I nostri lettori ricorderanno che già in passato, su questo stesso sito, ci siamo interessati al tema della “redistribuzione della ricchezza”, che è tuttora il cavallo di battaglia del riformismo piccolo-borghese, nonostante Marx lo abbia affrontato e teoricamente “demolito” quasi centocinquant’anni fa. Eppure, ancor oggi esso viene ripreso, riproposto e nuovamente declinato dalla sinistra riformista, che in tal modo ostacola la formazione nei lavoratori di una coscienza di classe fondata sull’autonomia dallo Stato e dalle istituzioni borghesi.
Compito dei rivoluzionari, invece, soprattutto in una fase di arretramento della coscienza, è distruggere la fiducia che nello Stato e nelle sue istituzioni la classe lavoratrice ripone: compito, questo, che deve essere affrontato a partire dalla riappropriazione della riflessione teorica.
Il saggio che presentiamo tradotto in italiano – dopo quello, dello stesso autore, sulla critica dello Stato – si focalizza sulla critica della democrazia borghese e costituisce un utile tassello di quella stessa necessaria riflessione teorica.
Buona lettura.
La redazione
Marx, critico della democrazia
Ariel Mayo [*]
«Ogni passo del movimento reale
è più importante di una dozzina di programmi»
(K. Marx, lettera a Wilhelm Bracke, 5/5/1875)
A mo’ di prefazione
Karl Marx (1818–1883) riprese nei suoi lavori degli anni dopo il 1870 diversi problemi affrontati nei primi anni della sua produzione intellettuale, soprattutto quelli riguardanti gli aspetti politici della dominazione capitalista, e i problemi dello Stato e della rivoluzione. Così, La guerra civile in Francia (1871) può essere considerata come la critica dello Stato[1], mentre la Critica del Programma di Gotha (1875) rappresenta la critica della democrazia.
I lavori appena citati hanno in comune l’essere il prodotto della lotta dei lavoratori. In altri termini, Marx affronta i problemi dello Stato e della democrazia a partire dall’esperienza della classe operaia. La sua preoccupazione è, innanzitutto, la pratica.
La Comune di Parigi (marzo‑maggio 1871), alla cui analisi è dedicata l’opera La guerra civile in Francia, fu la prima esperienza di presa del potere da parte dei lavoratori e dei settori popolari, e pose bruscamente il seguente problema: che dovrebbe fare dello Stato una rivoluzione vittoriosa?
Lo sviluppo del Partito socialista in Germania, le cui origini risalgono al decennio del 1860 e che nel 1875 versava in un processo di unificazione, pose Marx di fronte ai problemi della politica pratica e, specialmente, della democrazia[2]. In altre parole, quali erano i compiti dell’organizzazione politica rivoluzionaria in un contesto di democrazia? Come agire in un quadro di legalità? Che fare della democrazia (borghese)?
Non che Marx non avesse in precedenza affrontato i problemi pratici della politica. Il suo operato durante la Rivoluzione tedesca del 1848‑1849 e, soprattutto, la sua attività dal 1864 nell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (la Prima Internazionale) indicano che non era un neofita della politica. Ma lo sviluppo del movimento operaio europeo, il salto qualitativo rappresentato dalla Comune e la crescita dei partiti socialisti, la progressiva legalizzazione dei sindacati, l’estensione del suffragio universale, ecc., produssero numerosi nuovi problemi per i quali non bastavano le vecchie risposte.
I testi degli anni 70 del XIX secolo mostrano l’interazione fra le lotte della classe operaia e lo sviluppo della teoria marxista, così come anche la revisione costante della teoria da parte di un Marx attento ai cambiamenti sociali. L’espressione «tutto ciò che è istituito, tutto ciò che sta in piedi evapora», coniata da Marx ed Engels per il Manifesto comunista (1848), conserva piena validità nel momento di analizzare le risposte di Marx ai nuovi problemi della classe operaia.
