Il 20 agosto del 1940 la mano assassina di Stalin spense per sempre l’ultima voce critica e la più geniale testa pensante di quella vecchia guardia bolscevica che ancora custodiva e propagandava i valori rivoluzionari dell’Ottobre, contrapponendoli alla suicida e controrivoluzionaria politica del sanguinario dittatore georgiano. Benché isolato, esiliato in Turchia e successivamente profugo attraverso la Francia, la Norvegia, fino al Messico, León Trotsky era comunque il rappresentante più autorevole del bolscevismo dopo la morte di Lenin e l’esponente della rivoluzione del 1917 più ascoltato nel criticare e denunciare internazionalmente la burocratizzazione dell’Unione Sovietica e l’abbandono dei principi che avevano portato al potere il movimento operaio: in quanto tale, egli era un ostacolo per Stalin, che inviò perciò un suo sicario per assassinarlo. Trotsky morì il giorno dopo l’attentato subito.
Nel 79° anniversario della sua morte intendiamo ricordare il grande rivoluzionario russo attraverso le parole di uno dei suoi più stretti collaboratori dal 1932 al 1939: Jean Van Heijenoort, che fu fedele segretario e guardia del corpo di Trotsky durante il periodo d’esilio, dall’isola di Prinkipo (Turchia) fino a Coyoacán (Messico). Un periodo che Van Heijenoort ha raccontato nel bel libro “In esilio con Trotsky: da Prinkipo a Coyoacán”.
Il testo che presentiamo tradotto in italiano venne pubblicato per la prima volta nel numero di agosto 1941 della rivista Fourth International, vol. II, n. 7 (pp. 207–209), con lo pseudonimo di Karl Mayer, e poi ripubblicato col vero nome dell’autore sulla stessa rivista (n. 7, autunno 1959, pp. 27–29), con una nota della redazione che dava conto dell’abbandono del movimento trotskista da parte di Van Heijenoort. Nondimeno, colui che gli fu fedele e devoto segretario continuò l’opera di raccolta e sistemazione delle opere del rivoluzionario russo. E in massima parte è proprio merito suo se oggi conosciamo i lavori di Trotsky.
Buona lettura.
La redazione
Lev Davidovič
Jean Van Heijenoort
Quando Engels, riverito patriarca della socialdemocrazia internazionale, si spense tranquillamente e carico d’anni a Londra, giungeva al suo termine il secolo che separava le rivoluzioni borghesi dalle rivoluzioni proletarie e il giacobinismo dal bolscevismo. La trasformazione del mondo annunciata da Marx era sul punto di convertirsi in un compito immediato e i rivoluzionari si apprestavano a vivere avvenimenti senza uguali. E infatti, le teste dei tre più grandi dirigenti rivoluzionari dopo Engels subirono i colpi della reazione. Lo storico del futuro non potrà non vedere in questo fatto uno dei segni caratteristici della nostra epoca. Così come non potrà fare a meno di notare da chi quei colpi vennero inferti. La testa di Lenin venne raggiunta dalla pallottola della “socialista rivoluzionaria” Fanny Kaplan. La testa di Rosa Luxemburg fu schiacciata sotto gli stivali della soldataglia del “socialdemocratico” Noske. La testa di Trotsky fu fracassata dai colpi di piccozza di uno dei mercenari del “comunista” Stalin.
Con i suoi bruschi salti e i suoi accessi febbrili, la nostra epoca di crisi divora sempre più rapidamente gli uomini e i partiti. Coloro che solo ieri rappresentavano la rivoluzione diventano oggi gli strumenti della più buia reazione. Questa battaglia all’ultimo sangue tra la testa del processo storico e la sua coda, pesante e che tira nell’altra direzione, ha rappresentato uno dei suoi aspetti più drammatici nel duello fra Trotsky e Stalin, proprio perché questa lotta si sviluppava sullo scenario di uno Stato operaio già creato. Trotsky, portato al vertice del potere dall’esplosione rivoluzionaria delle masse, perseguitato e braccato quando si sono susseguite le sconfitte del proletariato, è diventato egli stesso l’incarnazione della rivoluzione.
