Tiananmen, Trotsky e la restaurazione (violenta) del capitalismo
Una discussione antica, ma attuale e teoricamente utile
Valerio Torre
In questi giorni si sono commemorati i trent’anni trascorsi dalla repressione di Piazza Tiananmen, in Cina: un episodio il cui simbolo è rappresentato dalla storica fotografia del manifestante che col proprio corpo ferma l’avanzata della colonna di carri armati dell’Esercito di Liberazione Popolare scagliati dal regime per reprimere le proteste di studenti e operai che, da oltre un mese e mezzo, stavano assumendo dimensioni dalla portata dirompente mettendo così in crisi il regime. Fu un bagno di sangue dalle proporzioni mai davvero accertate: le autorità cinesi hanno ufficialmente riconosciuto circa 300 morti, ma altre fonti parlano di migliaia di attivisti uccisi.
In genere, questa tragica vicenda viene affrontata dandole due letture simmetricamente contrapposte: da una parte, i media borghesi che la presentano come la dimostrazione del “carattere sanguinario dei regimi comunisti”, con il corollario che solo il sistema capitalistico – e, segnatamente, quello democratico‑borghese – è in grado di offrire libertà, diritti civili e condizioni di vita dignitose; dall’altra, talune correnti che si richiamano al marxismo rivoluzionario e che dipingono il 4 giugno del 1989 come una sorta di “spartiacque”, una barriera, attraversata la quale la burocrazia del Partito comunista iniziò una trasformazione che ha infine portato la Cina ad abbandonare i principi del comunismo per approdare sui lidi del capitalismo[1]. La meccanica conseguenza di quest’analisi è che prima del massacro vigeva in Cina un regime socialista (sia pure deformato), e solo dopo ebbe inizio il processo che portò alla restaurazione capitalistica.
Riteniamo queste due letture entrambe sbagliate, dato che, a nostro modo di vedere, il processo restaurazionista in Cina era iniziato addirittura da prima che in Urss, e cioè già a partire dal 1978, con l’affermarsi all’interno del Pcc della frazione che si rifaceva a Deng Xiaoping: sicché nel 1989 era in stato talmente avanzato da potersi fondatamente sostenere che quella che represse nel sangue le proteste dei giovani di Piazza Tiananmen non fu una dittatura comunista, ma, al contrario, una dittatura capitalista: con, alla testa dello Stato, la burocrazia dirigente di un partito che continuava (e continua ancor oggi) a chiamarsi “comunista”[2].
Non a caso, le masse studentesche e operaie che inscenavano le enormi manifestazioni intonavano l’Internazionale, rivendicando tra le altre misure la sburocratizzazione del partito e dello Stato, nonché un socialismo in cui vi fosse libertà d’espressione e di attività politica. Fu facile, invece, per il regime bollarle come “controrivoluzionarie” e schiacciarle con le armi.
Il carattere della restaurazione capitalistica, in Cina e negli altri ex Stati operai: un dibattito
Tuttavia, scopo di quest’articolo non è affatto, come vedremo, affrontare il tema del processo di restaurazione del capitalismo in Cina (un tema complesso, che richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello concesso all’oggetto di questo testo). Perciò, ci limitiamo qui ad evidenziare che, a partire dalla fine del 1978, prese l’avvio una serie di riforme economiche di apertura al mercato e di trasformazione dello Stato in direzione del capitalismo – patrocinate da Deng Xiaoping e dalla frazione “denghista” all’interno del Pcc – molto più incisive e concentrate di quelle che, solo più tardi, avrebbero iniziato l’analogo processo di restaurazione nell’Urss.
L’oggetto della presente riflessione riguarda, invece, un’altra questione: e cioè la discussione, che ci è capitato di intavolare con alcuni compagni, sulle “previsioni”[3] di Trotsky in ordine al carattere violento della restaurazione capitalistica negli (ormai ex) Stati operai. Sicché, l’occasione del trentennale del massacro di Piazza Tiananmen è alla fine solo lo spunto per questo testo, benché sia uno spunto particolarmente appropriato, perché incidentalmente riguarda proprio il tema che intendiamo illustrare.
E infatti, il dibattito di cui diamo conto qui è partito proprio da una riflessione che ci è stata posta, riassumibile in questi termini: se, secondo l’analisi marxista, la Cina era uno Stato operaio, allora la teoria di Trotsky – secondo cui la restaurazione capitalista può avvenire solo in modo violento – era sbagliata. In alternativa, se invece la restaurazione si è data pacificamente, allora vuol dire che la Cina non era uno Stato operaio. In entrambi i casi, la lettura trotskista sarebbe errata. Il ragionamento era – è chiaro – esteso all’ex Unione Sovietica[4], dove pure si sottintendeva non essersi verificato alcuno spargimento di sangue durante il processo restaurazionista.
