Presentiamo ai nostri lettori un interessante saggio teorico sull’evoluzione del pensiero di Karl Marx sullo Stato, nella traiettoria che va dal Manifesto del partito comunista (1848) e La guerra civile in Francia (1871). Attraverso l’esame comparato di queste due opere, gli autori rimarcano le differenze riscontrate nell’elaborazione teorica marxiana riguardo allo Stato borghese e all’atteggiamento che verso di esso devono avere i rivoluzionari.
Divergiamo, peraltro, da alcune delle conclusioni rassegnate nel testo, che però condividiamo nel suo impianto generale relativo allo sviluppo dell’elaborazione marxiana sullo Stato. Proprio per questo, pubblichiamo in calce allo stesso delle nostre brevi osservazioni critiche, che peraltro abbiamo trasmesso ai due autori allo scopo di far loro conoscere le nostre opinioni al riguardo.
Buona lettura.
La redazione
Marx contro lo Stato
Ariel Mayo e Pez López [*]
«Lo strumento politico della … sottomissione [della classe operaia]
non può servire da strumento politico della sua emancipazione»
(K. Marx, Seconda bozza de La guerra civile in Francia)
A mo’ di introduzione
La Comune di Parigi (marzo‑maggio 1871) fu il primo governo operaio della storia. Nonostante la sua breve durata, nonostante le circostanze in cui si sviluppò la sua azione (una città assediata dalle truppe dello Stato francese e obbligata a concentrare la maggior parte dei suoi sforzi nella difesa) e la sconfitta finale, la sua esistenza ha segnato un prima e un dopo nel movimento operaio e, soprattutto, nell’elaborazione della concezione dello Stato e della Rivoluzione da parte di Karl Marx (1818–1883).
Marx sviluppò la sua teoria seguendo le esperienze di lotta e di organizzazione del movimento operaio del XIX secolo. In questo senso, e con una certa esagerazione, va detto che fu la lotta dei lavoratori a dare origine al marxismo, e non il marxismo a provocare le lotte dei lavoratori (la stessa affermazione vale per l’anarchismo e le altre correnti politico‑teoriche del movimento operaio). È necessario sottolinearlo poiché capita frequentemente che gli intellettuali ingigantiscano il proprio impatto sugli accadimenti passati, presenti e futuri. Sicché, molti intellettuali marxisti sostengono con i fatti che le idee (le loro idee) sono la causa degli avvenimenti e che, per questo, i lavoratori debbono subordinarsi alle loro posizioni e proposte, poiché sono gli intellettuali a sapere in che direzione va il mondo.
Tuttavia, il compito dell’intellettuale è molto più importante della caricatura che abbiamo dianzi abbozzato. Benché questo non ne costituisca il tema principale, l’opera La guerra civile in Francia (1871) può essere considerata un esempio pratico di come deve agire l’intellettuale che pretende contribuire alla formazione di un movimento rivoluzionario. Marx estrae dall’esperienza della Comune una nuova prospettiva sulla rivoluzione proletaria e, su questa base, modifica la sua teoria dello Stato. Senza quell’esperienza, senza le approssimazioni, i tentativi e gli errori commessi dai comunardi parigini, quella prospettiva sarebbe stata impossibile.
Il presente lavoro è stato realizzato come promemoria per un seminario sul tema dello Stato in Marx, sviluppato nel quadro di un’organizzazione politica. Pertanto, deve essere considerato in continua costruzione, sicché tutti i contributi sono ben accetti.
La trasformazione della concezione marxista dello Stato
L’opera La guerra civile in Francia segna un cambiamento fondamentale nella concezione marxista dello Stato, che può essere apprezzato a partire dalla comparazione con il Manifesto Comunista (1848), in cui Marx e Friedrich Engels (1820‑1895) affermavano:
«Lo scopo immediato dei comunisti è quello stesso degli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato» (Marx ed Engels, 1986, p. 52)[1].
La classe lavoratrice deve, dunque, conquistare l’apparato statale per iniziare la costruzione delle basi di una società socialista:
«Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive» (Marx ed Engels, 1986, p. 62).
