegnato a combattere la politica di fronte popolare applicata in Spagna dall’Internazionale comunista, Trotsky scrisse ancora brevi commentari a proposito dei compiti del movimento rivoluzionario in Sud Africa, all’epoca colonia della Gran Bretagna. Ribadendo l’esistenza di una dinamica storica propria per i Paesi arretrati, “coloniali” e “semicoloniali”, sostenne che il superamento delle questioni “agraria”, “nazionale” e “razziale” era direttamente relazionato alla lotta per l’instaurazione della dittatura del proletariato (nero e bianco) nel Paese, opponendosi così a qualsiasi alleanza con i settori dominanti nativi in nome di una piattaforma “comune” di stampo “antimperialista”[9].
Qualche tempo dopo, nel gennaio del 1937, Trotsky sarebbe giunto in Messico, a quell’epoca governato dal generale bonapartista di sinistra Lázaro Cárdenas.
Nonostante l’accordo di non interferenza nella politica interna firmato col presidente, Trotsky, sin dal suo arrivo, non si sottrasse all’elaborazione di analisi relative alla lotta di classe in quel Paese e al ruolo che avrebbe dovuto svolgervi il proletariato. Benché meno intensamente, rivolse il suo sguardo anche ad altre esperienze politiche latinoamericane, cercando di considerarle come parti costitutive di una grande realtà periferica e arretrata del sistema capitalista mondiale, che attraversava una profonda crisi dal momento del crollo della Borsa di New York nell’ottobre del 1929. Dal Messico, Trotsky scrisse:
«La società latinoamericana, come ogni società – sviluppata o arretrata – è composta da tre classi: la borghesia, la piccola borghesia e il proletariato. Nella misura in cui i compiti sono democratici in un ampio senso storico, sono compiti democratico‑borghesi, ma qui [in America Latina] la borghesia è incapace di risolverli, com’è invece accaduto in Russia e in Cina. In questo senso, durante il corso della lotta di classe per i compiti democratici, opponiamo il proletariato alla borghesia. L’indipendenza del proletariato, perfino all’inizio di questo movimento, è assolutamente necessaria, e opponiamo il proletariato alla borghesia soprattutto per quanto attiene alla questione agraria, perché la classe che governerà – in Messico come in tutti gli altri Paesi latinoamericani – sarà quella che attrarrà a sé i contadini»[10].
Assassinato dalla Gpu (la polizia politica sovietica) per ordine di Stalin nel 1940, Trotsky ebbe in America Latina non solo il suo ultimo luogo d’esilio, ma anche l’ultimo luogo per l’osservazione della sua legge dello sviluppo disuguale e combinato e della sua teoria della rivoluzione permanente. Le sue interpretazioni delle possibilità storiche dell’America Latina sotto il capitalismo si contrapposero a qualsiasi prospettiva evoluzionista e “tappista” in relazione al corso economico, politico e sociale del continente. Queste interpretazioni, che risalgono alla fine degli anni 30, rappresentano dunque un contraltare teorico e politico sia alle tesi elaborate dalla seconda metà degli anni 20 dai partiti comunisti legati all’Internazionale comunista, sia a quelle della prospettiva “nazional‑sviluppista” provenienti da istituzioni come la Cepal (Commissione economica per l’America Latina e il Caribe) o altre di portata nazionale. In questo senso, riteniamo che Trotsky, nel riconoscere una storicità propria ai Paesi dipendenti – e in particolare all’America Latina – pose le basi teoriche di ciò che in seguito sarebbe stato conosciuto come “teoria della dipendenza”.
Note
[1] Si rende qui necessario indicare che la stessa nozione di arretratezza è suscettibile di essere problematizzata, dato che, in qualche maniera, può portare a intendere che c’è una specie di linea storica evolutiva che le nazioni debbono seguire. In questo testo utilizziamo questo concetto nell’accezione trotskista, cioè in modo che esso abbia come suo asse strutturante la dimensione storico‑temporale delle modernizzazioni industriali capitaliste dei Paesi a cui si riferisce.
[2] Circa il metodo internazionalista di Trotsky, v. F. Demier, “Totalidade e internacionalismo em León Trotsky”, in Marx e marxismos, vol. 6 (n. 10), 2018; e A. Bianchi, “O marxismo de León Trotsky: notas para uma reconstrução teórica”, in Idéias, n. 14, Campinas, 2007, pp. 57‑99.
[3] L. Trotsky, A revolução permanente. 2ª ed., São Paulo, Kairós, 1985, pp. 120‑121 [in italiano, L. Trotsky, La rivoluzione permanente, Arnoldo Mondadori editore, 1979, pp. 174‑176: ndt].