Precisiamo subito che, ovviamente, chi avanzava questa obiezione pensava a una restaurazione imposta dall’esterno, attraverso un colpo di stato o un’invasione militare; e neppure faceva riferimento ai fatti di Piazza Tiananmen, anche perché sarebbe stato difficile ritenere che quel solo episodio – sia pure così cruento – potesse da solo essere stato il “tributo”, per così dire, da pagare sull’altare della restaurazione del capitalismo. Aggiungiamo, inoltre, che se – come siamo convinti – è vera la tesi che abbiamo poco più sopra sintetizzato, e cioè che il processo restaurazionista in Cina aveva preso l’avvio già dieci anni prima, allora davvero sembra insuperabile l’obiezione all’analisi trotskiana, visto che in quel decennio le cronache non danno conto di eccidi, colpi di stato, tentativi di rovesciamento violento o episodi di guerra civile fra difensori dell’ordine socialista e “aperturisti” riformatori. Insomma, la posizione di partenza che difendiamo (e cioè che la dinamica di restaurazione affonda le sue radici nelle riforme denghiste avviate sul finire degli anni 70) rendeva oggettivamente più difficile nella discussione affrontata la difesa dell’analisi trotskiana sul carattere violento della restaurazione capitalistica negli ex Stati operai (in particolare, in Cina, per quel che qui ci riguarda).
Ad ogni buon conto, chi sosteneva l’ipotesi della fallacia della “previsione” di Trotsky lo faceva utilizzando un importante testo che il rivoluzionario russo scrisse nel 1933: “La natura di classe dello Stato sovietico”[5].
Una questione di metodo
Tuttavia, prima ancora di passare all’esame di questo saggio, abbiamo creduto opportuno avviare la discussione affrontando una questione di metodo.
Fermo restando che nessun marxista può dirsi infallibile e che di errori nella storia del movimento operaio se ne sono contati a milioni, abbiamo sostenuto che, come criterio generale, sarebbe meglio evitare giudizi perentori e liquidatori sulla “validità” o meno di una “teoria”[6], senza prima sottoporla a un rigoroso riscontro.
Il marxismo, infatti, ci ha fornito un metodo scientifico di analisi della realtà basato sullo studio degli eventi della lotta di classe e delle tendenze che questa esprime, e non già una palla di cristallo per “prevedere il futuro”: roba che dovremmo lasciare volentieri a quei maghi che imperversano sui canali di televendite e simili. Se si ragiona in questi termini, si corre sì il rischio di commettere errori.
Facciamo rapidamente solo un esempio. Perfino un fior di marxista come Antonio Gramsci (per quanto chi scrive senta di avere parecchie differenze verso di lui) scrisse, sia pure utilizzando uno stile paradossale, uno dei suoi testi più famosi – “La rivoluzione contro il «Capitale»”[7] – prendendo a spunto la presupposizione (che tanti sedicenti “marxisti” ancora oggi ripetono a pappagallo) che la rivoluzione sarebbe dovuta scoppiare non già in Russia (“anello debole della catena”, come venne poi definita), ma in un Paese a capitalismo avanzato, come Germania o Francia: e ciò, sulla scorta della tesi secondo cui il socialismo non avrebbe potuto attecchire in Russia se prima il Paese non fosse passato attraverso una tappa borghese. Questa era la lettura che generalmente si dava de Il Capitale di Marx, ed è per questo che Gramsci sosteneva che quella bolscevica era una «rivoluzione contro il “Capitale”».
Ma, verosimilmente, Gramsci non si era reso conto che lo stesso Marx, negli ultimi anni della sua vita, aveva sviluppato un’elaborazione teorica su questo punto e non escludeva affatto la Russia come possibile scenario di una rivoluzione proletaria, anzi la riteneva matura per essa, come peraltro espresse a chiare lettere nella prefazione alla seconda edizione russa (1882) del Manifesto[8]. Tuttavia, ripetiamo, questo voleva essere soltanto un esempio per porre una preliminare questione di metodo.
La restaurazione in Cina è stata “pacifica”?
Veniamo, a questo punto, al merito della discussione. È vero: a più riprese, Trotsky scrisse che la restaurazione capitalistica non sarebbe avvenuta pacificamente, ma violentemente. In alcuni testi parlò di “guerra civile”.
Nondimeno, non è mai consigliabile estrapolare – soprattutto in un autore così prolifico come Trotsky – una frase, un concetto, un’idea, ed ergerli a “sistema”. È sempre preferibile – come principio generale – studiare lo sviluppo dell’intero corpus di un’opera dipanatasi nel corso di decenni per interpretare correttamente quella frase, quel concetto, quell’idea.
