Con la pubblicazione del sesto saggio scritto da Gilberto Calil concludiamo la presentazione della serie “Gramsci e il fascismo”, che abbiamo voluto proporre per gettare le basi di una riflessione teorica che possa consentirci di fissare dei paletti per avviare seriamente un dibattito sul fascismo: «un dibattito – come scrivevamo nell’epigrafe del primo di quelli pubblicati – molto spesso eclettico, fondato sull’empirismo e sull’impressionismo, e privo dei fondamenti teorici che dovrebbero invece guidarlo».
Confidiamo di essere almeno riusciti nell’intento di preparare il campo sul quale mettere alla prova la realtà odierna per verificarla alla luce della teorizzazione gramsciana di un concetto oggi controverso, qual è quello del “fascismo”.
Buona lettura.
La redazione
Gramsci e il fascismo
Il comportamento della grande borghesia
Gilberto Calil [*]
L’interpretazione di Gramsci elaborata durante il processo di ascesa del fascismo ha identificato elementi fondamentali per la comprensione del fascismo non solo in Italia, ma anche in altre configurazioni storiche: la sua base sociale fondamentalmente piccolo borghese, la complicità delle istituzioni dello Stato e della magistratura e il modo in cui la sua affermazione sia stata facilitata dalla negligenza del socialismo riformista e della burocrazia sindacale. Nei suoi scritti emerge con chiarezza la comprensione che il fascismo non nasce come espressione normale e diretta della grande borghesia, ma, al contrario, che nelle sue prime fasi di sviluppo si scontra con il regime liberale in un momento in cui è ancora vigente la forma di dominazione borghese. A partire da qui pone una questione importante: in che modo la grande borghesia si relaziona col fascismo durante la sua ascesa fino all’arrivo al governo e alla riconfigurazione del regime politico con la distruzione delle istituzioni liberali?
Il punto di partenza della riflessione gramsciana è il riconoscimento della fragilità della democrazia e la comprensione che questa fragilità si spiega con le limitazioni di una borghesia reazionaria, costituendo un regime autocratico in cui non si è mai verificato lo sviluppo di una democrazia liberale: «l’assenza nei borghesi di ogni spirito di civismo e di lealismo verso le istituzioni ha sempre impedito l’esistenza di uno Stato parlamentare bene ordinato»[1]. Conseguentemente, di fronte alla sfida rappresentata dall’organizzazione dei lavoratori, non era possibile attendersi alcun compromesso democratico della borghesia: «La realtà ha mostrato nel modo più evidente che la legalità è una sola ed esiste fin dove essa si concilia con gl’interessi della classe dominante»[2]. La sua adesione al liberalismo era puramente strumentale:
«Il giorno in cui il suffragio ed il diritto di organizzazione sono divenuti mezzi di offesa contro la classe padronale, questa ha rinunziato ad ogni legalità formale ed ha obbedito solo alla sua vera legge, alla legge del suo interesse e della sua conservazione. I comuni sono stati strappati uno a uno con la violenza alla classe operaia; le organizzazioni sono state sciolte con l’uso della forza armata; la classe operaia e contadina è stata scacciata dalle sue posizioni, dalle quali minacciava troppo l’esistenza della proprietà privata. È sorto così il fascismo, il quale si è affermato ed imposto, facendo della illegalità l’unica cosa legale. Niente organizzazione, se non quella fascista; niente diritto di voto, se non per darlo ai rappresentanti agrari ed industriali. Questa la legalità che la borghesia riconosce, quando essa è costretta a ripudiare l’altra formale»[3].
Bisogna evidenziare che questo giudizio, che si riferisce chiaramente all’imposizione delle leggi d’eccezione fasciste, è stato avanzato più di un anno prima dell’ascesa di Mussolini al governo, il che evidenzia ancor più la capacità d’analisi di Gramsci quando ha compreso che «esiste un punto nella storia, in cui la borghesia è costretta a ripudiare ciò che essa stessa ha creato»[4]. Credere nell’esistenza di una borghesia sistematicamente liberale sarebbe dunque un grave errore: «Chiamare liberali i borghesi di oggi, che del valore morale della libertà hanno perduto la coscienza è perciò assai peggio che stranezza, così com’è mancanza assoluta di comprensione politica credere liberali i partiti borghesi odierni, o, peggio ancora, il blocco nel quale essi sono scomparsi»[5].