Era dotato di un fisico sorprendente. Ciò che innanzitutto impressionava era la sua fronte (eccezionalmente alta, verticale e senza un minimo di calvizie). Poi, i suoi occhi, d’un azzurro profondo, denotanti uno sguardo potente e sicuro del suo potere. Durante il suo soggiorno in Francia, Lev Davidovič era costretto molto spesso a viaggiare in incognito per semplificare i problemi relativi alla sua sicurezza. Allora si rasava il pizzetto e pettinava i capelli con la riga a lato. Ma quando si preparava ad uscire e a confondersi tra la folla, io ero sempre molto preoccupato: «No, non è possibile … il primo passante la riconoscerà, non può cambiare questo sguardo …». Poi, quando Lev Davidovič iniziava a parlare, ciò che richiamava l’attenzione era la sua bocca. Che parlasse in russo o in una lingua straniera, le sue labbra si sforzavano di formare le parole chiaramente. Lo irritava ascoltare i discorsi confusi e precipitosi degli altri, e si imponeva sempre di esprimersi in modo perfettamente chiaro. Solo quando si rivolgeva in russo a Natalia Ivanovna il suo linguaggio diventava più rapido e meno articolato, fino a diventare, a volte, un bisbiglio. Quando nel suo studio parlava a un ospite, le sue mani, dapprima poggiate sul bordo della scrivania, iniziavano molto presto a disegnare nell’aria larghi e fermi gesti, come se aiutassero le labbra nell’espressione del suo pensiero. Il viso circondato dai capelli, il portamento della testa e di tutto il corpo, erano sempre fieri e maestosi. La sua statura superava la media, il suo tronco era forte, le spalle larghe e robuste, mentre invece le gambe sembravano un po’ piccole. Era indubbiamente più facile per chi fosse venuto a fargli occasionalmente visita dare le sue impressioni sul viso di Trotsky, che per colui che gli era stato vicino per anni nelle più diverse circostanze.
La sola espressione che non gli ho mai visto era quella della sia pur minima volgarità. Allo stesso modo, neppure era possibile cogliere qualcosa di simile all’ingenuità. Ma non gli faceva difetto una certa dolcezza, indubbiamente proveniente dalla formidabile intelligenza, la cui facilità di cogliere qualunque cosa era sempre percettibile. Lo si poteva vedere portare avanti con giovanile entusiasmo qualsiasi compito avesse intrapreso e, allo stesso tempo, era abbastanza forte da trascinarsi altri dietro a collaborare per la riuscita di quell’impresa. Quando si trattava di prendersela con un avversario, quella specie di allegria si trasformava rapidamente in ironia, mordace e maliziosa, che alternava a un’espressione di disprezzo, e quando l’avversario era particolarmente abietto si sarebbe potuto cogliere per un attimo come un’ombra di ostilità. Ma subito gli tornava la vivacità. «Sistemiamolo per le feste!», diceva allora, animatamente. Nella solitudine del suo esilio, le circostanze più drammatiche in cui ho potuto vedere Lev Davidovič furono i suoi conflitti con la polizia o incidenti con avversari in malafede. In quei momenti l’espressione del suo viso si induriva e i suoi occhi lanciavano fuoco e fiamme, come se in essi si fosse all’improvviso concentrato quell’immenso potere di volontà che non poteva di solito misurarsi se non attraverso i lavori della sua intera vita. Diventava evidente, allora, che nulla al mondo avrebbe potuto smuoverlo di un millimetro.