Partendo dal testo “La natura di classe dello Stato sovietico”, utilizzato per sostenere l’erroneità della “teoria” di Trotsky, vediamo che sin dal primo paragrafo Trotsky spiega: «La dittatura del proletariato venne instaurata attraverso un rivolgimento politico e tre anni di guerra civile. La teoria classista della società e l’esperienza storica testimoniano allo stesso modo l’impossibilità della vittoria del proletariato con metodi pacifici, cioè senza grandiose battaglie di classe, armi alla mano. […] come sarebbe concepibile una controrivoluzione borghese impercettibile e “graduale”? […] La tesi marxista relativa al carattere catastrofico del passaggio del potere dalle mani di una classe a quelle di un’altra si applica non soltanto ai periodi rivoluzionari, […] ma anche ai periodi controrivoluzionari»[9]. Proseguendo nella lettura del testo, persino i titoletti dei paragrafi sembrerebbero dar ragione a chi ritiene che resta perciò invalidata la teoria trotskista secondo cui la restaurazione capitalista può avvenire solo in modo violento: troviamo, infatti, frasi come «Le vie possibili della controrivoluzione», o «È possibile eliminare “pacificamente” la burocrazia?», che lascerebbero presupporre un intervento violento controrivoluzionario della borghesia, tale da sconfiggere lo Stato proletario e restaurare il capitalismo. Un intervento violento che però gli avversari della tesi trotskiana non hanno riscontrato nella realtà: ciò che li porta a dubitare della “teoria” di Trotsky. Ma è proprio questo che intendeva dire Trotsky con lo scritto utilizzato per smentirne la “previsione”? Ci sia consentito dubitarne.
Trotsky scrisse nel 1933 questo testo per confutare le tesi di coloro che, ritenendo compiuta la trasformazione della burocrazia in classe, opinavano che perciò si era in presenza di una classe sfruttatrice, proprietaria ormai dei mezzi di produzione, che, appropriandosi del plusvalore estratto dalla classe lavoratrice, aveva trasformato lo Stato socialista in capitalista; oppure – come sostenevano altri in una variante del ragionamento – in una forma statale ibrida, “né proletaria, né borghese”.
Dopo aver dimostrato che la burocrazia non era affatto una classe, Trotsky avanzò delle ipotesi (che poi troveremo in tutto lo sviluppo della sua opera sulla degenerazione dello Stato sovietico, come poi dirò). In particolare, sostenne:
«Un ulteriore sviluppo senza intralci del burocratismo porterà inevitabilmente ad un arresto dello sviluppo economico e culturale, ad una spaventosa crisi sociale e ad un arretramento di tutta la società. Tuttavia, questo comporterebbe non soltanto il crollo della dittatura proletaria, ma anche la fine del dominio burocratico. Il posto dello Stato operaio verrebbe occupato non da rapporti “socialburocratici”, bensì da rapporti capitalistici»[10].
Più avanti, nel paragrafo intitolato «È possibile eliminare “pacificamente” la burocrazia?», Trotsky spiega che «questo compito può essere assolto unicamente da un partito rivoluzionario. […] sarebbe infantile supporre che la burocrazia staliniana possa essere rimossa mediante un congresso del partito o dei soviet. […] Per eliminare la cricca dirigente non rimane alcuna via “costituzionale” normale. La burocrazia può essere costretta a rimettere il potere nelle mani dell’avanguardia proletaria unicamente con la forza». E aggiunge: «Quando il proletariato entrerà in azione, l’apparato staliniano rimarrà sospeso a mezz’aria. Se esso cercherà ancora, nonostante tutto, di opporre resistenza, sarà allora necessario adottare nei suoi confronti non dei provvedimenti da guerra civile, bensì delle misure di carattere poliziesco». E qui Trotsky conclude lanciando un’ipotesi – ma è, appunto, un’ipotesi – di lavoro:
«Una vera guerra civile potrebbe svilupparsi non tra la burocrazia staliniana e il proletariato ridestato, bensì tra il proletariato e le forze attive della controrivoluzione. […] La sorte dello sviluppo successivo verrà ovviamente determinata dall’esito della lotta. […] Che cosa è più vicino: il pericolo di un crollo del potere sovietico minato dal burocratismo oppure l’ora del raggruppamento del proletariato attorno ad un nuovo partito capace di salvare l’esperienza dell’Ottobre? A questa domanda non si può dare nessuna risposta a priori; sarà la lotta a decidere. I rapporti di forza verranno determinati da una grande prova storica, che potrebbe anche essere una guerra»[11].
E dunque, come si vede, Trotsky qui – siamo nel 1933 – avanza una ipotesi, non una “teoria”.
Ma il rivoluzionario russo aveva anche ipotizzato – l’abbiamo riportato in precedenza – che la burocrazia si sarebbe potuta ulteriormente sviluppare “senza intralci”, con le conseguenze già descritte.
