Non si può certo dire che il 2019 sia stato un anno tranquillo per il capitalismo mondiale. La crisi economica in cui il sistema si dibatte da un decennio, oscillando fra stagnazione e crescita debole, non ha ancora trovato una soluzione. Le misure finanziarie architettate da governi e Banche centrali hanno in qualche modo tamponato la caduta tendenziale del saggio di profitto, producendo però l’effetto di acuire le tensioni e le contraddizioni sociali con un ulteriore allargamento della forbice fra uno strato sempre più ricco e ristretto di popolazione, che concentra su di sé fette crescenti del reddito globale, e una massa sempre più povera che tende ad aumentare a dismisura.
La conseguenza di questo processo combinato è quanto sta accadendo pressoché ad ogni angolo del pianeta, con sollevazioni e proteste di massa – in alcuni casi dal carattere semi-insurrezionale – cui i governi borghesi rispondono con sempre maggiore repressione.
Contraddittoriamente, è cresciuta in tutto il 2019 l’influenza di forze reazionarie, fondamentaliste, nazionaliste e conservatrici, che hanno fatto presa in ampi settori delle classi lavoratrici.
Facciamo il punto della situazione presentando l’analisi svolta su questi fenomeni combinati dallo studioso marxista Rolando Astarita.
Buona lettura.
La Redazione
Ondata di manifestazioni e sollevazioni sempre più globali
Rolando Astarita [*]
(14 dicembre 2019)
Nell’anno che sta finendo abbiamo assistito a un’ondata di manifestazioni, sollevazioni e proteste a livello mondiale. In questa nota esaminiamo i casi più rilevanti e avanziamo alcune conclusioni.
I punti più importanti nel 2019
Ci sono state manifestazioni in Algeria, a partire da febbraio, contro Abdelaziz Bouteflika, che ha dovuto infine dimettersi. Bouteflika era al potere dal 1999. L’élite militare, che in realtà governa il Paese, ha promesso elezioni, ma ha consentito la presentazione soltanto di cinque candidati che sono più vicini a Bouteflika. L’opposizione ha fatto appello al boicottaggio delle elezioni. Migliaia di persone sono nuovamente scese in piazza a protestare con la parola d’ordine “non voterò contro il mio Paese”.
Proteste in Sudan a partire dalla decisione del governo dittatoriale di Omar al Bashir di triplicare il prezzo del pane, in un Paese strangolato dalla crisi economica. Per calmare la popolazione, l’esercito ha destituito al Bashir, che era al potere dal 1993, ma la mobilitazione è continuata. Per settimane, le masse si sono accampate di fronte al Ministero della Difesa rivendicando la formazione di un Consiglio di Transizione che mettesse nelle mani dei civili il controllo del governo. Il 3 giugno l’esercito ha scatenato la repressione provocando un massacro. Secondo l’opposizione, ci sono stati 113 morti (ufficialmente se ne sono riconosciuti 61) e 326 feriti. Ci saranno elezioni solo fra tre anni e sotto lo stretto controllo dei militari.
A giugno, a Bassora, in Iraq, sono scoppiate proteste – ma ve ne erano state anche a metà del 2018 – contro la corruzione, la disoccupazione, i pessimi servizi pubblici e l’intervento militare straniero nel paese. Ad ottobre le manifestazioni si sono ampliate e generalizzate. Sono state represse con un saldo di almeno 420 morti. Il primo ministro, Abdul Mahdi ha dovuto dimettersi. Una delle rivendicazioni fondamentali è la fine del sistema politico esistito dall’invasione degli Stati Uniti nel 2003.
A giugno, a Hong Kong sono scoppiate proteste e manifestazioni contro la possibilità di estradare oppositori in Cina. Il principale timore è che si indebolisca l’indipendenza del Paese (nel 2047 terminerà lo status speciale di Hong Kong). Un’altra preoccupazione è che si mettano in pericolo i dissidenti. Molti giovani sono alla testa delle manifestazioni. A settembre il governo ha ritirato la proposta, ma le proteste stanno continuando. Fra le altre rivendicazioni c’è l’amnistia per i detenuti nelle manifestazioni e il suffragio completamente libero. A novembre si sono svolte elezioni che hanno visto una vittoria schiacciante degli oppositori.
A settembre si è verificata in Egitto un’ondata di proteste contro il presidente al Sisi, al potere dal golpe militare del 2013. Appena insediatosi, il regime ha proibito le proteste e sono state arrestate migliaia di oppositori. I manifestanti hanno denunciato la corruzione di al Sisi e dei suoi familiari puntando alla caduta del regime. Secondo Human Rights Watch, «le forze di sicurezza hanno reiteratamente fatto ricorso a una brutale repressione per schiacciare proteste pacifiche». Il contesto economico e sociale delle manifestazioni è la povertà e la mancanza di prospettive per i giovani. La percentuale di egiziani che nel 2018 vivevano nella povertà estrema (con 1,3 dollari al giorno) era del 32,5%, contro il 27,8% del 2015. Il governo di al Sisi ha applicato misure di austerità (svalutazione della moneta, tagli del 40% ai sussidi per combustibili e trasporti) per potere adempiere agli impegni presi con il Fmi.