[4] Ibidem. Le riflessioni di Trotsky a proposito del corso della Rivoluzione cinese del 1925‑1927 possono rinvenirsi, tra gli altri scritti, nelle corrispondenze intrattenute, all’epoca dei fatti, con bolscevichi come Radek, Alsky e Preobraženskij (incluse nella raccolta L. Trotsky, La teoría de la revolución permanente. Compilación, Buenos Aires, Centro de Estudios, Investigaciones y Publicaciones León Trotsky [CEIP León Trotsky], 2000, p. 369‑394) [in italiano sono state pubblicate le “Tre lettere a Preobraženskij” in L. Trotsky, Opere scelte, Prospettiva edizioni, 2006, vol. 8, pp. 65–78: ndt], e nell’articolo, scritto nel 1938, intitolato “La revolución china” (ivi, pp. 524‑535) [in italiano, L. Trotsky, “Rivoluzione e guerra in Cina”, in appendice al testo di P. Casciola, “Trotsky e le lotte dei popoli coloniali”, in Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso n. 18, aprile 1990, pp. 15–22. È utile anche consultare, al riguardo, L. Trotsky, I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali. 1924‑1940, Giulio Einaudi editore, 1970, pp. 121‑297: ndt].
[5] A questo proposito, v. F. Demier, “A lei do desenvolvimento desigual e combinado de Trotsky e a Revolução Russa” in F. Demier e M.L. Monteiro (org.), 100 anos depois: a Revolução Russa de 1917, Rio de Janeiro, Mauad X, pp. 135‑166.
[6] L. Trotsky, “Problemas de la revolución italiana” in L. Trotsky, La teoría de la revolución permanente. Compilación, cit., p. 552–553 [in italiano, L. Trotsky, “Lettera ai «Tre»”, in L. Trotsky, Scritti sull’Italia, Massari editore, 2001, pp. 182 e ss.: ndt].
[7] L. Trotsky, “Tareas e peligros de la revolución en la India”, in L. Trotsky, La teoría de la revolución permanente. Compilación, cit., p. 541 [Questo concetto venne ulteriormente ribadito da Trotsky nella “Lettera aperta ai lavoratori dell’India”, scritta il 25 luglio 1939 e pubblicata in italiano in L. Trotsky, I problemi della rivoluzione cinese …, cit., pp. 597 e ss.: ndt].
[8] Gli scritti di Trotsky relativi alla Rivoluzione spagnola possono leggersi in L. Trotsky, La revolución española, S.l. El Puente Editorial, s.d. [in italiano non esiste una raccolta organica degli scritti di Trotsky sulla Rivoluzione spagnola; nondimeno alcuni di essi si trovano, ad esempio, in L. Trotsky, Scritti 1929‑1936, Arnoldo Mondadori editore, 1970, pp. 205‑287; in I problemi della rivoluzione cinese …, cit., pp. 519‑540; in Opere scelte, cit., vol. 8, pp. 131 e ss.; in Programma di transizione, Massari editore, 2008, pp. 173‑190; e in A. Nin, Terra e libertà, Erre emme edizioni, 1996, pp. 334‑347: ndt].
[9] L. Trotsky, “Sobre las tesis sudafricanas”, in L. Trotsky, La teoría de la revolución permanente … cit., p. 561–567.
[10] L. Trotsky, “Discusión sobre America Latina”, in L. Trotsky, Escritos latinoamericanos, 2ª ed., Buenos Aires, Centro de Estudios, Investigaciones y Publicaciones León Trotsky (CEIP León Trotsky), 2000, p. 123‑124. Il testo in questione è un riassunto trascritto di una conversazione fra Trotsky, i suoi militanti‑guardie del corpo nordamericani e il trotskista Charles Curtiss, anch’egli nordamericano. [Come per gli scritti sulla Spagna, anche per quelli sull’America Latina non esiste una raccolta organica in lingua italiana. Alcuni si possono trovare in L. Trotsky, I problemi della rivoluzione cinese …, cit., pp. 583‑593: ndt].
(Traduzione di Valerio Torre)
[a] Felipe Demier, storico, insegna all’Università Federale Fluminense (Uff) e all’Università Statale di Rio de Janeiro (Uerj). Ha scritto diversi libri, tra cui: O Longo Bonapartismo Brasileiro: um ensaio de interpretação histórica (1930–1964), Mauad, 2013; e Depois do Golpe: a dialética da democracia blindada no Brasil, Mauad, 2017.
[b] «Perché non sapete della spazzatura occidentale?».