Marx ed Engels concepiscono lo Stato come uno strumento che può servire sia al dominio della borghesia che al dominio della classe lavoratrice. Benché segnalino che quest’apparato statale è andato formandosi sin dalle sue origini come meccanismo di oppressione di classe, non pongono questo tema al centro dell’analisi[2]. Il carattere di classe dello Stato è dato dalla classe che ne detiene il controllo, e non si riflette né nella struttura statale, né nel tipo di rapporti sociali che si sviluppano al suo interno. In questo senso, e a dispetto della concezione classista dello Stato elaborata nel Manifesto comunista, quando si fa riferimento al processo rivoluzionario l’apparato statale è caratterizzato come uno strumento neutrale, che può essere preso e utilizzato indistintamente da qualunque classe sociale per i suoi propri fini.
Nel Manifesto la funzione dello Stato dopo la rivoluzione socialista consiste nell’accelerare lo sviluppo delle forze produttive mediante la centralizzazione della proprietà dei mezzi di produzione. Il socialismo è pensato come il risultato dello sviluppo dell’economia, dedicando poca o nessuna attenzione agli aspetti politici dello stesso. Tuttavia, la costruzione del socialismo è impossibile senza lo sviluppo dell’autonomia di ciascun individuo, della partecipazione effettiva di tutti al governo della comunità.
Marx ed Engels affermano che lo sviluppo delle forze produttive finirà per abolire le differenze di classe, e, una volta che ciò si sia verificato, lo Stato cesserà di esistere:
«Quando, nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni d’esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il proprio dominio di classe» (Marx ed Engels, 1986, p. 63. L’evidenziazione è nostra).
La definizione dello Stato come “violenza organizzata” per l’oppressione di classe non si riflette nella concezione della rivoluzione proletaria. Marx ed Engels sembrano pensare che è la classe lavoratrice nel suo insieme quella che prenderà il potere statale e comincerà la costruzione del socialismo; quindi, questa “violenza organizzata” è diretta soltanto contro la resistenza della borghesia.
Ma subito dopo aver riflettuto sulla questione, sorgono due difficoltà: a) un apparato che si definisce come “violenza organizzata” per l’oppressione di classe non perde il suo carattere oppressore a causa del cambiamento della classe che lo controlla; b) la classe lavoratrice non prende il potere, ma lo fanno un partito o un movimento, che sono tutt’al più una parte di essa o un insieme di individui che si identificano con la causa del socialismo. Se lo Stato conserva le caratteristiche sopra descritte, non esiste alcuna garanzia che la “violenza organizzata” non si rivolti contro la stessa classe lavoratrice.
La Comune di Parigi modificò drasticamente la concezione marxista dello Stato.
Perché? Innanzitutto, perché la Comune si scontrò con i problemi concreti della presa del potere. Nelle rivoluzioni del 1848, la classe lavoratrice era ben lungi dal porsi nella pratica questi problemi. Nel 1871 essa prese nelle proprie mani il potere statale e dovette risolvere cosa farsene. L’organizzazione politica faticosamente costruita da parte della Comune esigeva una riformulazione delle precedenti idee sulla conquista dello Stato.
Marx, che già era stato coinvolto nella politica pratica della classe lavoratrice a causa del suo ruolo nel Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Ail), intraprese il compito in precedenza ricordato.
L’opera La guerra civile in Francia è il titolo abbreviato del manifesto dell’Ail sugli avvenimenti accaduti nella capitale francese. Fu redatto da Marx e approvato il 30 maggio 1871 nella sessione del Consiglio Generale dell’Ail. Si tratta, dunque, di un testo scritto nel vivo degli eventi. Marx dedicò la terza sezione de La guerra civile in Francia per riformulare la sua teoria dello Stato e della Rivoluzione basandosi sull’esperienza dei comunardi parigini.
Marx inizia citando il Manifesto del Comitato centrale della Comune, redatto il 18 marzo 1871, dove si legge:
«I proletari di Parigi […] in mezzo alle disfatte e ai tradimenti delle classi dominanti hanno compreso che è suonata l’ora in cui essi debbono salvare la situazione prendendo nelle loro mani la direzione dei pubblici affari … Essi hanno compreso che è loro imperioso dovere e loro diritto assoluto di rendersi padroni dei loro propri destini, impossessandosi del potere governativo» (Marx, K., 1985, p. 32).
Fino a questo punto, il discorso dei comunardi coincide con quanto detto sullo Stato nel Manifesto comunista[3]. Tuttavia, l’azione della Comune era andata ben al di là di quanto indicato nel Manifesto. L’esercito, la polizia e i tribunali erano stati soppressi e rimpiazzati dall’organizzazione attiva del popolo. Erano i lavoratori (il popolo di Parigi nel suo insieme) ad assumersi i compiti militari e di polizia. Tali compiti non ricaddero più su un gruppo specifico di persone, separato dal resto della società.