A ottobre ci sono state manifestazioni in Libano che hanno paralizzato il Paese e indotto il primo ministro Saad al Hairiri a dimettersi. La scintilla è stata l’introduzione di tasse sul tabacco, sulle chiamate via WhatsApp e sul combustibile. “Abbasso il governo delle banche!” è stata una delle parole d’ordine, oltre a rivendicazioni per miglioramenti nell’istruzione e nei servizi.
Il 15 novembre scorso sono scoppiate proteste in Iran, quando il governo ha annunciato l’aumento del prezzo della benzina. La maggioranza dei manifestanti è composta da giovani che hanno basse entrate o sono disoccupati. La protesta è stata anche attraversata da rivendicazioni di libertà e di giustizia per le donne, oltre che di miglioramenti delle condizioni di vita. Vi sono state espressioni di solidarietà con le rivolte e i movimenti del Libano, dell’Iraq, del Cile e di Hong Kong. Anche in questo caso vi è stata una forte repressione. Secondo Amnesty International, e sulla base di stime prudenti, sono morte in una settimana 280 persone per mano delle forze di sicurezza.
Tra gennaio e febbraio ci sono state massicce manifestazioni in Venezuela contro il governo Maduro. Le rivendicazioni: libertà, libere elezioni e proteste per la situazione economica. Il regime ha risposto con una forte repressione. L’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’Onu ha informato che alla fine di gennaio si contavano 850 arresti e 40 morti. L’Osservatorio venezuelano di conflittualità sociale ha considerato 51 morti fino ad aprile. Alla repressione contro le manifestazioni se ne deve aggiungere un’altra, più sistematica e occulta, condotta dalle Faes (Forze di Azione Speciale della polizia bolivariana), che esercitano una violenza sistematica nei quartieri popolari. Secondo il rapporto Bachelet dell’Onu, solo nel 2018 circa 5300 persone sono morte «dopo avere opposto resistenza alle autorità». La Ong Osservatorio Venezuelano sulla Violenza ha elevato la cifra a 7500 morti. Milioni di venezuelani hanno abbandonato il Paese.
A Porto Rico, a luglio e dopo quasi due settimane di massicce mobilitazioni, si è dimesso il governatore Ricardo Rosselló. Le manifestazioni sono iniziate quando sono filtrate conversazioni sui social in cui Rosselló esprimeva volgari attacchi alle donne e alle comunità Lgbt. Ma, a parte questo, la situazione economica è molto grave e la popolazione soffre pesanti carenze di servizi essenziali. Il governo statunitense e la Giunta di Controllo Fiscale (imposta dagli Usa) vogliono applicare un piano di aggiustamento strutturale con diminuzione delle pensioni e pagamento del debito estero.
Ad Haiti, a metà dell’anno sono scoppiate manifestazioni e c’è stato uno sciopero generale contro il piano di austerità concordato fra il presidente Jovenel Moise e il Fmi. Le mobilitazioni sono durate per molte settimane, tanto che a fine novembre se ne contavano circa 300. La repressione è stata brutale. Secondo l’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’Onu, a fine ottobre si registravano 76 morti e 98 feriti. Haiti è uno dei Paesi più poveri del mondo. Per citare un solo dato: il 22% dei bambini è colpito da denutrizione cronica.
Agli inizi di ottobre in Equador ci sono stati scioperi, blocchi stradali e mobilitazioni di massa contr misure di aggiustamento (tra le quali la soppressione dei sussidi per la benzina) annunciate dal governo di Lenín Moreno. Il governo ha poi dovuto fare marcia indietro rispetto ai sussidi.
In Cile sono esplose proteste agli inizi di ottobre contro l’aumento dei prezzi della metropolitana. Ma si trattava solo della punta dell’iceberg. Le questioni di fondo riguardano l’alta disuguaglianza sociale, i bassi salari, l’elevato costo dei servizi e dell’istruzione, la crisi nel sistema della sanità pubblica, le basse pensioni, gli alti livelli di indebitamento delle famiglie. Oltre alle manifestazioni, c’è stato uno sciopero nazionale promosso dal Tavolo di Unità Sociale, composta da organizzazioni sindacali, dei diritti umani, da ambientalisti e da popoli indigeni. Anche qui, la repressione è stata brutale: si contano 26 morti, 4900 feriti di cui circa 350 con ferite oculari e al volto, 20.000 arrestati, abusi, torture e violenze sessuali contro persone detenute. L’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu ha confermato le denunce per violazioni dei diritti umani.
