Presentiamo, tradotto in italiano, il breve ma brillante saggio di Felipe Demier sugli inizi dello scontro politico tra la burocrazia staliniana e l’Opposizione di Sinistra in Unione sovietica.
Buona lettura.
La redazione
Quasi cent’anni fa: intrepidi rivoluzionari contro burocrati armati
Felipe Demier [*]
«Tanta mentira, tanta força bruta»
[Tante menzogne, tanta forza bruta]
(Chico Buarque, Cálice)
Dopo la morte di Lenin, nel gennaio del 1924, l’acuta lotta politica all’interno del Partito comunista dell’Unione sovietica (Pcus) e dell’Internazionale comunista tra la frazione stalinista e l’Opposizione di Sinistra diretta da Trotsky fu indubbiamente uno scontro fra due prospettive opposte e inconciliabili: il nazional‑riformismo e l’internazionalismo rivoluzionario. In maggiore o minor misura, tutte le polemiche politico‑programmatiche tra i due raggruppamenti che disputavano a ferro e fuoco la direzione dell’Unione sovietica e del movimento comunista internazionale derivavano da questo scontro.
Così, ad esempio, l’opposizione tra la difesa di Trotsky della presa del potere da parte del proletariato nei Paesi arretrati e la strategia “tappista” che in quei Paesi l’Internazionale stalinizzata applicava non può essere compresa al di fuori di questa contrapposizione fra la concezione internazionalista della rivoluzione adottata dai trotskisti e la teoria stalinista che intravedeva la possibilità di costruire “il socialismo in un Paese solo”[1]. Sicché, non è errato dire che la politica dell’Internazionale per i Paesi “coloniali” e “semicoloniali”, così come tutta la politica “estera” dell’Urss, era determinata dagli interessi della burocrazia stalinista consistenti nel contenere la Rivoluzione d’ottobre nei suoi confini nazionali, la qual cosa avrebbe reso possibile – secondo la prospettiva burocratica – una situazione favorevole alla sua (della burocrazia) conservazione come casta privilegiata. Sicuramente, l’espansione della rivoluzione in altri Paesi, sia occidentali che orientali, avrebbe prodotto un clima di agitazione politica all’interno dello Stato sovietico poco propizio al consolidamento di un settore sociale che si elevava “al di sopra” della classe lavoratrice, una “escrescenza parassitaria”, come Trotsky la definiva.
Si può dire, dunque, che esisteva una relazione diretta fra l’isolamento della Rivoluzione d’ottobre, che aveva favorito il nascere della burocrazia, e la politica “estera” di quest’ultima, che, attraverso l’Internazionale comunista, manteneva e accentuava quest’isolamento: «La burocrazia sovietica guadagnava fiducia in se stessa via via che la classe operaia internazionale subiva sconfitte più pesanti. Tra questi due fatti, la relazione non è solo cronologica, ma è causale e in due sensi: la direzione burocratica del movimento contribuiva alle sconfitte, le sconfitte rafforzavano la burocrazia»[2]. Operando con una prospettiva materialista, Trotsky analizzò così la rottura della direzione stalinista col principio marxista dell’internazionalismo:
«Abbiamo già detto più di una volta che questa revisione dei valori è stata determinata dalle esigenze sociali della burocrazia sovietica, che, divenendo sempre più conservatrice, si preoccupava sempre più di mantenere un regime nazionale stabile, riteneva che la rivoluzione già compiuta, che le aveva assicurato una condizione privilegiata, fosse sufficiente per la costruzione pacifica del socialismo, ed esigeva la consacrazione di questa tesi. Non ritorneremo qui su questo problema, ma ci limiteremo a sottolineare che la burocrazia è perfettamente consapevole della relazione che esiste tra le sue posizioni materiali e ideologiche e la teoria del socialismo nazionale»[3].
Consapevoli di quali siano le “esigenze sociali” da cui nascevano le elaborazioni staliniste, riteniamo importante sottolineare qui un importante elemento costitutivo, in termini teorici, sia del ragionamento “tappista” dell’Internazionale comunista a proposito della rivoluzione nei Paesi arretrati, sia dell’utopia reazionaria della burocrazia sovietica di edificazione del socialismo “in un Paese solo”: la rottura con la nozione di totalità.
