Il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ha disposto che venga commemorato il golpe militare che il 1° aprile 1964 fece sprofondare il Brasile in una feroce dittatura che durò vent’anni.
Bolsonaro – che durante la sua vittoriosa campagna elettorale si è ripetutamente espresso in favore di quel regime militare, dichiarando il proprio appoggio ai metodi di tortura ed esaltando i torturatori, ma sostenendo addirittura che l’errore della dittatura fu di avere troppo torturato e poco ucciso gli oppositori – vuole in tutta evidenza “riscrivere” la storia di una democrazia troppo fragile, ancor più rinsaldando il proprio legame con la potente corporazione dei militari, vero e proprio puntello del governo in carica.
Il popolo brasiliano sa però che non c’è nulla da commemorare. Al contrario, va recuperata – e diffusa – la verità su quel periodo che spalancò le porte della “succursale dell’inferno” (come uno dei torturatori disse al monaco domenicano, frate Tito, introducendolo nelle sale dove sarebbe stato sottoposto a una ferocissima tortura, che si trasformò in un autentico martirio culminato poi nel suicidio).
Per questa ragione, pubblichiamo questo drammatico articolo, con l’avvertimento che alcune delle fotografie che lo corredano possono colpire la sensibilità dei lettori per la loro crudezza.
La redazione
La succursale dell’inferno
Uccisero dei ragazzi: il 56% degli assassinati durante la dittatura aveva meno di 30 anni. Sono i ragazzi accusati dai difensori del colonnello Brilhante Ustra di voler insediare la “dittatura del proletariato” nel Paese
Cynara Menezes
Nel pomeriggio del 28 marzo 1968, quattro anni dopo il golpe militare, un gruppo di poliziotti armati fece irruzione nella mensa Calabouço, nel centro di Rio de Janeiro. L’intenzione era di reprimere la protesta del movimento studentesco contro i prezzi della mensa, che costituiva un centro di incontro e di discussione politica dell’opposizione giovanile alla dittatura. All’ingresso, mentre aveva in mano un vassoio, lo studente liceale Edson Luís de Lima Souto, diciottenne, fu colpito a bruciapelo in petto, morendo all’istante.
Edson, il primo studente assassinato dal regime, è una della 434 vittime ufficialmente riconosciute dalla dittatura militare in Brasile. Questo blog ha realizzato un’analisi statistica per età fra i morti e gli scomparsi e ha scoperto che il 56% di essi erano giovani come lui, avevano meno di 25 anni. Sono questi i ragazzi che vengono accusati dai difensori del colonnello Brilhante Ustra[1] di voler insediare la “dittatura del proletariato” nel Paese, e che per questo furono barbaramente torturati e giustiziati.
Questa logica è, oltre che cinica, ingannevole. Non si può paragonare il potere militare dello Stato, con i suoi blindati, fucili, mitragliatrici, bombe e soldati armati fino ai denti, ad alcune decine di giovani che abbracciarono la guerriglia col sogno di sconfiggere un regime violento. Solo qualche stupido (o in cattiva fede) può bersi la fandonia dei militari che avrebbero utilizzato la tortura per “evitare che il Brasile fosse trasformato in Cuba”. Per accettare questa conclusione si dovrebbe ammettere che un governo militare sostenuto dagli Stati Uniti era “fragile”, piuttosto che costituito da bruti feroci rispetto ai quali i miliziani della lotta armata assomigliavano più a un’armata Brancaleone.
Ora, la prima intenzione dei guerriglieri era farla finita con la dittatura militare; ciò che avrebbero fatto in seguito poco importa, ancor più quando sappiamo che questa vittoria non si sarebbe mai concretizzata data la sproporzione fra le due parti contendenti. Ciò che gli adepti della lotta armata fecero può tutt’al più essere considerato un sabotaggio del regime. Cosa del tutto legittima, trattandosi di lottare contro la tirannia. Erano, pertanto, degli eroi. Chi li definisce “terroristi” è connivente col terrorismo di Stato perpetrato per ventun anni nel nostro Paese.