Ma opere come La guerra civile in Francia e Critica del Programma di Gotha hanno importanza anche da una prospettiva attuale. In questi lavori vengono discussi lo Stato e la democrazia. E proprio lo statalismo e il culto della democrazia (borghese) sono ampiamente diffusi nelle file delle organizzazioni della sinistra, al punto che si può affermare, sia pure con un po’ di esagerazione, che costituiscono una sorta di pensiero egemonico che ha rimpiazzato il marxismo. Marx non può offrirci nessuna risposta ai problemi attuali, però possiamo trovare nella lettura dei suoi testi una prospettiva differente per affrontare questi problemi. In altri termini, contribuisce affinché possiamo formulare domande diverse; e, molte volte, cambiare la domanda rappresenta l’inizio della soluzione.
La Critica del Programma di Gotha e la critica della democrazia (borghese)
Esistono molti possibili modi di leggere un’opera. Ognuna di queste letture è arbitraria, nel senso che si realizza in funzione degli interessi specifici del lettore. In questo caso, abbiamo optato per leggere la Critica del Programma di Gotha considerandola come una critica dei grandi luoghi comuni della democrazia borghese, a partire dal concetto di uguaglianza.
La preoccupazione per la democrazia fu una costante nella produzione di Marx. Nei suoi scritti sulla Rivoluzione francese del 1848, Marx segnalò che la democrazia era la forma migliore di dominazione della borghesia. Ne Il Capitale (1867), sviluppò le nozioni di reificazione delle relazioni sociali capitaliste e di coercizione economica. I capitalisti sono proprietari dei mezzi di produzione. In virtù di questa proprietà, essi controllano il processo di lavoro, l’istanza in cui si producono i beni che soddisfano i bisogni dei membri della società.
I lavoratori, invece, possiedono solo la loro forza‑lavoro (i loro saperi e le abilità per lavorare); pertanto, si vedono costretti a vendersi sul mercato come salariati, poiché soltanto così possono accedere ai mezzi di cui hanno bisogno per vivere. Il lavoratore va a lavorare per coercizione economica (ha bisogno del salario per comprare le merci che gli servono per sopravvivere); non serve la presenza di un caporale che a frustate lo faccia alzare dal letto per recarsi al lavoro.
In poche parole, i capitalisti non debbono per forza essere proprietari dello Stato, dato che essi sono proprietari dei mezzi di produzione. Da qui deriva la scissione tra Stato e società civile, descritta in “La questione ebraica” (1844), caratteristica della società borghese. Ciò permette la relativa autonomia dello Stato, che appare come il rappresentante di tutta la società, il difensore del “bene comune”, ecc., e non già come lo strumento che assicura la dominazione della classe capitalista. Una delle condizioni affinché lo Stato assuma quest’apparenza è la diffusione dell’ideologia dell’uguaglianza, che si espande con lo sviluppo della produzione mercantile. Quest’ideologia si plasmò nel diritto e si espresse nell’istruzione “uguale per tutti”.
L’insieme di questi aspetti modella la formidabile struttura di dominio che è la democrazia. Senza questo percorso, che Marx realizzò durante decenni di indagine e studio del capitalismo, e che nella Critica del Programma di Gotha appare plasmato come una critica degli elementi centrali della democrazia, risulta impossibile comprendere l’egemonia borghese.
La critica dell’uguaglianza
Uno degli aspetti fondamentali della Critica del Programma di Gotha è riferito alla discussione della parola d’ordine della “distribuzione equitativa del frutto del lavoro”[3], introdotta nel programma dai sostenitori di Ferdinand Lassalle (1825‑1864). Marx critica l’inserimento della parola d’ordine da due prospettive differenti ma complementari.
Da un lato, la scienza economica dimostra che è impossibile la distribuzione di tutto il “frutto del lavoro”, poiché ciò impedirebbe di riavviare il successivo ciclo produttivo e condannerebbe alla morte per fame tutti i membri della società. Prima di effettuare la distribuzione, occorre infatti operare alcune detrazioni dal prodotto del lavoro, e cioè: 1) reintegrazione dei mezzi di produzione consumati durante il ciclo produttivo; 2) una parte supplementare per ampliare la produzione; 3) un fondo di riserva o di assicurazioni contro infortuni e danni causati da avvenimenti naturali. Queste detrazioni discendono direttamente dalla necessità economica. Una volta che esse siano state operate, restano, del prodotto generato nel ciclo produttivo, i beni di consumo. Tuttavia, non è possibile procedere alla distribuzione individuale, poiché prima di realizzarla è necessario compiere altre detrazioni: 4) le spese generali di amministrazione; 5) le necessità collettive (scuole, ospedali, ecc.); 6) un fondo per gli inabili al lavoro.