Marx prende nota di quanto sopra e osserva:
«Ma la classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla macchina dello Stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini» (Marx, K., 1985, p. 32)[4].
Con questa breve frase, Marx modifica la sua concezione dello Stato e della Rivoluzione; e, senza saperlo, mette in discussione l’esperienza delle rivoluzioni socialiste del XX secolo. Nella seconda bozza de La guerra civile in Francia si trova il seguente passaggio:
«Lo strumento politico della sua [cioè, della classe operaia: Ndt] sottomissione non può servire da strumento politico della sua emancipazione» (Citato in Rubee e Janover, 2010, p. 61. Il grassetto è nostro).
La Rivoluzione non può semplicemente consistere nella conquista del potere statale. Fare questo significare mantenere intatto l’apparato repressivo forgiato dalla borghesia, e ciò impedisce lo sviluppo di forme democratiche di autogoverno della classe operaia. Mentre nel Manifesto comunista il centro dell’attenzione è focalizzato nello sviluppo delle forze produttive, ne La Guerra civile in Francia si verifica uno spostamento verso l’eliminazione dell’apparato repressivo e la formazione di un nuovo potere che possa servire effettivamente da strumento di liberazione. A nostro giudizio, questo spostamento è fondamentale.
Il fallimento delle esperienze socialiste del XX secolo è, tra l’altro, il fallimento di una determinata concezione dello Stato e, più specificamente, del ruolo dell’apparato statale nel processo rivoluzionario. Per il socialismo del XX secolo lo Stato è la soluzione per tutti i problemi, e il socialismo è concepito come proprietà statale dei mezzi di produzione. Secondo questa concezione, bastava eliminare la cricca borghese che deteneva il potere statale e rimpiazzarla con i membri del partito. Una volta portato a termine questo compito, occorreva sviluppare le forze produttive nel quadro di un ferreo controllo statale. Statalismo e produttivismo, ecco le due gambe del socialismo modello XX secolo. La centralizzazione dell’apparato statale, la concentrazione dell’assunzione di decisioni in una cerchia ristretta di alti funzionari, erano l’opposto del coinvolgimento della classe operaia e dei settori popolari negli affari politici. Lo statalismo era (è) nemico della democrazia.
La preoccupazione per l’eliminazione dell’apparato repressivo fa la sua comparsa nel periodo di redazione de La guerra civile in Francia. Così, in una lettera a Kugelmann del 12 aprile 1871, Marx scrive:
«Se rileggi l’ultimo capitolo del mio 18 Brumaio, vedrai che, parlando del prossimo tentativo della rivoluzione francese, sostengo che non si tratterà più di trasferire l’apparato burocratico‑militare da una mano all’altra, com’è accaduto finora, ma di spezzarlo, e questa è la condizione essenziale di ogni rivoluzione autenticamente popolare nel continente. Ed è ciò che stanno facendo i nostri eroici compagni di partito a Parigi» (citato in Rubel e Janover, 2010, p. 60)[5].
Lo studio dello sviluppo storico dello Stato moderno dimostra la sua crescente capacità di esercitare il controllo sull’insieme della società. Marx distingue tre tappe nell’evoluzione del potere statale[6]: a) lo Stato come arma della società borghese per lottare contro il feudalesimo; b) come “potere nazionale del capitale sul lavoro”; c) come potere su tutte le classi sociali (bonapartismo).
L’apparato repressivo è la manifestazione più visibile di questa tendenza. Marx accentua in ogni momento il carattere dello Stato come strumento della dominazione di classe:
«A misura che il progresso dell’industria moderna sviluppava, allargava, accentuava l’antagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, il potere dello Stato assumeva sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe. Dopo ogni rivoluzione che segnava un passo avanti nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato risultava in modo sempre più evidente» (Marx, K., 1985, pp. 33‑34).
Quest’apparato si perfeziona incessantemente, indipendentemente dalla classe o frazione di classe che lo controlla. Marx ripete qui l’argomento sviluppato nel 18 Brumaio, in cui segnalò la crescita della capacità di dominazione e controllo dello Stato. L’attenzione posta sugli aspetti repressivi dello Stato contrasta con la scarsa o nulla importanza concessa alla produzione e diffusione dell’egemonia statale e dell’ideologia dominante[7].