Questo concetto – “senza intralci” – verrà da lui ripreso tre anni più tardi, nel notissimo pamphlet La rivoluzione tradita, in cui a un certo punto spiega:
«La burocrazia sovietica ha politicamente espropriato il proletariato per difendere con i propri metodi le conquiste sociali del proletariato. Ma il fatto stesso che si sia appropriata del potere in un Paese in cui i mezzi di produzione più importanti appartengono allo Stato crea tra essa e le ricchezze nazionali rapporti interamente nuovi. I mezzi di produzione appartengono allo Stato. Lo Stato “appartiene” in qualche modo alla burocrazia. Se questi rapporti … si stabilizzassero, si legalizzassero, divenissero normali senza resistenza o contro la resistenza dei lavoratori, porterebbero alla liquidazione completa delle conquiste della rivoluzione proletaria»[12].
Ebbene, il fatto che Trotsky avesse ipotizzato un ulteriore sviluppo della burocrazia “senza intralci”, ovvero “senza resistenza dei lavoratori”, lo espose alla critica di Yvan Craipeau, che un anno dopo La rivoluzione tradita – siamo quindi nel 1937 – lo accusò di ipotizzare per il futuro «la possibilità di transizione dallo Stato operaio allo Stato capitalista senza intervento militare»[13]. Ecco: dopo più di ottant’anni, la discussione di cui stiamo dando conto in questo scritto muove dalla stessa identica “accusa” che Craipeau rivolgeva al “Vecchio”. Oggi, i nostri contraddittori lo fanno surrettiziamente introducendo (con particolare riferimento alla Cina) un’alternativa: se questa era uno Stato operaio, allora “la teoria trotskista” della restaurazione violenta del capitalismo era sbagliata; oppure – si sottintende – non eravamo in presenza di uno Stato operaio.
Si tratta, in realtà, di un sillogismo meccanicistico e, perciò solo, fallace, al quale Trotsky ha risposto, appunto, più di ottant’anni fa nel testo “Ancora una volta: l’Unione Sovietica e la sua difesa”[14].
«Senza guerra civile vittoriosa, la burocrazia – scrive Trotsky – non può dare origine a una nuova classe dominante. Questo è sempre stato e continua ad essere il mio convincimento». Ma, aggiunge più avanti – e questo ci appare il passaggio chiave per inquadrare correttamente tutta la discussione:
«D’altra parte, ciò che si sta producendo in questo momento nell’Urss non è altro che una guerra civile preventiva, scatenata dalla burocrazia. […] Nessuno ha negato la possibilità, soprattutto nel caso di una decadenza mondiale prolungata, della restaurazione di una nuova classe proprietaria originata dalla burocrazia. L’attuale posizione della burocrazia, che “in qualche modo” ha nelle sue mani, attraverso lo Stato, le forze produttive, costituisce un punto di partenza estremamente importante per un processo di trasformazione. Si tratta, tuttavia, di una possibilità storica, e non già di qualcosa che si è già realizzato»[15].
Una “guerra civile preventiva”
Come si vede, qui Trotsky avanza un’ulteriore ipotesi – quella della stabilizzazione che conduce alla restaurazione (concetto su cui torneremo) – che però non esclude affatto la connotazione della guerra civile. Nel 1937, infatti, era pienamente in atto, e non solo mediante i Processi di Mosca e le grandi purghe, la “guerra civile preventiva” condotta dalla cricca staliniana contro la vecchia guardia del partito bolscevico e tutti gli oppositori. Una “guerra civile preventiva” che ebbe inizio all’indomani stesso dell’Ottobre 1917, a partire dalla guerra civile scatenata dalle armate bianche e dagli eserciti imperialisti che assediavano la Russia, allo scopo di stroncare sul nascere l’esperienza rivoluzionaria e restaurare da subito il capitalismo espropriato. Una guerra civile proseguita dall’apparato staliniano con la liquidazione definitiva del partito bolscevico e della democrazia operaia; e poi approfondita dall’aggressione nazista col suo tentativo di sopprimere le forme socialiste che nonostante l’azione della burocrazia del Cremlino continuavano ad esistere.
Del resto, Trotsky l’aveva scritto proprio nel testo citato dai nostri contraddittori: che il compito di eliminare la burocrazia e riorganizzare lo Stato sovietico «può essere assolto unicamente da un partito rivoluzionario», e che «il compito storico fondamentale è dunque quello di creare il partito rivoluzionario in Urss a partire dagli elementi sani del vecchio partito e dai giovani»[16].
