Si approssimano le elezioni europee del 26 di maggio e il “canto delle sirene” del parlamentarismo come scorciatoia per un’ipotetica “transizione al socialismo” per via elettorale si fa sempre più forte. Sicuramente, le consultazioni per il rinnovo del parlamento europeo rappresentano in questo momento la principale delle strade attraverso cui le organizzazioni riformiste cercano di riguadagnare visibilità; ma, indipendentemente dalle elezioni, si percepisce una dinamica in cui il riformismo sta tentando di recuperare protagonismo, complice anche la regressione dell’ideario socialista nella coscienza delle masse. Addirittura, v’è chi prova a fornire una base teorica per quest’operazione, riproponendo la figura e l’opera di Karl Kautsky come fondamento per un “nuovo socialismo”.
È il caso di Eric Blanc, un autore di cui tempo fa abbiamo pubblicato su questo sito un saggio sulla rivoluzione finlandese che suscitò un acceso dibattito, sia in seno alla comunità intellettuale internazionale, sia in seno alla nostra redazione, che non condivideva le tesi esposte: e fu per questo motivo che ritenemmo di pubblicare una replica di Duncan Hart.
Oggi infatti, per riprendere il discorso, Eric Blanc ha scritto un saggio in cui recupera la figura di Kautsky, proponendone la tesi della “via democratica al socialismo” – quella cioè che passa per la conquista di una maggioranza parlamentare da parte delle forze socialiste – come soluzione per “superare” il capitalismo. E anche in questo caso, la tesi portata avanti da Blanc ha suscitato un acceso dibattito.
Contro questa posizione, Mike Taber ha scritto una replica, a nostro avviso molto efficace, e che perciò proponiamo ai nostri lettori tradotta in italiano.
Buona lettura.
La redazione
Kautsky, Lenin e la transizione al socialismo: una risposta a Eric Blanc
Mike Taber [*]
Eric Blanc è uno storico e attivista marxista di talento, che gode della reputazione di mettere in discussione i luoghi comuni. Anche se non si può sempre essere d’accordo con tutte le sue conclusioni, le opere di Eric possiedono in generale una qualità stimolante che può solo essere accolta favorevolmente.
Questa vivacità, tuttavia, non appare nel suo ultimo articolo, “Perché Kautsky aveva ragione (e perché dovrebbe interessarvi)”[1], pubblicato sulla rivista Jacobin. La tesi centrale dell’articolo punta alla difesa della prospettiva di Karl Kautsky di una “via democratica al socialismo” rispetto a una presunta “strategia insurrezionale leninista”. Ma oltre a presentare un quadro del dibattito falsato, l’articolo si allontana dall’autentica opera e dal legato di Kautsky. E rappresenta anche i “leninisti” in forma di caricatura.
Il Kautsky buono e quello cattivo: quale dei due?
Ci sono molti aspetti positivi delle prime opere di Kautsky: la sua difesa e divulgazione del marxismo; la sua opposizione al revisionismo di Eduard Bernstein; il suo internazionalismo; la sua opposizione all’imperialismo e al colonialismo; il suo entusiasmo per la rivoluzione russa del 1905. Ma Eric non tratta nessuno di questi punti. Si concentra invece esclusivamente sulla questione della “via democratica al socialismo”.
Blanc distingue tra la prospettiva di Kautsky di prima e dopo il 1910. Kautsky viene dipinto come colui che proprio quell’anno capitolò all’ala opportunista del Partito socialdemocratico tedesco, facendo retromarcia rispetto a molte delle sue idee strategiche fondamentali e approdando al riformismo.
È certamente vero che Kautsky fece marcia indietro su una serie di temi negli anni intorno al 1910, e specialmente dopo il 1914. Ma la rigida separazione fra ciò che potremmo definire come “il Kautsky buono” (prima del 1910) e “quello cattivo” (dopo il 1910) non regge di fronte alla realtà e rappresenta un ostacolo per valutarne il legato. Questa dicotomia ignora il fatto che alcuni aspetti della prima versione possono essere trovati in quella successiva. Ciò, guarda caso, implica anche che tutte le deplorevoli cose che Kautsky ha fatto o detto dopo il 1910 – e in particolare dopo il 1914 e il 1917 – possono semplicemente essere ignorate come irrilevanti sulla base della tesi di Eric sul “perché Kautsky aveva ragione”.
La realtà è invece molto più complessa.
Innanzitutto, la definizione di Blanc – “la tesi di Kautsky a favore di una via democratica al socialismo” – è fuorviante. Si può invano cercare un tale concetto nei tre libri principali che Kautsky scrisse prima del 1910 in cui egli delineava la sua prospettiva di cambiamento rivoluzionario: The Class Struggle (1892), The Social Revolution (1902) e The Road to Power (1909).