Ma la cosa più grave è che questa menzogna nasconde un fatto facilmente dimostrabile se si studiano le biografie di quelli che furono assassinati dal regime. I difensori del Dops[2] e del Doi‑Codi[3] considerano i torturati e gli assassinati come se fossero tutti dei Lamarca[4] o dei Marighella[5]. E invece, molti di loro avevano traiettorie simili a quella di Edson Luís: partecipazione embrionale o nulla alla militanza politica. «Nel primo periodo, la repressione era rivolta contro la lotta armata. Dopo l’AI‑5[6] si diresse contro chiunque fosse contro la dittatura», disse l’ex deputato Adriano Diogo, che aveva presieduto la Commissione per la Verità a San Paolo. «Io stesso non ho mai maneggiato un’arma e sono stato per novanta giorni in isolamento nella Oban»[7].
In quegli anni, partecipare a un corteo contro il governo bastava per beccarsi un colpo in pieno viso. Ad esempio, uno di quei reazionari che [nel 2015 e nel 2016] scendeva in piazza per imprecare contro il governo di Dilma Rousseff, [se fosse stato a quei tempi] avrebbe potuto essere assassinato senza alcuna giustificazione, come accadde a Edson Luís e al goianiense Ornalino Cândido da Silva.
Ornalino era uno degli studenti che, nel 1968, si ribellarono contro la dittatura ispirandosi a Edson Luís. Il suo “errore” fu di partecipare a una manifestazione contro il governo nella città di Goiânia, dove abitava, il 1° aprile, esattamente quattro anni dopo il golpe. Quando il corteo già si stava sciogliendo cadde in un’imboscata: armati di fucili, mitragliatrici, bombe, pistole e manganelli, la polizia militare si abbatté violentemente sugli studenti. Un sergente puntò l’arma alla tempia sinistra di Ornalino e sparò. Aveva 19 anni.
In alcuni casi era sufficiente essere un giovane: anche senza nessuna prova di appartenere a un movimento o un’organizzazione clandestina, i militari si ritenevano in diritto di fare irruzione nella sua casa e semplicemente scomparire con lui. Paulo Torres Gonçalves, anch’egli diciannovenne, era uno studente liceale e dipendente della Ibope a Rio, e della sua militanza non è stata mai sinora fornita alcuna prova. Il 26 marzo 1969, i suoi genitori ebbero notizia che era stato arrestato dal Dops, chissà per cosa, e che sarebbe stato in breve rilasciato. Non è mai stato ritrovato.
La mattina del 21 giugno 1968, che passò alla storia come il “venerdì di sangue”, gli studenti stavano realizzando una manifestazione di fronte al palazzo del vecchio Ministero dell’Istruzione e della Cultura (Mec), nel centro di Rio de Janeiro, quando all’incrocio fra le vie México e Santa Luzia agenti del Dops, della Polizia federale e soldati della Polizia militare gridarono che avrebbero sparato per uccidere. E lo fecero. Tre ragazze che partecipavano alla protesta caddero ferite. Colpita al volto, la commerciante Maria Ângela Ribeiro, di 22 anni, morì in seguito alle ferite riportate.
Poiché vivevamo in uno stato d’eccezione, i militari, inclusi quelli di basso rango, si comportavano come i padroni del Brasile, facendo irruzione nelle proprietà private quando avessero voluto. Nel giugno del 1968, due civili e due militari in borghese entrarono nel bar e pensione Estrela Dalva, nella città di Francisco Beltrão, Stato del Paraná, e tentarono di introdursi nelle stanze senza autorizzazione. Furono bloccati dal dipendente Iguatemi Zuchi Teixeira, di 24 anni, e ne derivò una colluttazione. Il giorno successivo, Iguatemi fu prelevato e portato nella caserma dell’esercito e non è più tornato.