Non c’era, pertanto, spazio alcuno per dubbi o speranze in relazione a qualsiasi compromesso democratico o legalista della borghesia: «La classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del “popolo delle scimmie”, della piccola borghesia»[6].
Mussolini, come la maggior parte dei dirigenti fascisti, era un personaggio grottesco e intellettualmente limitato, che appariva incompatibile con la superba borghesia italiana, sedicente erede della tradizione classica. Pareva dunque una specie di “mostro”, e molti ritenevano che sarebbe stato ben presto ripudiato dai colti borghesi italiani. Ma Gramsci non condivise mai quest’illusione:
«Oggi i borghesi, mezzo impauriti e mezzo stupefatti, guardano a quest’uomo [Mussolini] che si è messo ai loro servizi come ad una specie di nuovo mostro, rivoluzionatore di situazioni reali e creatore di storia. Nulla di più falso. L’incapacità di saldare insieme gli anelli di una costruzione storica è tanto grande nel blanquismo di questo epilettico quanto lo è nel sovversivismo malthusiano dei D’Aragona e dei Serrati. Sono tutti di una sola famiglia. Rappresentano, l’uno quanto gli altri, una stessa impotenza. […] La lotta contro le rivendicazioni e la resistenza contro la riscossa operaia partono da basi ben più concrete, ma è senza dubbio significativo, per la serietà della vita politica italiana, che al culmine di una costruzione che è tenuta assieme da un poderoso sistema di forze reali si trovi quest’uomo che si diletta a fare i giochi di forza e a masturbarsi colle parole»[7].
In tal modo, mesi prima dell’arrivo al potere di Mussolini, Gramsci già vedeva nel fascismo l’espressione organica della borghesia, comprendendo che il processo di adattamento tra il movimento e la classe dominante si stava ormai concretizzando:
«[…] il fascismo è un movimento sociale, è l’espressione organica della classe proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrice […] In questa lotta l’iniziativa appartiene ancora alla classe proprietaria, come al fascismo appartiene l’iniziativa della guerra civile: la classe lavoratrice è la vittima della guerra di classe e non può esserci pace tra la vittima e il carnefice»[8].
Tragicamente, la storia italiana successiva avrebbe dato ragione a Gramsci e, come un sol blocco, la grande borghesia italiana nelle sue diverse frazioni avrebbe appoggiato l’ascesa e il consolidamento del fascismo, senza esitazioni o crisi di coscienza. Credere nelle convinzioni liberali della borghesia era per Gramsci una pericolosa illusione analoga alla fiducia nelle istituzioni dello Stato e della magistratura.
[*] Gilberto Calil è Dottore di ricerca in Storia all’Università Federale Fluminense (Uff) ed è docente del corso di Storia e del Programma di Dottorato in Storia dell’Università Statale del Paranà occidentale (UniOeste). È componente del Gruppo di ricerca Storia e Potere. È autore, tra gli altri libri, di Integralismo ed egemonia borghese (EdUniOeste, 2011) ed effettua ricerche su Stato, Potere, Destra, Egemonia, Dittatura e Fascismo.
(Traduzione di Valerio Torre)
Note
[1] Gramsci, Antonio. “O Estado Operário”. In: Escritos Políticos, Volume 2, 1921‑1926. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, p. 29.
[2] Gramsci, Antonio. “Legalidade”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 84.
[3] Idem, pp. 84–85.
[4] Idem, p. 85.
[5] Gramsci, Antonio. “Liberalismo y bloques”. In: Sobre el fascismo. México: Ediciones Era, 1979, p. 77.
[6] Gramsci, Antonio. “O povo dos macacos”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 33.
[7] Gramsci, Antonio. “Subversivismo reacionário”. In: Escritos Políticos, op. cit. pp. 69–70.
[8] Gramsci, Antonio. “El verdugo y la víctima”. In: Sobre el fascismo, op. cit., p. 84.