Come lavorava Trotsky
Nella vita quotidiana questa forza di carattere si manifestava in un lavoro strettamente organizzato. Qualsiasi disturbo immotivato lo irritava enormemente: odiava le conversazioni senza costrutto, le visite impreviste e gli impegni non mantenuti o rifiutati. Ma certamente in questo non v’era la più piccola traccia di pedanteria. Quando si presentava una questione importante, egli non dubitava un solo istante nel cambiare tutti i suoi piani, ma doveva trattarsi di qualcosa per cui valesse la pena. Se la cosa avesse avuto il sia pur minimo interesse per il movimento, le dedicava il suo tempo e le sue energie senza pensarci su due volte, ma si mostrava assai avaro quando la negligenza, l’indifferenza o la cattiva organizzazione degli altri minacciava di disperdere l’impegno che egli profondeva. Economizzava ogni piccolo frammento di tempo, la materia più preziosa di cui è fatta la vita. L’intera sua vita personale era rigidamente organizzata alla luce di una qualità detta unità di obiettivo. Aveva stabilito una gerarchia di doveri e portava a termine qualsiasi cosa avesse iniziato.
Aveva come regola il non lavorare per meno di dodici ore al giorno, e a volte, se necessario, molto di più. Restava a tavola il meno possibile, e dopo aver condiviso i pasti con lui per molti anni non potrei dire di aver mai notato sul suo viso il minimo segno di godimento per ciò che aveva mangiato o bevuto. «Mangiare, vestirsi, tutte queste miserabili piccole cose che bisogna ripetere tutti i giorni …», mi disse una volta.
Trovava un diversivo soltanto in un’intensa attività fisica. Le semplici passeggiate erano per lui appena una distrazione. Camminava attivamente e in silenzio, e si sarebbe potuto vedere che la sua mente era sempre al lavoro. Di tanto in tanto poneva una domanda: «Quando ha risposto a questa lettera?». «Mi può trovare questa citazione?». Solo un intenso esercizio fisico lo distraeva. In Turchia era la caccia e specialmente la pesca in profondità, difficile e movimentata, in cui le energie fisiche dovevano consumarsi senza risparmio. Quando la pesca era stata buona, cioè davvero faticosa, al suo ritorno a casa riprendeva a lavorare con raddoppiato entusiasmo. In Messico, dove la pesca non era praticabile, si inventò la raccolta di enormi e pesanti cactus sotto un sole infernale.
Naturalmente, le necessità della sua sicurezza creavano certi obblighi. Negli undici anni e mezzo della sua terza emigrazione, solo durante alcuni mesi, in certi momenti della sua permanenza in Francia e Norvegia, Lev Davidovič poté passeggiare liberamente, cioè senza guardie del corpo, per la campagna circostante la sua abitazione. Di regola, ogni sua passeggiata diventava una piccola spedizione militare. Era necessario prendere in anticipo tutte le precauzioni e stabilire meticolosamente il suo itinerario. «Mi trattate come se fossi un oggetto», diceva spesso dissimulando dietro una battuta tutta l’impazienza contenuta in quest’osservazione.
Esigeva dai compagni che lo aiutavano lo stesso spirito metodico che metteva nel suo lavoro. Quanto più prossimi erano i suoi collaboratori più pretendeva da loro e meno si preoccupava delle formalità. Voleva la precisione in ogni cosa: una lettera non datata, un documento non firmato, lo irritavano sempre allo stesso modo di qualsiasi cosa trascurata, trasandata e alla carlona. «Realizzate bene ogni compito che avete iniziato e portatelo a termine». E, in generale, non faceva alcuna differenza tra gli insignificanti lavori quotidiani e il lavoro intellettuale: «portate i vostri ragionamenti fino alle loro conclusioni», era l’espressione che spesso gli usciva dalla penna. Era sempre molto attento alla salute di coloro che lo circondavano. La salute è un capitale rivoluzionario che non deve essere sprecato. Si arrabbiava vedendo che qualcuno leggeva con poca luce. «È necessario mettere a rischio la vostra vita per la rivoluzione senza esitare, ma perché rovinarvi la vista se potete leggere in modo confortevole e senza problemi?».