Quest’apparato repressivo venne utilizzato dalle monarchie assolute per limitare i signori feudali durante il periodo della nascita dello Stato moderno. In tal modo venne ridotto il frazionamento politico proprio dell’epoca feudale, in cui il territorio di un Paese si trovava diviso fra molto signori feudali, ciascuno dei quali governava le proprie terre come se fossero un piccolo Stato. In seguito, le rivoluzioni borghesi (di cui quella francese del 1789 è la più famosa) soppressero il feudalesimo e lo Stato passò sotto il controllo della borghesia (la storia francese del XIX secolo mostra che il consolidamento di questo controllo fu un compito abbastanza faticoso). Questo momento coincide con l’ascesa del movimento operaio, che crebbe in un quadro di illegalità e di dura lotta contro il potere statale. Da ciò deriva l’accento posto sul carattere “puramente repressivo” dello Stato.
Ma è anche vero che la borghesia francese non poté stabilizzare la propria dominazione politica lungo il XIX secolo. La storia politica della Francia di tutto quel periodo ne rappresenta una lampante dimostrazione: si passò di seguito dall’Impero napoleonico alla Restaurazione borbonica, alla Repubblica, al colpo di Stato e all’Impero di Luigi Bonaparte, ecc. Tutti questi cambiamenti danno il segno di una grande debolezza politica della borghesia. Benché questi continui cambiamenti non possano ridursi a fattori economici (è necessario studiare la storia del periodo per comprendere quali erano le forme adottate da questa debolezza in ogni congiuntura), essi denotano una difficoltà persistente nella costruzione di egemonia, la quale può essere messa in relazione con lo scarso (in termini relativi) sviluppo del capitalismo, che impediva di realizzare concessioni materiali alla classe lavoratrice e che, pertanto, si concentrava nella repressione delle sue azioni di lotta.
Conclusione. Riprendere e sviluppare la prospettiva antistatalista di Marx
La prospettiva adottata da Marx contrasta con le idee sul ruolo dello Stato dei progressisti, i quali tendono a considerare l’espansione delle funzioni statali come un fattore in per sé positivo. Marx non solo dice che lo Stato è un organo repressivo di oppressione della classe, ma anche che può trasformarsi in un parassita dell’insieme della società.
Ma la sua posizione antistatalista, forgiata nel vivo dell’esperienza degli operai parigini, è anche ben diversa da quella dei socialismi del XX secolo, che hanno fatto del culto dello Stato una vera religione laica. È vero che una generalizzazione così ampia può risultare erronea nei dettagli, ma il quadro d’insieme è esatto: i socialismi del XX secolo, nelle loro diverse varianti (bolscevica, stalinista, trotskista, guevarista, ecc.), si sono caratterizzati per fare dello Stato la panacea di tutti i problemi.
Lo Stato è stato concepito come uno strumento che serviva per: a) schiacciare la controrivoluzione e difendere la “Patria socialista” contro le minacce delle potenze capitaliste; b) promuovere lo sviluppo accelerato delle forze produttive mediante la centralizzazione e la pianificazione. Può affermarsi che le differenti espressioni socialiste del XX secolo hanno aderito al punto di vista di Marx ed Engels espresso nel Manifesto comunista. Non hanno invece tenuto in conto la revisione della questione dello Stato e della Rivoluzione realizzata ne La guerra civile in Francia e continuata in altri testi del decennio del 1870, come la già citata Critica del Programma di Gotha[8].
Marx segnalò espressamente l’importanza del cambio di prospettiva rispetto allo Stato nella prefazione all’edizione tedesca del 1872 del Manifesto comunista, in cui indicò quali aspetti del testo erano diventati obsoleti e menzionò espressamente il tema dello Stato:
«Di fronte all’immenso sviluppo della grande industria negli ultimi venticinque anni e al progrediente sviluppo dell’organizzazione di partito della classe operaia, che l’accompagna; di fronte alle esperienze pratiche, prima della rivoluzione di febbraio e poi, a maggior ragione, della Comune di Parigi, nella quale, per la prima volta, il proletariato tenne per due mesi il potere politico, questo programma è oggi qua e là invecchiato. La Comune, specialmente, ha fornito la prova che “la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i propri fini”» (Marx ed Engels, 1985, p. 8).