D’altro canto, il concetto di “guerra civile” nel partito era stato introdotto proprio da Stalin in un discorso del 1° agosto 1927, in difesa della propria maggioranza: «Per “spazzare via” una maggioranza di questo genere bisogna scatenare una guerra civile nel partito»[17]. E dunque, per non essere costretto a subirla, fu lui stesso, Stalin, a scatenare la guerra civile – “preventiva”, come ebbe a definirla Trotsky – per “spazzare via” ogni possibile forma di opposizione e consolidare così la sua maggioranza burocratica.
Ecco perché nell’ex Unione Sovietica (ma lo stesso è valso sia per la Cina che per Cuba) non c’è stato bisogno di alcun colpo di stato dell’imperialismo per restaurare il sistema capitalismo, né di invasioni armate. La restaurazione si è compiuta, e in modo – come detto – tutt’altro che “pacifico”: una gran parte dei quadri e dirigenti bolscevichi era morta sui campi di battaglia difendendo lo Stato operaio dai tentativi di restaurazione dell’imperialismo durante la guerra civile, mentre la classe operaia che aveva fatto la rivoluzione fu praticamente disgregata; quasi la totalità dei quadri e dirigenti che erano rimasti in vita fu fisicamente eliminata da Stalin, e quei pochi rimasti in vita furono annichiliti politicamente e psicologicamente nelle grandi purghe, mentre la classe operaia era imbavagliata; solo avuto riguardo alla guerra dell’Urss contro l’aggressione nazista, la “pacifica” restaurazione si fondò su diverse decine di milioni di morti. E alla fine, soltanto quando Stalin ebbe portato a termine il compito iniziato dalla borghesia mondiale, la restaurazione si incanalò su binari molto più “pacifici”.
E perciò, non fu solo la borghesia internazionale a non aver avuto bisogno di un colpo di stato violento per restaurare il capitalismo: la stessa burocrazia sovietica, per completare la restaurazione, non ne ebbe bisogno, disponendo allo scopo di un regime dispotico, dittatoriale e sanguinario che da decenni aveva schiacciato la classe operaia.
Analogo ragionamento va fatto rispetto alla Cina, il cui regime burocratico – sia nella versione maoista che in quella denghista – ha riposato su una smisurata repressione, una montagna di cadaveri e migliaia di dissidenti in carcere e nei campi di lavoro. Svariate fonti parlano di diverse decine di milioni di morti solo nel periodo di Mao. Ma anche l’epoca successiva, con l’affermarsi della frazione riformatrice di Deng su quella conservatrice dei seguaci di Mao, si è trascinata dietro il suo triste carico di cancellazione di diritti civili e politici e di morti, di cui quelli di Piazza Tiananmen rappresentano solo la punta dell’iceberg.
E qui va affrontata quella che, in realtà, è una contraddizione solo apparente. La frazione conservatrice all’interno dello stesso apparato burocratico (che formalmente si richiamava a un marxismo più “ortodosso”) si è resa responsabile, in base ai pochi numeri che possiamo maneggiare, di un carico repressivo senza dubbio più eclatante rispetto a quella riformatrice (che invece oggettivamente puntava ad abbandonare i principi del socialismo per approdare a un’economia di mercato). Dunque, la “offensiva” della frazione maoista era “giustificata” dalla necessità di difendere la rivoluzione socialista? Davvero era questo l’obiettivo della frazione conservatrice?
Il carattere contraddittorio e non lineare del processo di restaurazione
In realtà, il corso di governo del Paese da parte di entrambe le frazioni si rivela contraddittorio e nient’affatto lineare, alternando misure centraliste ad altre aperturiste. E questa, sia pure con le peculiarità dei tre principali Stati operai che hanno restaurato il capitalismo – Unione Sovietica, Cina e Cuba – appare essere stata una costante della burocrazia al potere: l’avvicendamento di provvedimenti dirigisti, che sembrano essere concepiti alla costruzione del socialismo, ad altri che, contraddicendoli, vanno nella direzione opposta[18].
Del resto, pur senza avere avuto la possibilità di assistere alla restaurazione del capitalismo, e tenendo presente la sola Unione Sovietica, lo stesso Trotsky lo aveva a più riprese previsto:
«La prognosi politica implica un’alternativa: o la burocrazia, divenendo sempre più l’organo della borghesia mondiale nello Stato operaio, rovescerà le nuove forme di proprietà e trascinerà di nuovo il Paese nel capitalismo; oppure la classe operaia distruggerà la burocrazia e aprirà la strada al socialismo»[19].
Con forme, modalità e ritmi delle rispettive dinamiche diversi, in Urss, Cina e Cuba si è verificata la prima delle due ipotesi alternative: è stata la burocrazia alla testa dello Stato a rovesciare le forme socialiste di proprietà e a restaurare il capitalismo, non già la vecchia borghesia che era stata a suo tempo espropriata. E per farlo ha dovuto trasformare se stessa da casta burocratica e parassitaria in nuova borghesia.