In Colombia, c’è stato uno sciopero generale e una protesta di massa il 21 novembre contro il governo Duque e il suo “pacchetto” di misure di austerità: riforma del sistema pensionistico, riduzione del salario giovanile fino al 75% di quello minimo; riforma del lavoro. Oltre a ciò, le rivendicazioni riguardavano maggiori investimenti nell’istruzione e lo stop agli assassini di dirigenti sindacali e indigeni.
In Francia sono ancora in atto manifestazioni e lo sciopero generale contro la riforma delle pensioni voluta da Macron.
Ancora una volta: “è il capitalismo, stupido”
Benché il movimento operaio nei Paesi centrali non si sia mobilitato – con l’eccezione, naturalmente, della Francia – l’ondata ha un impatto mondiale. La debole crescita economica successiva alla crisi finanziaria del 2008‑2009 sembra essere alla base dei programmi di aggiustamento contro cui si sollevano i movimenti di massa. Ovviamente, non si tratta del carattere particolare di qualche frazione del capitale, quanto della sua unità in quanto “capitale in generale”. L’importante è ristabilire le condizioni propizie per l’estrazione di pluslavoro e per l’accumulazione. Intorno a questo c’è una solidarietà che va al di là delle frontiere nazionali.
Quest’unità del capitale ha la sua contropartita nell’unità internazionale, oggettiva, dei lavoratori, occupati e disoccupati. La lotta delle masse in Cile, Colombia, Venezuela, Hong Kong, Egitto o Iraq obbedisce alla stessa ragione di fondo. Perciò si vedono espressioni di solidarietà nelle manifestazioni di un Paese con i manifestanti di un altro Paese. Il fatto è che la frustrazione di un giovane cileno che non trova lavoro, o che è obbligato ad accettare un lavoro precario, mal pagato e alienante, non è molto diversa da quella che sente un altro giovane di Hong Kong, della Colombia o dell’Argentina. Un analista, riferendosi alla società cilena, scrive: «È un cocktail che non offre speranze che possano venire tempi migliori … al contrario, la gente percepisce che i tempi peggiorano». E un giornalista del New York Times scrive che i giovani di Hong Kong incontrano sempre più concorrenza nell’ottenere lavoro e casa in una città dalla disuguaglianza crescente. Un altro analista parla di «problemi di povertà, prezzi esorbitanti delle abitazioni e mancanza di aspettative di miglioramento fra i giovani». Ma Hong Kong, insieme al Cile, non era un modello del paradiso capitalista?
Perciò parole d’ordine, forme di lotta, analisi, percezioni, sorgono in un punto e rimbalzano in centinaia o migliaia di recettori per tutto il globo. In questo contesto si sviluppano anche le lotte per la libertà, contro la repressione e i regimi dittatoriali, e la lotta delle donne per i loro diritti e contro il maschilismo. Si osservi, inoltre, la costanza con cui si ripete la repressione che semina la morte fra decine o centinaia di persone.
Probabilmente, è dalla fine degli anni 60 e dall’inizio degli anni 70 (Maggio francese; movimento studentesco in Messico; ascesa della militanza operaia in Italia; movimento antiburocratico in Cecoslovacchia; Cordobazo in Argentina; lotte contro le dittature in Portogallo e Spagna; sconfitta degli Usa in Vietnam, tra le altre esperienze) che non abbiamo assistito a un’ondata così estesa. È la risposta più generale delle masse oppresse e sfruttate da che si è approfondita la globalizzazione del capitale. Fra le altre ragioni, v’è una crescente coscienza della polarizzazione ricchezza/povertà generata dal capitale. Ricordiamo un dato: «Fra il 1980 e il 2016, il 10% più ricco della popolazione mondiale si è appropriato del 57% della crescita dei redditi; l’1% più ricco ne ha detenuto il 27%. Al contrario, al 50% più povero è spettato solo il 12% dell’aumento; e al 40% della fascia mediana il 31%». In una precedente nota riguardante il Cile – “È il capitalismo, stupido” – abbiamo scritto che la questione di fondo non è un governo X oppure Y, bensì il modo di produzione basato sulla proprietà privata del capitale e lo sfruttamento del lavoro. E il problema è globale.