La prospettiva antistatalista di Marx è nota nei testi del decennio del 1870. E lo è pure l’accento posto sull’autogoverno della classe lavoratrice. Dal punto di vista politico (e questo è l’interesse centrale degli autori di questo saggio), i testi del periodo indicato contribuiscono ad elaborare nuove risposte alla crisi attuale del socialismo. Marx non offre le soluzioni. La realtà che egli esamina nei suoi scritti appartiene al passato e sarebbe sciocco cercarvi la soluzione magica ai nostri problemi. E tuttavia, può insegnarci un modo diverso di vedere le cose, lontano dalla corrente dominante all’interno della sinistra nel XX secolo.
Come dimostra il caso de La guerra civile in Francia, l’elaborazione di risposte politiche alla crisi del socialismo va di pari passo con la partecipazione e l’analisi delle diverse esperienze di lotta della classe operaia e dei settori popolari. Se si vuole fare una rivoluzione, è necessario sviluppare un modo rivoluzionario di pensare la realtà. Rivoluzionario perché, innanzitutto, implica il riconoscimento che nessuna tradizione può risolvere i problemi politici attuali.
In definitiva, essere rivoluzionario implica anche rompere con le tradizioni rivoluzionarie. Per dirla in termini più semplici, la rivoluzione è il futuro. La tradizione è il passato. È da molto tempo che la sinistra, sia a livello internazionale che locale, vive del e nel passato. Contro questo modo di pensare dobbiamo lottare sempre e senza sosta.
Parque Avellaneda, 24 gennaio 2020.
Marginali osservazioni critiche
(Collettivo Assalto al cielo)
Abbiamo deciso di tradurre e pubblicare il saggio di Ariel Mayo e Pez López, di cui abbiamo apprezzato il rigore nell’esegesi dello sviluppo del pensiero marxiano rispetto alla concezione dello Stato: il passaggio dalla riflessione espressa nel Manifesto del partito comunista a quella esposta ne La guerra civile in Francia appare fondamentale soprattutto oggi.
Infatti, se da una parte è assolutamente vero che la democrazia borghese costituisce un sistema migliore per l’organizzazione, la propaganda, l’agitazione e l’azione dei marxisti rivoluzionari, rispetto a un sistema dittatoriale, in cui non c’è alternativa al lavoro politico clandestino, è altrettanto vero che la legalità borghese rappresenta al contempo un sottile veleno che si infiltra nelle file delle organizzazioni anticapitaliste determinando un adattamento routinario che ne affievolisce la visione antistatalista. Al di là, ovviamente, del caso dei partiti della sinistra riformista – nelle cui corde non rientra affatto la necessità dell’abbattimento delle istituzioni dello Stato borghese – a volte capita di osservare il paradosso persino di militanti rivoluzionari che manifestano un più o meno accentuato affidamento in quelle istituzioni.
Abbiamo perciò ritenuto utile, attraverso la presentazione di questo saggio, avanzare la necessità di riprendere una necessaria riflessione sul rapporto dei rivoluzionari verso lo Stato borghese. E ciò a dispetto delle differenze che nutriamo riguardo alle conclusioni avanzate dagli autori, nella parte in cui essi sostengono che tutte le varianti del socialismo del XX secolo (bolscevica, stalinista, trotskista, guevarista, ecc.) si sarebbero caratterizzate per “aver fatto del culto dello Stato una vera religione laica”, ritenendo lo Stato la panacea di tutti i problemi.
Ora, a nostro avviso quest’opinione è senz’altro vera per lo stalinismo e, in qualche misura, per il guevarismo, atteso il corso particolare della Rivoluzione cubana (su cui rimandiamo all’articolo “Cuba: dalla rivoluzione alla restaurazione”, pubblicato su questo stesso sito). Non lo è invece per il bolscevismo e per il trotskismo, considerando che molti testi di Lenin (tra cui citiamo a mo’ d’esempio Stato e rivoluzione) e di Trotsky (La rivoluzione tradita, tra i tanti) evidenziano come essi avessero abbracciato completamente la prospettiva di Marx a proposito dello Stato esposta nello scritto La guerra civile in Francia, ed erano ben lungi dall’essere interpreti di un preteso “culto dello Stato”. D’altronde, non si può tralasciare di tenere presenti i gravi problemi che la giovane Rivoluzione russa si trovò a dover affrontare dopo la presa del potere, quando iniziò la costruzione di un’economia di transizione al socialismo, dato che il semplice fatto di aver messo mano a un’architettura giuridico‑istituzionale non capitalista non significava di per sé solo la trasformazione illico et immediate di un sistema economico di uno Stato capitalista in un’economia socialista. Né si può dimenticare che lo stesso Marx evidenziava – nella Critica del programma di Gotha – che nel primo periodo di esistenza di uno Stato operaio le norme borghesi di distribuzione vengono mantenute. Così come va sottolineato che Lenin, ancora nel 1918, sosteneva che l’economia della Russia rivoluzionaria non era giunta neanche al livello di “capitalismo di Stato”.