Le conversazioni di Trotsky
Nei loro colloqui con Lev Davidovič, i visitatori restavano colpiti soprattutto dalla sua capacità di orientarsi rispetto a una situazione nuova. Era in grado di integrarla nella sua prospettiva generale e, al contempo, dava sempre un’opinione immediata e pratica. Nel corso della sua terza emigrazione ebbe spesso occasione di intrattenersi con visitatori venuti da Paesi dei quali egli non aveva una conoscenza diretta, magari dai Balcani o dall’America Latina. Non sempre conosceva la loro lingua, né ne seguiva la stampa, e non aveva mai avuto un particolare interesse per i loro specifici problemi. Innanzitutto, lasciava parlare il suo interlocutore, di tanto in tanto prendendo delle brevi note su un foglio di carta che aveva davanti, e a volte chiedendo qualche chiarimento: «Quanti militanti ha questo partito?», «Questo politico non è un avvocato?».
In seguito parlava lui, e la congerie di informazioni che gli erano state fornite venivano organizzate. Ben presto potevano distinguersi i movimenti delle diverse classi e dei differenti settori al loro interno e poi, legato a questi movimenti, appariva il gioco dei partiti, dei gruppi e delle organizzazioni; e alla fine il posto e le attività di varie figure politiche in funzione della loro professione e dei loro tratti personali finivano per trovarsi logicamente integrati nel quadro. Il naturalista francese Cuvier era solito vantarsi di essere capace di ricostruire un animale intero a partire da un singolo osso. Con la sua vasta conoscenza delle realtà sociali e politiche, Trotsky poteva dedicarsi a un lavoro simile. Il suo interlocutore restava sempre meravigliato nel vedere come egli fosse capace di penetrare a fondo nella realtà di un particolare problema, e alla fine lasciava lo studio di Trotsky con una conoscenza un po’ più approfondita del proprio Paese.
In ogni momento si avvertiva in Trotsky un enorme patrimonio d’esperienza, non solo impressa nella sua memoria, bensì organizzata e a lungo ponderata e organizzata. Allo stesso modo, si vedeva che l’organizzazione di quest’esperienza si basava su incrollabili principi. Benché Lev Davidovič odiasse la routine, benché fosse sempre ansioso di scoprire nuove vie, il minimo tentativo di innovazione nel campo dei principi lo metteva in allarme. «Tagliare la barba a Marx», era questa la sua espressione per tutti quei tentativi di uniformare il marxismo alle tendenze in voga, e non dissimulava il suo disprezzo verso di essi.
Lo stile e la scrittura di Trotsky
Lo stile di Trotsky è universalmente ammirato. È indubbiamente con quello di Marx che può meglio essere paragonato. Tuttavia, le frasi di Trotsky sono meno ampie di quelle di Marx, nelle quali chiunque può rendersi conto della ricchezza delle qualità intellettuali, specie nei lavori giovanili. Lo stile di Trotsky raggiunge i suoi effetti con mezzi estremamente semplici. Il suo vocabolario, specialmente nei suoi scritti più propriamente politici, è sempre piuttosto limitato. Le frasi sono brevi, con poche subordinate. La loro forza deriva da una robusta articolazione, il più delle volte attraverso contrapposizioni fortemente marcate ma sempre ben equilibrate. Questa sobrietà di mezzi conferisce al suo stile una grande freschezza e, si può dire, giovinezza. Perciò, la scrittura di Trotsky è decisamente più giovane di quella di Marx.