È ancora una volta Trotsky a spiegarci il fenomeno:
«Ammettiamo […] che né il partito rivoluzionario, né il partito controrivoluzionario si impadroniscano del potere. La burocrazia resta alla testa dello Stato. Anche in queste condizioni l’evoluzione dei rapporti sociali non si ferma. Non si può certo immaginare che la burocrazia abdichi in favore dell’eguaglianza socialista. Se essa ha … ritenuto possibile […] ristabilire i gradi e le decorazioni, in seguito dovrà inevitabilmente cercare un appoggio nei rapporti di proprietà. Si potrebbe obiettare che poco importano ai grossi funzionari le forme di proprietà da cui ricavano i loro redditi, ma sarebbe ignorare il fattore della precarietà dei diritti della burocrazia e il problema della sua discendenza. Il recente culto della famiglia sovietica non cade dal cielo. I privilegi che non si possono tramandare ai figli perdono la metà del loro valore. Ma il diritto di lasciare in eredità è inseparabile da quello di proprietà. Non basta essere direttore di un trust, bisogna esserne azionista. La vittoria della burocrazia in questo settore decisivo ne farebbe una nuova classe possidente»[20].
Trotsky ci dice, cioè, che i privilegi della casta burocratica sono per loro natura precari e che, per consolidarsi, debbono trasformarsi in privilegi proprietari. Così pure, chi li esercita non può limitarsi ad esserne il gestore, ma deve diventarne il titolare.
E dunque, in mancanza della rivoluzione politica che Trotsky auspicava per rovesciare la burocrazia, questa si è mutata in borghesia: senza quella rivoluzione politica, la burocrazia si è mantenuta al potere (tutt’altro che “pacificamente”), e, proprio per questo, la continuità del regime burocratico si è risolta nella restaurazione del capitalismo.
La conferma del pronostico di Trotsky
E anche questo, d’altro canto, fu un pronostico di Trotsky, avanzato il 25 settembre 1939, pochi giorni dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale e nient’affatto “invalidato”, ma anzi confermato dal corso della Storia:
«È vero che ci aspettavamo più il crollo dello Stato sovietico che la sua degenerazione; per dirla più esattamente, non facevamo gran differenza fra le due possibilità. Ma esse non si contraddicono l’una con l’altra. La degenerazione deve ineluttabilmente finire, a un certo punto, in un crollo»[21].
È il ragionamento dei nostri contraddittori, in conclusione, a rivelarsi “invalidato”: un ragionamento, peraltro, che attraversò l’intero movimento trotskista e che lo stesso Trotsky dovette affrontare in numerosi suoi scritti, tra cui, oltre a quelli citati, quelli raccolti sotto il titolo In difesa del marxismo.
Al contrario, e per quanto detto, Trotsky aveva perfettamente ragione nel sostenere, sia che quello che analizzava era (ancora) uno Stato operaio (benché degenerato), sia che la restaurazione capitalistica sarebbe avvenuta con la violenza.
L’errore di chi ha revocato in dubbio questa conclusione nella discussione intrattenuta con noi – che riteniamo, da un punto di vista teorico, tanto utile da averne voluto dare conto qui – è l’errore che tanti nel movimento trotskista hanno commesso: e cioè quello di cercare di adattare la realtà della restaurazione al pronostico di Trotsky (senza averlo compreso); e, siccome non ci riuscivano, alcuni hanno messo in dubbio il precedente carattere operaio dello Stato, mentre altri hanno negato la realtà della restaurazione capitalistica.
Ormai, anche riguardo alla Cina (così come rispetto all’ex Unione Sovietica), la sinistra rivoluzionaria sembra aver raggiunto una conclusione unanime per quel che concerne la compiutezza del processo di restaurazione del capitalismo. Solo sparuti e insignificanti gruppetti vetero‑stalinisti la ritengono ancora uno Stato operaio. Ma il dibattito sulle modalità, i tempi, le dinamiche e il carattere di quel processo è necessario: prova ne sia la forte divergenza sul tema di Cuba, di cui abbiamo dato conto in altro articolo su questo stesso sito[22].
La teoria, per i marxisti, è essenziale. Chi, con un’alzata di spalle, la ritiene uno sterile esercizio retorico o, peggio, un’arena in cui far prevalere narcisisticamente la propria idea – come accade nelle piccole e inutili sette ultrasinistre – non potrà mai giovare alla causa del socialismo e della rivoluzione.
Note
[1] Un’analisi del genere è, per esempio, avanzata da quella corrente internazionale denominata Frazione Trotskista: “Tiananmen: la masacre que ocultó el gobierno de China”.