È vero che in questi testi non viene espresso con chiarezza in che modo si dovrebbe verificare una trasformazione socialista. Ma in tutti e tre viene comunque sostenuta in modo netto la contrarietà alla prospettiva del lento cambiamento tramite l’assetto politico capitalista. Il ruolo della democrazia, come ha affermato Kautsky in The Social Revolution, consiste in un «mezzo per la maturazione del proletariato verso la rivoluzione sociale». Le citazioni che Eric prende da questi libri mettono in luce l’esatto contrario di ciò che egli cerca di dimostrare.
Il primo testo che io conosca in cui Kautsky ha delineato l’idea di una “via democratica al socialismo” è il suo lavoro del 1918, La dittatura del proletariato, scritto in contrapposizione alla Rivoluzione d’ottobre in Russia e ai bolscevichi[2].
E dunque, l’aspetto specifico di Kautsky che Eric Blanc ammira di più – la sua “via democratica al socialismo” – viene dal Kautsky cattivo del periodo successivo al 1910.
Inoltre, anche se il primo Kautsky difendeva con grande abilità aspetti importanti del marxismo, egli aveva una tendenza di lunga data ad adattarsi alle correnti riformiste e opportuniste. Il miglior esempio di quanto appena detto si verificò nel 1900, intorno alla questione del “millerandismo”.
Alexandre Millerand era un socialista francese che nel 1899 entrò nel consiglio dei ministri del governo borghese della Francia. Questo gesto suscitò un dibattito all’interno del movimento socialista mondiale, dato che i socialisti si erano sempre opposti a una simile partecipazione ministeriale. Al congresso della Seconda Internazionale del 1900, fu Kautsky – il Kautsky buono – a presentare una risoluzione che condannava la partecipazione socialista ai ministeri borghesi in circostanze “normali”, ma introducendo la possibilità che ciò potesse darsi in casi “eccezionali”. «Se in qualche circostanza particolare la situazione politica richiede questo espediente pericoloso – stabiliva la risoluzione Kautsky – si tratta di una questione di tattica e non di principio».
A questa posizione ambigua si contrappose una risoluzione presentata da Enrico Ferri e Jules Guesde, che proclamava l’opposizione a una simile partecipazione in ogni circostanza. Anche se la risoluzione di Kautsky venne alla fine adottata, le sue ambiguità e il malumore che aveva suscitato portarono alla sua abrogazione al successivo secondo congresso internazionale. La risoluzione che venne adottata nel congresso del 1904, difesa con forza da August Bebel, condannava ogni ipotesi di accettazione da parte dei socialisti di incarichi ministeriali nei governi capitalisti.
“Leninisti” contro leninisti
In molti articoli di Eric Blanc, un obiettivo costante è la narrativa storica ufficiale. Come Eric ha spesso dimostrato, tali narrazioni possono nel tempo diventare schematizzate e fossilizzate, costituendo un ostacolo al pensiero critico. Tuttavia, la recente rappresentazione dei “leninisti” nell’articolo si basa in larga misura proprio su una narrativa ufficiale siffatta.
Alcune citazioni dal testo:
«Per decenni i leninisti hanno articolato la loro strategia sulla necessità di un’insurrezione per rovesciare l’intero Stato parlamentare e mettere tutto il potere nelle mani dei consigli degli operai …».
«Raramente i leninisti si sono cimentati con questa realtà [vale a dire, la riluttanza dei lavoratori a “sostituire il suffragio universale e la democrazia parlamentare con i consigli degli operai”], e tanto meno hanno fornito una spiegazione convincente per questo …».
«I leninisti sono generalmente restii a combattere attivamente per importanti riforme democratiche perché cercano di delegittimare completamente lo Stato attuale».
La ricorrente narrazione di un Lenin con un’ossessione fanatica per la rivoluzione e l’insurrezione è uno di quegli argomenti che conosco piuttosto bene, a partire dai miei libri di testo scolastici dell’epoca della Guerra Fredda negli anni 60. Ma si tratta di un argomento completamente falso.
Innanzi tutto, Lenin e il primo movimento comunista non hanno mai proposto una “strategia insurrezionale”. La loro strategia mirava a mobilitare il proletariato e i suoi alleati attorno alla lotta per i loro interessi di classe e a spingerlo verso la conquista del potere politico e il rovesciamento del dominio della borghesia. A questo scopo utilizzarono tutti i metodi. Compresero inoltre che il socialismo non poteva essere applicato per via di riforme nell’esistente; e che era necessaria una rivoluzione per rovesciare l’apparato politico del capitalismo. Questa rivoluzione sarebbe sfociata nella dittatura del proletariato, basata su un sistema di democrazia operaia di tipo sovietico.
Non esiste una specifica “strategia leninista dell’insurrezione”: non più di una strategia leninista degli scioperi, delle manifestazioni, dei picchetti, delle riunioni di protesta, dei circoli di studio o degli appelli per raccogliere fondi.