Lenin e Trotsky avevano tanto ben compreso l’evoluzione del pensiero marxiano nel passaggio dal Manifesto a La guerra civile da averlo dimostrato in diverse loro opere: basti pensare, tanto per fare solo qualche esempio, alle “Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato” che Lenin espose al Primo Congresso dell’Internazionale comunista (in Opere, Edizioni Lotta comunista, 2002, vol. 28, pp. 457 e ss.); o, tra gli altri scritti di Trotsky, a Terrorismo e comunismo (Sugarco edizioni, 1977, pp. 111 e ss.), oppure a “La lezione della Comune”.
Tuttavia, l’aver sottolineato queste divergenze non inficia minimamente la validità dell’impianto generale dello studio sull’evoluzione della concezione marxiana dello Stato, ad opera di Mayo e López, dei quali occorre valorizzare l’invito a «riprendere e sviluppare la prospettiva antistatalista di Marx».
Ai due autori, in ogni caso, va il nostro ringraziamento per averci concesso la possibilità di pubblicare in italiano il loro lavoro.
Note
[1] Più avanti essi tornano a ripetere la stessa affermazione: «Abbiamo già visto sopra come il primo passo nella rivoluzione operaia sia l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia» (Marx e Engels, 1986, p. 62).
[2] Marx e Engels indicano un po’ più avanti (citazione che riprendiamo anche nel testo) che «il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra» (Marx e Engels, 1986, p. 63). Quest’affermazione è in linea con la concezione che attraversa l’intero Manifesto e che sembra espressa nella famosa frase per cui «la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi» (Marx e Engels, 1986, p. 34). Lo Stato gioca un ruolo fondamentale in questa lotta, poiché difende il dominio della classe dominante in ogni società determinata.
[3] Non è necessario al riguardo affinare l’interpretazione per capire che il Comitato centrale della Comune condivideva le idee del Manifesto. Se c’era qualcosa che caratterizzò la Comune fu la sua eterogeneità ideologica: in essa erano rappresentate le diverse correnti del movimento operaio francese.
[4] Nelle bozze de La Guerra civile in Francia è ancora più enfatico: «Ma il proletariato non può, come hanno fatto le classi dominanti e le sue diverse frazioni rivali immediatamente dopo il loro trionfo, prendere semplicemente possesso del corpo statale esistente e far funzionare quest’apparato per i suoi propri fini. La prima condizione per conservare il potere politico è trasformare il meccanismo in atto e distruggerlo in quanto strumento di dominazione di classe» (Citato in Rubel e Janover, 2010, p. 61. Il grassetto è nostro. Il passaggio citato si trova nella seconda bozza). Da parte sua, Engels, nell’Introduzione all’edizione tedesca de La guerra civile in Francia (1891), scrisse: «La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al potere, non può continuare ad amministrare con la vecchia macchina statale; che la classe operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare tutto il vecchio macchinario repressivo già sfruttato contro di essa, e d’altra parte deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli revocabili senza alcuna eccezione e in ogni momento. In che cosa era consistita fino ad allora la proprietà caratteristica dello Stato? La società, per la tutela dei propri interessi comuni, si era provveduta di organi propri, all’origine mediante una semplice divisione del lavoro; ma col tempo questi organi, con in cima il potere dello Stato, si sono trasformati da servitori della società in padroni della medesima, al servizio dei propri interessi particolari» (p. 92). Non entreremo nella disamina del significato, molto equivoco, della frase «La società, per la tutela dei propri interessi comuni, si era provveduta di organi propri». Ma tutta la prima parte del paragrafo coincide col punto di vista di Marx ne La guerra civile.