Una volta effettuate le detrazioni appena citate, è possibile mettere in atto la distribuzione individuale. A questo punto Marx introduce un’altra prospettiva, passando a discutere il concetto di uguaglianza, uno dei pilastri dell’ideologia capitalista.
È necessario fare una digressione prima di esaminare la questione principale. La produzione di merci richiede l’uguaglianza: in altre parole, lo scambio di merci è scambio di equivalenti. Cosa significa questo? Vuol dire che le merci più diverse (ad esempio, computer e carta igienica), prodotte a loro volta attraverso i lavori più diversi, sono rese uguali in quanto prodotto del lavoro umano astratto, in cui spariscono le caratteristiche specifiche di ogni mestiere e viene conservata soltanto la qualità dell’essere la risultante dell’impiego di forza umana indifferenziata, la cui misura è il tempo di lavoro. Tutte le qualità umane (che si concretano nella fabbricazione di un prodotto determinato) sono ridotte a tempo di lavoro. Le differenze tra gli individui (gusti, preferenze, ecc.) sono eguagliate; le merci ammettono solo una differenza tra loro: la quantità di tempo di lavoro che richiede la loro produzione. Il concetto di uguaglianza accompagna, dunque, lo sviluppo della produzione capitalistica.
L’uguaglianza, originata nell’ambito della produzione mercantile, è un elemento fondamentale dell’ideologia borghese e costituisce una delle risorse più efficaci per il mantenimento della dominazione dei capitalisti. Un sistema la cui norma dichiarata è l’uguaglianza sembra essere incompatibile con lo sfruttamento dei lavoratori. Di qui l’importanza della critica di Marx alla parola d’ordine della distribuzione del “frutto del lavoro”. Non si tratta di una discussione storica sopra una o un’altra posizione dei socialisti tedeschi nel 1875 (benché il testo possa essere comunque letto in tale ottica). Senza proporselo, Marx sta dibattendo una questione di premente attualità: come affrontare l’ideologia borghese?
Come abbiamo in precedenza indicato, il concetto di uguaglianza è alla base dell’ideologia democratica, e quest’ultima fa parte dell’ideologia borghese. A questo punto, è necessario avvertire che, nella Critica del Programma di Gotha, Marx affronta il tema dell’uguaglianza riferendosi a una società post‑rivoluzionaria, quando la borghesia sarà già stata rovesciata. In questo tipo di organizzazione sociale, la distribuzione dei beni per il consumo continua ad essere effettuata secondo le regole del diritto borghese. Ogni persona riceve una retribuzione uguale al lavoro apportato alla società. Chi più lavora, più riceve. Tutto sembra andare bene, poiché vige il principio di uguaglianza.
Tuttavia, l’uguaglianza si trasforma in disuguaglianza. Ad esempio, A e B sono lavoratori, entrambi apportano la stessa quantità di lavoro alla società e ricevono per il loro lavoro una remunerazione uguale al prodotto realizzato da ciascuno. Però A non ha figli, mentre B ha due figli. L’uguale diritto assegna ad entrambi la stessa remunerazione, ma A finisce per guadagnarci perché non ha famiglia, mentre B deve suddividere fra i membri del suo gruppo familiare la retribuzione ottenuta. Il diritto borghese, il cui nucleo è l’uguaglianza giuridica delle persone, elude un fatto fondamentale: gli esseri umani sono disuguali per natura. In altri termini, gli esseri umani hanno differenti gusti, abilità, preferenze, ecc.; le persone partono da posizioni sociali diverse (alcuni sono imprenditori, altri non hanno gli occhi per piangere). Ciò non sembra essere contemplato nel diritto borghese, perché la sua norma è la standardizzazione degli esseri umani, così come si verifica con il mercato.
Pertanto, la società post‑rivoluzionaria continua a perpetuare forme di diseguaglianza. Come sostiene Marx:
«Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale» (p. 90).