È necessario notare che la convinzione della possibilità del “socialismo in un Paese solo” era, fino alla morte di Lenin, qualcosa che mai era passata neanche per l’anticamera del cervello di nessuno dei quadri dirigenti del Pcus e dell’Internazionale, tanto grande sarebbe stato il grado di allontanamento dalla tradizione del marxismo che questa prospettiva avrebbe rappresentato. Marx ed Engels, eredi della filosofia totalizzante di Hegel, avevano ritenuto il capitalismo proprio come una tappa storica in cui il mondo diventava sempre più integrato: il socialismo, in quanto fase successiva e superiore al capitalismo, non avrebbe potuto dunque limitarsi in nessun modo entro contesti nazionali ormai superati dalle contraddizioni sociali. A sua volta, Lenin vide la guerra mondiale iniziata nel 1914 – prodotto della disputa delle regioni “coloniali” del globo tra le grandi potenze capitaliste – come una manifestazione inequivocabile del fatto che la dinamica della riproduzione ampliata del capitale superava le frontiere nazionali: l’imperialismo diventava un fenomeno mondiale.
In tal modo, il celebre appello all’unità dei “proletari di tutti i Paesi” lanciato da Marx ed Engels alla fine del Manifesto, così come la rottura di dirigenti marxisti come Lenin, Rosa Luxemburg, Liebknecht e Trotsky con la Seconda Internazionale al momento dello scoppio della guerra imperialista[4], affondavano le loro radici non già in una solidarietà di stampo meramente sentimentale verso la classe operaia delle altre nazioni, quanto invece in una solidarietà proletaria derivante da una prospettiva ontologica che assumeva il capitalismo come una totalità. Riteniamo allora che l’internazionalismo politico che ha caratterizzato il marxismo rivoluzionario dai tempi di Marx discendeva innanzitutto da ciò che potremmo definire, riprendendo una categoria coniata da Alvaro Bianchi per definire un aspetto del pensiero di Trotsky, un “internazionalismo metodologico”[5], cioè una prospettiva di analisi del mondo dotata di un forte contenuto totalizzante.
Benché non avesse esplicitamente ripudiato l’internazionalismo, la burocrazia sovietica formulò e difese la possibilità di costruire una società socialista racchiusa nei confini del primo “Stato operaio” della storia. Di fronte a questo fatto, inconcepibile tra i bolscevichi fino alla pubblicazione nel 1924 della bizzarra opera di Stalin intitolata Questioni del leninismo, Trotsky si vide obbligato a recuperare e difendere teoricamente la tradizione internazionalista del marxismo rivoluzionario. In mezzo ad attacchi di ogni genere, l’ex comandante dell’Armata rossa da poco vittoriosa cercò di dimostrare, con testi e dibattiti, come lo stesso Lenin avesse sempre legato la continuità dell’esistenza dell’Unione sovietica alla vittoria della rivoluzione nei Paesi più industrializzati d’Europa, e che il distacco dello stalinismo dalla prospettiva internazionalista «non è meno significativo, per esempio, della rottura della socialdemocrazia tedesca con il marxismo nella questione della guerra e del patriottismo, nell’agosto 1914»[6]. Secondo Trotsky, «“L’errore” di Stalin, come “l’errore” della socialdemocrazia tedesca» altro non è se non «il socialismo nazionale»[7].
Nel momento in cui questo scontro politico, vinto dal “socialismo nazionale” di Stalin, è prossimo a raggiungere il suo centenario, è superfluo ricordare che esso non fu combattuto solo attraverso testi, tesi, congressi e tessere. Impadronitasi dell’apparato statale dell’Unione sovietica, e in particolare della polizia politica, la burocrazia fece ricorso a ogni tipo di espediente, specialmente menzogne e forza bruta, per sconfiggere i suoi compagni di partito. Dato che era espressione sociale dell’antagonismo tra gli interessi storici della classe operaia internazionale e la necessità immediata della burocrazia sovietica di preservare i suoi privilegi sociali, lo scontro politico tra gli stalinisti e i loro intrepidi avversari della sinistra comunista non venne deciso nel campo delle idee, delle argomentazioni e dei dibattiti democratici.