[5] Il paragrafo del 18 Brumaio cui Marx si riferisce è il seguente: «Questo potere esecutivo, con la sua enorme organizzazione burocratica e militare, col suo meccanismo statale complicato e artificiale, con un esercito di impiegati di mezzo milione accanto a un altro esercito di mezzo milione di soldati, questo spaventoso corpo parassitario che avvolge come un involucro il corpo della società francese e ne ostruisce tutti i pori, si costituì nel periodo della monarchia assoluta, al cadere del sistema feudale, la cui caduta aiutò a rendere più rapida. I privilegi signorili della proprietà fondiaria e delle città si trasformarono in altrettanti attributi del potere dello Stato, i dignitari feudali si trasformarono in funzionari stipendiati, e la variopinta collezione di contraddittori diritti sovrani medioevali divenne il piano ben regolato di un potere dello Stato, il cui lavoro è suddiviso e centralizzato come in un’officina. La prima rivoluzione francese, a cui si poneva il compito di spezzare tutti i poteri indipendenti di carattere locale, territoriale, cittadino e provinciale, al fine di creare l’unità borghese della nazione, dovette necessariamente sviluppare ciò che la monarchia assoluta aveva incominciato: l’accentramento; e in pari tempo dovette sviluppare l’ampiezza, gli attributi e gli strumenti del potere governativo. Napoleone portò alla perfezione questo meccanismo dello Stato. La monarchia legittima e la monarchia di luglio non vi aggiunsero nulla, eccetto una più grande divisione del lavoro, che si sviluppava nella stessa misura in cui la divisione del lavoro nell’interno della società borghese creava nuovi gruppi di interessi, e quindi nuovo materiale per l’amministrazione dello Stato. Ogni interesse comune fu subito staccato dalla società, e contrapposto ad essa come interesse generale […], strappato all’iniziativa individuale dei membri della società e trasformato in oggetto di attività del governo, a partire dai ponti, dagli edifici scolastici e dai beni comunali del più piccolo villaggio, sino alle ferrovie, al patrimonio nazionale e all’Università di Francia. La repubblica parlamentare, infine, si vede costretta a rafforzare, nella sua lotta contro la rivoluzione, assieme alle misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla. I partiti che successivamente lottarono per il potere considerarono il possesso di questo enorme edificio dello Stato come il bottino principale del vincitore» (Marx, 1975, pp. 131‑132). In sintesi, lo sviluppo del potere statale non è altro che l’incremento della sua capacità di controllare la società. Come accade in tutti i testi che citiamo in questo articolo, Marx pone in evidenza l’aspetto repressivo della macchina statale, senza esaminare i meccanismi ideologici che servono, sia per la vigilanza che per la dominazione.
[6] Marx si riferisce al «potere statale centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura – organi prodotti secondo il piano di una divisione del lavoro sistematica e gerarchica» (Marx, K., 1985, p. 33).
[7] Marx ed Engels si occuparono dell’ideologia in un testo giovanile, pubblicato molto tempo dopo la loro morte e che si intitola proprio L’ideologia tedesca. In quel lavoro l’ideologia è concepita come una “falsa coscienza” e gli autori posero l’accento sul ruolo degli intellettuali e della stampa nella creazione e diffusione di quest’ideologia. «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone, con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio» (Marx ed Engels, 1985, pp. 50‑51).
[8] Dedicheremo un lavoro successivo all’esame dei contributi alla teoria dello Stato che si trovano nella Critica del Programma di Gotha.
Nota bibliografica:
Nella redazione di questa nota sono state utilizzate le seguenti edizioni:
Marx, K. (1975), Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Buenos Aires, Anteo.
Marx, K. (1985). Manifesto del Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori sulla guerra civile in Francia nel 1871. Incluso in: Marx, K.; Engels, F.; Lenin, V.I., (1985). La comune di Parigi, Madrid, Akal, pp. 7‑76.
Marx, K. e Engels, F. (1985), L’ideologia tedesca, Buenos Aires, Pueblos Unidos y Cartago.
Marx, K. e Engels, F. (1986), Manifesto del partito comunista, Buenos Aires, Anteo.
Rubel, M. e Janover, L. (2010). Marx anarchico, Buenos Aires, Madreselva.
[*] Ariel Mayo, studioso marxista, insegna all’Università Nazionale di San Martín (Unsam) e all’Istituto Superiore di Formazione Docente “Dr. Joaquín V. González”.
Pez López è studentessa di Filosofia. Militante marxista e femminista, è dedita alla costruzione di organizzazioni socialiste non dogmatiche.
Entrambi vivono in Argentina.
(Traduzione di Andrea Di Benedetto ed Ernesto Russo)