Esisteva, è vero, una “strategia insurrezionale”, ma aveva le sue origini nel blanquismo, non nel leninismo. Louis Auguste Blanqui è stato un appassionato e ammirevole rivoluzionario francese del XIX secolo, i cui seguaci portarono avanti una simile prospettiva. Ma Lenin si batté con forza contro questa visione.
L’idea che il proletariato non potesse realizzare un cambiamento rivoluzionario utilizzando la struttura statale esistente, ma solo attraverso il suo rovesciamento, giunge a noi direttamente da Marx ed Engels. Era una conclusione che essi trassero dall’esperienza della Comune di Parigi del 1871.
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Ancora più sorprendente è la tesi di Blanc, citata in precedenza, secondo cui i “leninisti” sono restii a combattere per i diritti democratici. Un’affermazione così generica e priva di fondamento va contro tutte le prove.
È vero, si possono indubbiamente trovare alcuni sedicenti gruppi e partiti leninisti che sottovalutano questo tipo di lotta. Ma non esiste una simile sottovalutazione in Lenin, Trotsky, nel primo Comintern o in molti altri che si richiamano a questa tradizione.
L’intera storia della battaglia dei bolscevichi in Russia mostra il contrario di ciò che sostiene Eric. Negli anni precedenti al 1917, la loro agitazione era centrata intorno alle cosiddette “Tre balene del bolscevismo”[3]: le otto ore di lavoro, la confisca delle proprietà terriere e una repubblica democratica. Anche durante il 1917 gran parte della loro agitazione si basava su rivendicazioni democratiche.
In seguito alla vittoria della rivoluzione, il primo movimento comunista proseguì su questa posizione, come dimostrato chiaramente nella serie di libri sul Comintern a cura di John Riddell.
Allo stesso modo, oggigiorno, coloro che si richiamano all’eredità e alla tradizione di Lenin sono attivi nel movimento per i diritti civili, nella lotta per i diritti delle donne, la libertà per i prigionieri politici, i diritti degli immigrati e per molte altre questioni democratiche. Di fatto, la maggior parte delle lotte nel mondo imperialista oggi ruota intorno a rivendicazioni democratiche.
Il governo operaio: realtà e fantasia
Anche il commento di Eric sul primo Comintern è erroneo. Egli scrive:
«[Gli] elementi più perspicaci della prima Internazionale Comunista cominciarono in breve tempo a ritornare all’approccio di Kautsky nel 1922–23, sostenendo l’elezione parlamentare di “governi dei lavoratori” come primo passo verso la rottura».
Questa affermazione è del tutto inesatta. Nel quarto congresso dell’Internazionale comunista del 1922 si svolse infatti un dibattito sulla questione del governo operaio e venne adottata una risoluzione al riguardo. Ma in nessun momento quel congresso propose che un governo operaio potesse essere insediato da “elezioni parlamentari”, come sostiene Eric. Al contrario.
Questa risoluzione, che analizza le varianti del governo operaio, inizia con due di esse che definisce “governi operai solo apparenti”:
«(1) un governo operaio liberale: tale tipo di governo esisteva in Australia e sarà prossimamente possibile in Inghilterra; (2) un governo operaio socialdemocratico (Germania)»[4].
E si afferma:
«I primi due tipi non sono governi operai rivoluzionari, ma in realtà governi camuffati di coalizione nascosti fra borghesi e capi operai anti‑rivoluzionari».
Come si può vedere, tali governi non furono certamente “caldeggiati”.
Un «vero e proprio governo operaio», afferma la risoluzione, «è possibile soltanto se nasce dalle lotte delle masse stesse». Il significato di una «combinazione parlamentare» sta nel fatto che può «dar luogo ad una ripresa del movimento operaio rivoluzionario»[5]. Si veda, su questo sito, la Risoluzione sui governi operai del Comintern.
Inoltre, il concetto di governo operaio derivava in gran parte dall’esperienza del movimento comunista tedesco. Dopo la realizzazione, nel 1920, del Putsch di Kapp, con cui la destra reazionaria mirava a rovesciare il governo democratico borghese tedesco, i lavoratori si impegnarono nello sciopero generale probabilmente più perfetto della storia e iniziarono a formare distaccamenti operai armati. Terminata questa mobilitazione, venne lanciato un appello per un governo di tutti i partiti dei lavoratori. Dopo qualche discussione, il partito comunista diede il suo sostegno a questa iniziativa.
Così il governo operaio (e in seguito il governo operaio e contadino) fu direttamente collegato dal Comintern alla lotta rivoluzionaria, non semplicemente alla vittoria dei partiti operai alle elezioni borghesi.