Il tempo del centralismo democratico di Lenin, caratterizzato dalla massima libertà di discussione interna combinata con la disciplinata coesione interna, era ormai alle spalle, e il centralismo burocratico troncò alla radice ogni possibilità di un autentico dibattito teorico, politico e programmatico. La promessa fatta dai bolscevichi vittoriosi del 1917, che mai avrebbero ripetuto la tragedia dei giacobini che si erano ghigliottinati gli uni con gli altri durante la Convenzione, venne rotta dal rude, astuto e truculento segretario generale. La lotta politica fu contaminata dalla capacità opportunista, dalla volgarità teorica, dalla paranoia, dalla perversione, dall’omicidio, dal sadismo e dall’intransigente difesa da parte di Stalin e dei suoi accoliti degli interessi della casta che essi rappresentavano e dirigevano, una casta che ogni giorno si separava e si opponeva del tutto al proletariato e ai contadini poveri del paese.
Mentre Trotsky, Ioffe, Riazanov, Rakovsky e tanti altri rivoluzionari dell’Ottobre discutevano armati di libri, saggi e tesi, Stalin, Ordžonikidze, Jagoda, Berija e altri individui di scarso talento e carattere fecero ricorso a trasferimenti di funzionari di partito, minacce e costrizioni nei confronti di militanti indecisi, licenziamenti di operai dell’Opposizione nelle fabbriche, oltre ad arresti, sequestri di familiari, torture e assassini dei rivoluzionari contrari alla dittatura burocratica che andava consolidandosi. Se Trotsky e i suoi compagni e alleati si misero a cercare nella letteratura marxista, nell’esperienza storica e nelle pratiche combattive dei lavoratori dell’epoca gli elementi per la loro critica politica al “socialismo in un Paese solo” e alle sue disastrose strategie in tutto il mondo, Stalin e i suoi cortigiani preferirono ricorrere a gendarmi, scontri, pestaggi, fucilazioni e altri espedienti impiegati nel tetro Palazzo della Lubjanka (v. foto)[8]. Nei suoi sotterranei, quasi cent’anni fa, la più grande rivoluzione di tutti i tempi cominciava a morire. In questi tempi difficili, i suoi eroi hanno ancora molto da insegnarci, soprattutto quando i loro becchini tornano a volteggiare intorno a noi sotto forma di macabri fantasmi.
Note (tutte le note sono del traduttore)
[1] Sul tema della rivoluzione nei Paesi arretrati pubblicheremo prossimamente un saggio dello stesso Autore.
[2] L. Trotsky, La rivoluzione tradita, A.C. Editoriale, 2000, p. 158.
[3] L. Trotsky, La rivoluzione permanente, Arnoldo Mondadori Editore, 1979, p. 63.
[4] Al riguardo, rinviamo all’articolo pubblicato su questo stesso sito, “Il crollo della Seconda Internazionale”.
[5] A. Bianchi, “O marxismo de León Trotsky: notas para uma reconstrução teórica”, Idéias, n. 14, Campinas, 2007, pp. 62 e ss.
[6] L. Trotsky, op. ult. cit., p. 39.
[7] L. Trotsky, ibidem.
[8] Un detto popolare dell’epoca recitava: «La Lubjanka è l’edificio più alto di Mosca perché puoi vedere la Siberia dai sotterranei».
[*] Felipe Demier, storico, insegna all’Università Federale Fluminense (Uff) e all’Università Statale di Rio de Janeiro (Uerj). Ha scritto diversi libri, tra cui: O Longo Bonapartismo Brasileiro: um ensaio de interpretação histórica (1930–1964), Mauad, 2013; e Depois do Golpe: a dialética da democracia blindada no Brasil, Mauad, 2017.
(Traduzione di Valerio Torre)