Nondimeno, crescono forze di destra, nazionaliste e conservatrici
L’internazionalismo socialista ha allora questo fondamento materiale. Tuttavia, a livello mondiale, alternative conservatrici, religiose fondamentaliste o di estrema destra, hanno mostrato una tendenza a rafforzarsi. Esistono varietà di tutti i tipi. Ad esempio, un gruppo di estrema destra può dichiararsi nemico di Israele e antisemita, ma un altro, sempre dell’ultradestra, può considerare Israele un alleato nella lotta contro il “terrorismo”. Comunque, tutti sono profondamente nazionalisti e acerrimi nemici del marxismo (o di qualunque cosa odori di socialismo gestito dalle masse lavoratrici). Molti si fondano su rivendicazioni sociali o democratiche per neutralizzarle e portare acqua al mulino della reazione. Si pensi, al riguardo, a come gruppi fondamentalisti abbiano capitalizzato buona parte della sollevazione della popolazione siriana contro la dittatura di Al Assad. Lo stesso si è verificato in Venezuela con lo scontento popolare che è stato canalizzato verso formazioni di destra; o, più recentemente, in Bolivia, con settori di classe lavoratrice o dei movimenti popolari che hanno manifestato contro i brogli elettorali di Morales e del Mas, finendo per permettere la salita al governo di una destra razzista e ultracattolica.
È necessario riconoscere questa situazione. Non bisogna ubriacarsi con una fraseologia di sinistra del tipo “colossale ascesa rivoluzionaria mondiale”. La posizione del marxismo è, oggigiorno, di estrema debolezza. Ciò che abbiamo segnalato con riferimento alle recenti elezioni in Argentina – il 95% dell’elettorato ha votato per organizzazioni nemiche del socialismo – può essere esteso a tutto il mondo. Che con questa inquadratura si sia più o meno statalisti, più o meno filo‑Trump o filo‑Putin, ha poca importanza pratica.
Dati i limiti di spazio, non ci è possibile esaminare qui tutti i fattori che hanno portato a questa situazione. Ma c’è un fatto che acquista importanza cruciale: l’esperienza, sia storica che recente, dei regimi e delle correnti socialiste.
Fondamentalmente, il crollo dell’Urss e degli altri emblematici “socialismi reali”: Cina, Jugoslavia, Cuba, Corea del Nord. Agli occhi delle grandi masse è il marxismo ad essere fallito. Perciò esse non credono che sia praticabile una costruzione socialista che non finisca in gulag e burocrazie terribilmente repressive. A ciò si aggiungano dei casi particolari: l’esperienza dei Khmer Rossi in Cambogia, quella di Sendero Luminoso in Perù, le Farc in Colombia (e se qualcuno dubita degli effetti negativi di queste esperienze, può chiedere del sostegno che questi movimenti hanno nella memoria dei popoli cambogiano, peruviano o colombiano). Ma si aggiunga anche il disastro in cui è sfociato il “socialismo del XXI secolo”, che a suo tempo è stato presentato come l’alternativa che avrebbe ricostruito il pensiero socialista a livello globale.
Oltre a quanto detto, l’immensa maggioranza della sinistra si è piegata alla conciliazione di classe – sostegno a partiti e programmi borghesi, come Syriza in Grecia, Lula in Brasile, il peronismo in Argentina, solo per citare i casi più importanti – e al nazionalismo (con l’idea per cui “l’imperialismo statunitense è il nemico principale”). Coerentemente, molte organizzazioni hanno disprezzato o, peggio ancora, si sono schierate contro le lotte per le libertà democratiche in moltissimi Paesi e circostanze. Così, per esempio, se l’esercito siriano assassinava manifestanti indifesi, allora stava combattendo contro “gli agenti dell’imperialismo”. Allo stesso modo, se il rapporto Bachelet denuncia le violazioni dei diritti umani da parte del regime di Maduro, “lo fa perché è un agente di Washington”. Però Bachelet non è più un agente di Washington se denuncia la repressione in Cile. In tutti i modi, come può sorprendere che il socialismo sia sempre più identificato con regimi come il chavismo venezuelano, l’orteguismo nicaraguense o, ancor peggio, quello della Corea del Nord con la sua dinastia dei Kim? A questo riguardo, richiamiamo ancora una volta l’attenzione sulla centralità che ha avuto, nella storia del marxismo, la lotta per le libertà e i diritti democratici.
In definitiva, ciò di cui abbiamo bisogno è armonizzare la narrazione e l’analisi con ciò che sta accadendo a livello sempre più globale. E il primo passo per questo è sollevare le bandiere dell’internazionalismo, nonché la critica ad ogni forma di conciliazione di classe, sia con lo Stato che con partiti borghesi o formazioni burocratico‑militari. È la via d’uscita progressista per l’ondata di sollevazioni e di indignazione che ricorre buona parte del pianeta.
[*] Rolando Astarita è uno studioso marxista di economia. Insegna all’Università di Quilmes e di Buenos Aires, in Argentina.
(Traduzione di Ernesto Russo)