Il diritto borghese e la democrazia si basano sul principio di uguaglianza; in tal modo, ratificano la disuguaglianza esistente e, contemporaneamente, la legittimano sotto l’ombrello “ugualitario”. Le affermazioni di Marx sul diritto nella società post‑capitalista assumono maggiore validità se riferite alla società capitalista. Difendere l’uguaglianza e la democrazia significa, paradossalmente, difendere la dominazione della borghesia. A ciò conduce l’accettazione acritica dei pilastri della democrazia borghese.
Pertanto, l’uguaglianza nella distribuzione del “frutto del lavoro” occulta la persistenza della disuguaglianza nell’accesso ai prodotti del lavoro. Anzi, persistendo questa situazione, si produrrà un’accumulazione disuguale di beni. E tutto questo nelle condizioni della piena validità dell’uguaglianza. Di conseguenza, il diritto borghese più ugualitario è un diritto che legittima la disuguaglianza inerente al capitalismo. La proprietà privata dei mezzi di produzione fa sì che le persone siano disuguali fin dall’inizio, e l’uguaglianza giuridica non fa altro che rafforzare la disuguaglianza iniziale.
Marx giunge qui al nucleo della sua critica alla democrazia. I difensori dell’ideologia democratica, persino i più conseguenti, si limitano a modificare la distribuzione dei prodotti, senza però toccare la proprietà privata dei mezzi di produzione. Per essi si tratta di distribuire più equamente quanto prodotto, di far sì che nessuno muoia di fame, che tutti possano accedere alla scuola dell’obbligo, a quella superiore, all’università; che tutti possano avere accesso alla sanità pubblica, e così via. Ma la proprietà non si tocca. Marx descrive questa concezione nel paragrafo che segue:
«La ripartizione dei mezzi di consumo è in ogni caso soltanto conseguenza della ripartizione dei mezzi di produzione. Ma quest’ultima ripartizione è un carattere del modo stesso di produzione. Il modo di produzione capitalistico, per esempio, poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa è soltanto proprietaria della condizione personale della produzione, della forza‑lavoro. Essendo gli elementi della produzione così ripartiti, ne deriva da sé l’odierna ripartizione dei mezzi di consumo. Se i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall’attuale. Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e a sua volta da lui una parte della democrazia), l’abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno alla distribuzione» (p. 91).
La democrazia è impotente di fronte al capitalismo perché non colpisce la base di questo modo di produzione, la proprietà privata dei mezzi di produzione.
In tal modo, l’uguaglianza e il diritto che la proclama non sono la strada per la liberazione dallo sfruttamento capitalista. Al contrario, l’organizzazione rivoluzionaria è obbligata a mostrare continuamente il nesso tra questo diritto e quest’uguaglianza con la dominazione della borghesia. Solo così la classe lavoratrice può sviluppare una coscienza politica autonoma, capace di superare la trappola della democrazia borghese.
L’istruzione statale[4]
L’atteggiamento di Marx rispetto all’istruzione a carico dello Stato è un esempio di quanto appena esposto. La democrazia borghese propone un’istruzione basata sul principio di uguaglianza e a carico dello Stato. Ma non solleva il problema dell’abolizione della proprietà privata che costituisce la precondizione di quest’istruzione. Pertanto, non fa altro che riprodurre in ogni studente che esce dal sistema educativo le condizioni sociali dei suoi genitori; in altre parole, riproduce i presupposti della società esistente. Inoltre, si tratta di istruzione statale. Ciò significa che è emanazione dello Stato, che è un organo di dominazione e oppressione. Il partito socialista non può avallare un’istruzione che ponga i ragazzi nelle mani dello Stato; è obbligato a mostrare continuamente i limiti di quest’istruzione, che altro non sono se non l’espressione in un ambito specifico – quello educativo – delle limitazioni implicite di ogni politica borghese.
Il passaggio seguente non ha bisogno di particolari commenti:
«Fissare con una legge generale i mezzi delle scuole popolari, la qualifica del personale insegnante, i rami d’insegnamento, ecc., e, come accade negli Stati Uniti, sorvegliare per mezzo di ispettori dello Stato l’adempimento di queste prescrizioni legali, è qualcosa di affatto diverso dal nominare lo Stato educatore del popolo! Piuttosto si debbono ugualmente escludere governo e Chiesa da ogni influenza sulla scuola» (p. 99: il grassetto è mio).