Certo, ci sono stati esempi in cui le vittorie elettorali della classe operaia – e le reazioni scatenate dalla classe dominante – sono state la scintilla che ha prodotto delle lotte rivoluzionarie. I rivoluzionari e i leninisti non hanno mai scartato questa possibilità.
L’esempio della Finlandia che Eric cita – in cui una vittoria elettorale della classe operaia portò all’inizio di una lotta rivoluzionaria nella quale i lavoratori ebbero l’opportunità di prendere il pieno potere nelle loro mani – è una dimostrazione di come ciò possa accadere. Ma ci vuole uno sforzo di immaginazione per costringere la rivoluzione finlandese e la guerra civile nel quadro di una “via democratica al socialismo”.
La Rivoluzione russa e il percorso elettorale
Blanc etichetta la Rivoluzione di ottobre del 1917 in Russia come «una rivoluzione che rovesciò uno Stato autocratico, non capitalista, non un regime parlamentare». Questo non è del tutto vero.
Quest’affermazione potrebbe essere una rappresentazione corretta della Rivoluzione del febbraio 1917 che rovesciò il regime zarista. Ma è totalmente erronea quando descrive la Rivoluzione di ottobre che rovesciò il governo provvisorio: un governo capitalista, non uno “non capitalista”. Inoltre, un organo eletto democraticamente esisteva da prima di ottobre, ma non era un parlamento borghese; erano i soviet, eletti da operai e soldati, in cui i bolscevichi ottennero la maggioranza. Nel corso del 1917, Lenin e i dirigenti bolscevichi avevano ripetutamente sottolineato che avrebbero rispettato la volontà democratica della maggioranza dei lavoratori, espressa nei soviet. L’insurrezione di ottobre che rovesciò il governo provvisorio rappresentò la difesa di questa volontà democratica della classe operaia contro un tentativo da parte del governo e delle forze controrivoluzionarie di sopprimere i soviet. In questo senso, la Rivoluzione d’ottobre potrebbe davvero essere vista come un esempio della “via democratica al socialismo”, per quanto l’opposto della concezione di Kautsky al riguardo.
Mentre vittorie elettorali possono occasionalmente aprire la strada a una lotta rivoluzionaria, non si riscontra alcun esempio nella storia in cui una transizione al socialismo sia stata vittoriosamente raggiunta soltanto attraverso mezzi pacifici ed elettorali.
Ovviamente una transizione così pacifica sarebbe preferibile allo sconvolgimento rivoluzionario. Ma è mai esistita storicamente una classe dominante che abbia ceduto tranquillamente e pacificamente il suo potere? Riuscirebbe la borghesia a stringere la mano al proletariato dicendo cavallerescamente: “Hai vinto onestamente. Ecco le chiavi del nostro governo e delle nostre fabbriche. Buona fortuna”? Non credo proprio!
Affermare che il percorso elettorale ed evolutivo verso il socialismo non è possibile non significa affatto scartare tutte le possibilità e le opportunità che le elezioni e le campagne elettorali possono fornire alla classe operaia e ai suoi partiti. Ma come mostrano gli esempi di Finlandia, Spagna, Cile e altri Paesi, seminare illusioni tra i lavoratori rispetto a una “via elettorale al socialismo” è una ricetta per il disastro e la sconfitta.
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In questa risposta ho deliberatamente evitato di legare questi argomenti storici ai dibattiti attuali su Bernie Sanders, sul lavoro all’interno del Partito Democratico, sugli approcci elettorali e così via. La documentazione storica del movimento socialista non deve mai essere distorta per supportare una particolare agenda politica. Farlo significherebbe rendere un cattivo servizio alle molte migliaia di giovani oggi attratti dal socialismo.
[*] Mike Taber ha in preparazione un volume che raccoglie tutte le risoluzioni adottate dai congressi della Seconda Internazionale tra il 1889 e il 1912. È anche autore di The Communist Movement at a Crossroads: Plenums of the Communist International’s Executive Committee, 1922–23 e coautore di The Communist Women’s Movement 1920–1922.
(Traduzione di Valerio Torre)
Note
[1] Https://jacobinmag.com/2019/04/karl-kautsky-democratic-socialism-elections-rupture.
[2] Tutti i testi di Kautsky citati qui sono reperibili nel Marxists Internet Archive.
[3] Trotsky riferisce (Storia della Rivoluzione russa, Arnoldo Mondadori Editore, 1978, vol. I, cap. 16, pp. 342) che le tre parole d’ordine di cui al testo erano familiarmente così definite in riferimento alla credenza popolare per cui il globo terrestre si sosterrebbe poggiando su tre balene [Ndt].
[4] John Riddell (ed.), Toward the United Front: Proceedings of the Fourth Congress of the Communist International 1922 (Historical Materialism Book Series, 2012), pp. 1160‑1.
[5] Ibidem, p. 1099.