[2] Un fenomeno, con le dovute differenze, paragonabile a quello verificatosi a Cuba, secondo la tesi che abbiamo sostenuto nell’articolo pubblicato su questo stesso sito, “Cuba: dalla rivoluzione alla restaurazione”.
[3] Il senso del virgolettato si comprenderà nel prosieguo della lettura.
[4] Soprattutto considerando che l’assassinio ad opera di un sicario stalinista impedì a Trotsky di vedere la Rivoluzione cinese e il suo corso successivo.
[5] L. Trotsky, “La Quatrième Internationale et l’Urss. La nature de classe de l’État sovietique”, 1° ottobre 1933, in Œuvres, vol. 2, EDI, 1978, pp. 243 e ss. La traduzione italiana che riportiamo d’ora in avanti nel testo è di P. Casciola, che ha pubblicato il saggio nel n. 13 dei Quaderni del Centro studi Pietro Tresso (1992) col titolo “La natura di classe dello Stato sovietico”.
[6] Anche in questo caso, il virgolettato si rende necessario perché, come cercheremo di spiegare nel prosieguo, qui si trattava di ipotesi, e non di “teorie”.
[7] A. Gramsci, “La rivoluzione contro il «Capitale»”, in 2000 pagine di Gramsci, t. I, Casa editrice Il Saggiatore, 1964, pp. 265 e ss.
[8] Non è qui possibile – e porterebbe certamente fuori tema – soffermarsi su quest’aspetto dell’elaborazione marxiana. Rimandiamo, per chi volesse approfondire la questione, alle opere di Marx ed Engels sulla Russia, e, in particolare, al carteggio fra Marx e Vera Zasulič, che gli aveva scritto chiedendogli di pronunciarsi sull’opinione di taluni “marxisti” secondo i quali era necessario che la forma arcaica della comunità rurale russa dovesse essere distrutta per fare posto al capitalismo: e cioè, gli chiedeva se egli ritenesse fondata – come costoro affermavano – la «teoria per cui è storicamente necessario che ogni paese del mondo attraversi tutte le fasi della produzione capitalista» (Zasulič a Marx, 16 febbraio 1881). Marx rispose (8 marzo 1881) che «l’analisi fornita nel Capitale non offre alcun argomento, né a favore né contro la vitalità della comunità rurale, ma la speciale ricerca che su questo tema ho condotto […] mi ha convinto che questa comunità è il fulcro del risveglio sociale della Russia; nondimeno, affinché funzioni in questo modo si dovrebbero prima eliminare le influenze distruttive che la assediano da tutti i lati e quindi assicurare le condizioni normali per un suo sviluppo spontaneo». Tuttavia, la lettera di risposta di Marx fu preceduta da ben quattro versioni, elaborate e rielaborate, nella prima delle quali veniva esclusa la necessità che la comune rurale dovesse subire «l’inevitabile dissoluzione», e anzi veniva ipotizzato che essa potesse «svilupparsi direttamente come elemento di produzione collettiva su scala nazionale». Marx, in altri termini, prendeva posizione contro le letture dogmatiche che venivano fatte delle sue analisi, correggendo la visione “unilinearista” dello sviluppo storico e spiegando che la Russia non aveva dovuto «subire una lunga incubazione in stile occidentale dell’industria meccanica prima di poter utilizzare macchinari, navi a vapore, ferrovie, ecc.» e che aveva anzi potuto «introdurre, in un batter d’occhio, l’intero meccanismo di scambio (banche, società di credito, ecc.) che è stato il lavoro di secoli in Occidente». Ma questa “interpretazione autentica” del pensiero di Marx rimase a lungo sconosciuta, perché sia la destinataria della risposta di Marx, Vera Zasulič, sia Georgij Plechanov, a cui questa ne aveva inviato una copia, negarono a più riprese l’esistenza della lettera, finché fu David Rjazanov, il curatore dell’Archivio Marx‑Engels, a trovarne le bozze e a pubblicarle nel 1924, insieme alla versione definitiva della risposta di Marx e a una sarcastica nota di accompagnamento sulla “strana” smemoratezza di Zasulič e Plechanov (D. Rjazanov, “The discovery of the Drafts”, in T. Shanin, Late Marx and the Russian Road. Marx and the “peripheries of capitalism”, Monthly Review Press, 1983, pp. 127 e ss.). E, a ben vedere, è solo grazie a questa serie di circostanze che possiamo “perdonare” a Gramsci di avere scritto una cosa inesatta: perché la Rivoluzione russa fu contro il capitale, ma non già contro Il Capitale!
[9] L. Trotsky, “La natura di classe dello Stato sovietico”, (trad. P. Casciola), p. 2.
[10] Ivi, p. 12.
[11] Ivi, p. 14.