Marx difende, di fronte alla timidezza rispetto alla democrazia e lo Stato, le iniziative autonome della classe operaia. Così, per esempio, riferendosi alle cooperative, scrive:
«Per ciò che riguarda le odierne società cooperative, esse hanno un valore soltanto in quanto sono creazioni operaie indipendenti, non protette né dai governi né dai borghesi» (p. 96).
Ben lungi dal cercare il sostegno statale per l’azione dei lavoratori, Marx indica che l’accettazione di tale sostegno suppone la subordinazione allo Stato. E lo Stato non è il rappresentante di “tutti”, bensì l’organo di dominazione politica sui lavoratori.
A mo’ di conclusione
Marx propone, rispetto alla democrazia, lo sviluppo della lotta ideologica e la difesa dell’iniziativa autonoma dei lavoratori. È necessario comprendere e difendere l’idea che la democrazia borghese è uno strumento di dominazione e non certo di liberazione. Votare e ampliare l’uguaglianza giuridica non modifica di una virgola la dominazione capitalista. Al contrario, proclamando l’uguaglianza come principio della società borghese (e plasmandolo in forma di misure che sono concrete, non puramente ideologiche), la democrazia offusca e sfuma l’oppressione e lo sfruttamento. Di fronte a una crisi capitalistica, le elezioni appaiono alla stragrande maggioranza dell’elettorato come la soluzione politica delle crisi. Niente disordini e rivoluzioni.
Noi, militanti del XXI secolo, dobbiamo riconoscere due questioni: a) che la borghesia può fare concessioni perché il capitalismo non è esaurito; b) che la democrazia capitalista è stata capace di costruire società più ugualitarie, sia nei Paesi centrali che nella periferia del mondo. Senza questa presa di coscienza è impossibile la critica alla democrazia[5]. E senza critica della democrazia è impossibile la rivoluzione.
La critica della democrazia e dello Stato svolge un ruolo simile – e integra – la critica dell’economia politica avviata ne Il Capitale (1867). In questo senso, dunque, gli scritti politici del decennio del 1870 avanzano una prospettiva più ampia della mera critica “economica” del capitalismo.
Parque Avellaneda, 4 febbraio 2020.
Nota bibliografica
Per la redazione di questo saggio ho utilizzato la traduzione spagnola delle Glosse marginali al Programma del Partito operaio tedesco (Programma di Gotha), compresa in Chiviló Villar, Matías, comp., Programas del movimiento obrero y socialista, Buenos Aires, Argentina, Rumbos, 2013, pp. 85‑100.
Note
[1] V., in proposito, il saggio “Marx contro lo Stato”, pubblicato il 24 gennaio 2020 sul blog “Miseria della Sociologia”.
[2] La Germania del 1875 era molto lontana dall’essere uno Stato democratico. Nella Critica del Programma di Gotha il regime politico tedesco viene così caratterizzato: «uno Stato che non è altro se non un dispotismo militare, mascherato di forme parlamentari, mescolato con appendici feudali, influenzato già dalla borghesia, tenuto assieme da una burocrazia, difeso con metodi polizieschi» (p. 98).
[3] Il progetto di programma prevedeva: «3. “L’emancipazione del lavoro richiede la elevazione dei mezzi di lavoro a proprietà comune della società e l’organizzazione collettiva del lavoro complessivo con giusta ripartizione del frutto del lavoro”» (p. 87).
[4] Per una trattazione più estesa del tema, v. il mio saggio “Marx, nemico dell’istruzione statale”, sul sito Miseria della Sociologia, pubblicato il 19 giugno 2016.
[5] Entrambe le affermazioni debbono essere sviluppate. Basti dire che il capitalismo non si è esaurito perché è stato capace di continuare a sviluppare le forze produttive, e che la sua capacità di formare società più ugualitarie in termini relativi (rispetto a società precedenti) non elimina, ma anzi accresce, la disuguaglianza e lo sfruttamento inerenti al modo di produzione capitalistico.
[*] Ariel Mayo, studioso marxista, insegna all’Università Nazionale di San Martín (Unsam) e all’Istituto Superiore di Formazione Docente “Dr. Joaquín V. González”.
(Traduzione di Ernesto Russo)