Trotsky sapeva come approfittare di quella sintassi russa le cui inflessioni permettono di cambiare l’ordine delle parole in una frase dando all’espressione del pensiero una forza e un’enfasi difficili da raggiungere con i mezzi limitati delle lingue occidentali moderne. Ma anche difficili da tradurre. Lev Davidovič esigeva dai suoi traduttori una fedeltà matematica, e al contempo era insofferente alle regole della grammatica della lingua straniera che impedivano una traduzione tanto concisa e diretta del suo pensiero. Paragonato a quello di Lenin, lo stile di Trotsky è di gran lunga migliore quanto a lucidità ed eleganza, senza alcuna perdita di potenza espressiva. Le frasi di Lenin sono di quando in quando involute, troppo pesanti, disorganizzate. Come se a volte il pensiero paralizzasse la sua espressione. Trotsky disse un giorno che in Lenin si poteva scoprire il mugik russo, però elevato a livello di genio.
Anche se il padre di Lenin era un funzionario provinciale e quello di Trotsky un agricoltore, era Trotsky ad abitare in città, al contrario di Lenin, indubbiamente a causa della sua etnia. Ciò può essere subito notato nella differenza di stili, senza che sia necessario qualsiasi altro tentativo per scoprire questa contrapposizione in altri aspetti di queste due gigantesche personalità.
Quando Trotsky fu deportato in Turchia, sul passaporto rilasciato dalle autorità sovietiche era indicata come sua professione quella di scrittore. E in realtà, egli era un grande scrittore, estremamente grande. Se l’annotazione dei burocrati fa sorridere, è perché Trotsky era molto più di uno scrittore. Scriveva con grande facilità e poteva dettare per parecchie ore di seguito senza fermarsi. Ma poi rivedeva il manoscritto e lo correggeva con grande attenzione. Per alcune delle sue grandi opere, come la Storia della Rivoluzione russa, furono preparate due bozze successive prima del testo definitivo, ma nella maggior parte dei casi una soltanto. La sua enorme produzione letteraria – in cui si rinvengono libri, saggi, innumerevoli articoli, lettere, brevi comunicati stampa e note d’ogni sorta – è, inutile sottolinearlo, disomogenea. Alcune parti sono state più elaborate di altre, ma neanche una sola frase dei suoi scritti è trascurata. Basta soffermarsi su cinque righe qualsiasi di quest’enorme produzione letteraria per riconoscere sempre l’inimitabile Trotsky.
Il volume di questi scritti è impressionante, tanto da rappresentare, da solo, la testimonianza d’una assai rara volontà e capacità di lavoro. Le opere complete di Lenin sono state raccolte in trenta volumi, oltre a cinque volumi di corrispondenza e note diverse. Trotsky ha vissuto sette anni più di Lenin, ma i suoi scritti, dai suoi libri più voluminosi fino alle sue brevi note personali, arriverebbero certamente al triplo. Negli undici anni e mezzo della sua terza emigrazione ha accumulato un lavoro tale da riempire onorevolmente un’intera vita. Si può dire che la penna non ha mai abbandonato la sua mano, e che mano è stata!
Vive nei suoi scritti
Trotsky ha messo tutto se stesso nei suoi scritti. Il rapporto personale con l’uomo non modificava l’immagine che emergeva dai suoi testi, anzi l’approfondiva e la rendeva più precisa: passione e ragione, intelligenza e volontà, tutte portate a un grado estremo, ma al contempo fuse tra loro. In ogni azione di Lev Davidovič si poteva percepire che egli metteva tutto se stesso. Ripeteva spesso le parole di Hegel: «In questo mondo nulla di grande è stato fatto senza passione»; e non nutriva altro che disprezzo per i filistei che si opponevano al “fanatismo” dei rivoluzionari. Ma l’intelligenza era sempre presente, in miracolosa armonia con la passione. Inimmaginabile pensare di scoprire in ciò un conflitto: la volontà era indomabile perché lo spirito vedeva molto lontano. Si potrebbe citare ancora una volta Hegel: «Der Wille ist eine besondere Weise des Denkens». La volontà è una funzione specifica del pensiero.
(Traduzione di Valerio Torre)