[12] L. Trotsky, La rivoluzione tradita, A.C. Editoriale, 2000, p. 294.
[13] Y. Craipeau, “Extraits du contre-rapport du camarade Craipeau” al II Congresso del Parti Ouvrier Internationaliste (novembre 1937), in Quatrième Internationale, n. speciale, giugno 1938, p. 82.
[14] L. Trotsky, “Encore une fois: l’Urss et sa défense”, 4 novembre 1937, in Quatrième Internationale, cit., pp. 85 e ss.
[15] Ivi, pp. 86‑87.
[16] V. precedente nota 11.
[17] J.V. Stalin, “Discorso del 1° agosto 1927 alla Sessione plenaria comune del Comitato centrale e della Commissione centrale di controllo del Pc(b) dell’Urss”, in Opere complete, vol. 10, Edizioni Rinascita, 1956, p. 64.
[18] Ricordiamo, per quanto riguarda l’Urss, la “svolta a sinistra” della cricca burocratica staliniana che, dopo aver respinto le proposte economiche della “Opposizione congiunta del 1926” (industrializzazione pianificata, organizzazione dei contadini poveri in opposizione ai kulaki), agli inizi del 1929 adottò quelle stesse misure, naturalmente su di un piano puramente amministrativo e con l’uso della forza, mettendo in atto la “distruzione dei kulaki in quanto classe”, la collettivizzazione forzata delle campagne e l’accelerazione dello sviluppo industriale. Anche il processo di restaurazione capitalistica occorso a Cuba non fu esente da questi andirivieni: dopo che, a partire dalla metà degli anni 70, erano stati avviati in alcuni settori dell’economia importanti e concreti cambiamenti – caratterizzati dalla decentralizzazione del processo decisionale e dall’introduzione di meccanismi di mercato – che implicarono significative concessioni al capitalismo e l’avvio del processo di restaurazione (l’apertura del Mercado Libre Campesino [Mercato libero contadino], l’apertura del lavoro autonomo in 48 settori di attività, il permesso di assumere dipendenti da parte di piccoli agricoltori e l’autorizzazione alla costruzione di abitazioni da parte di imprese edili private), fu lo stesso Fidel Castro nel 1986 ad assumere l’iniziativa, attraverso il c.d. Proceso de Rectificación, per limitare la proprietà e il mercato abolendo molte delle misure fino ad allora varate: contraddittoriamente, però, lasciando inalterata la normativa che favoriva gli investimenti esteri a Cuba (Decreto Ley n. 50 del 15 febbraio 1982), e cioè la penetrazione del capitale straniero. Allo stesso modo, la Cina maoista, dopo aver aperto nel 1956 a una liberalizzazione riformista attraverso la c.d. “Campagna dei Cento Fiori”, tornò brutalmente sui suoi passi (55.000 arresti e un milione di perseguitati) quando si rese conto che le aperture le erano sfuggite di mano e l’apparato burocratico stava per perdere il controllo del sistema. Dal canto suo, il “riformatore” Deng ebbe un ruolo di primo piano nell’ideare la repressione che pose fine alla Campagna dei Cento Fiori (continuando a giustificarla anche dopo la morte di Mao), e, pur avendo in più occasioni subito l’epurazione dagli incarichi del partito a causa delle sue differenze con il “Grande Timoniere”, una volta tornato in auge mantenne sempre viva la contraddizione fra provvedimenti di apertura all’economia di mercato e pugno di ferro nella gestione del sistema burocratico‑dittatoriale, fino a rendersi responsabile della carneficina del 1989 in Piazza Tiananmen. Quel che è certo è che la brutalità delle forze di sicurezza cinesi (e della repressione) è rimasta inalterata, sia sotto la “ortodossia” di Mao che sotto il “riformismo” di Deng. Insomma, in tutti e tre i più importanti ex Stati operai, con le peculiarità proprie di ciascuno dei Paesi, il processo di restaurazione del capitalismo si è compiuto tutt’altro che “pacificamente” e ad opera delle stesse burocrazie al potere dopo le rivoluzioni che lo avevano rovesciato. E si è trattato, come detto, di una dinamica nient’affatto lineare, ma anzi intrisa di contraddizioni. Ma in tutti e tre i casi la restaurazione è stata portata a termine da burocrazie che dissimulavano la propria azione controrivoluzionaria sventolando la bandiera del socialismo, mentre invece avanzavano verso il capitalismo.
[19] L. Trotsky, Programma di transizione, Massari editore, 2008, p. 118.
[20] L. Trotsky, La rivoluzione tradita, A.C. Editoriale, 2000, p. 298.
[21] L. Trotsky, “L’Urss in guerra”, 25 settembre 1939, in In difesa del marxismo, Giovane Talpa, 2004, p. 29.
[22] V. precedente nota 2.