«Avvocato, veda di tirarmi fuori di qui oggi stesso. Mi stanno massacrando di botte. Non riuscirei a reggere un’altra notte», disse al suo difensore alcuni giorni prima di essere ucciso da uno dei soldati con cui aveva avuto quell’alterco. Nella perizia cadaverica era scritto che Iguatemi era morto «a causa di veleno, fuoco, esplosivo, asfissia o tortura, o di altro mezzo insidioso o brutale, dato il numero e il tipo di lesioni riscontrate». La causa della morte era «anemia acuta per emorragia interna ed esterna provocata da ferite penetranti all’addome e al torace» provocate da «strumento perforante‑contundente».
Si parla molto di militari innocenti uccisi durante attentati dei guerriglieri, come nel caso di Mário Kozel Filho. E i militari innocenti torturati e uccisi dagli stessi militari? Il sergente maggiore dell’esercito, Manoel Alves de Oliveira, di 29 anni, fu portato via da casa sua nell’aprile del 1964, sotto gli occhi della moglie e dei suoi cinque figli piccoli, da un uomo in borghese accompagnato da altri anch’essi in abiti civili, che lo caricarono a bordo di un furgone. Fu torturato con ferri roventi e sottoposto a scariche elettriche, con l’unica accusa di essersi candidato alla presidenza del Club dei Sottotenenti e Sergenti dell’esercito e di simpatizzare per l’ex presidente João Goulart.
«Una delle poche volte che sono riuscita a visitarlo ho constatato che il suo corpo era ricoperto di segni che più tardi ho saputo essere dovuti a ferri incandescenti. Era diventato un vero flagellato, con barba e capelli lunghi», dichiarò sua moglie, Norma Conceição, al non più edito giornale Correio da Manhã, nel settembre del 1964. Quando Norma poté rivederlo, era morto.
La farsa dei “suicidi” non venne recitata solo col giornalista Vladimir Herzog. Era una cosa del tutto normale per il regime assassinare qualcuno e poi inscenare “il suicidio” della vittima. Il ferroviere José Nobre Parente aveva 38 anni quando fu arrestato, nel Ceará, con l’accusa di far parte del movimento dei lavoratori della Rete Ferroviaria Federale (Rffsa). Due giorni dopo, il 19 maggio 1966, la moglie di Parente andò a trovarlo e sentì il poliziotto dare ordini alla guardia carceraria di verificare se il detenuto fosse «in condizione di ricevere visite», ma Parente era già morto in cella. Si sarebbe “impiccato” con una cinghia, quando invece proprio il giorno prima la stessa Francisca aveva ritirato gli effetti personali del marito: un anello, la fede nuziale, l’orologio … e la cinghia.
Ai lavoratori delle ferrovie fu proibito di partecipare alla veglia funebre e ai funerali, ma molti non rispettarono l’ordine e scavalcarono i muri dell’azienda per recarvisi. Durante la cerimonia, il fratello della vittima, Valfredo, ricevé il certificato di morte, in cui la causa del decesso era attribuita a “frattura cranica”. Per aver denunciato l’incredibile modifica, Valfredo finì per essere arrestato. La farsa del suicidio si sarebbe completata quattro anni dopo, nel 1970, con un nuovo certificato in cui veniva riportata la “asfissia meccanica per compressione del collo, impiccagione” come causa della morte di José Nobre Parente.
Studente liceale, Ismael Silva de Jesus era militante del Pcb (Partido Comunista Brasileiro) e fu arrestato a Goiânia tre giorni prima che compisse i 19 anni, nell’agosto del 1972. Fu brutalmente pestato e fu sottoposto a tortura con scariche elettriche, ma il suo corpo fu consegnato alla famiglia come se si fosse ucciso con una corda di persiana per la “vergogna di essere stato arrestato”. La verità sarebbe saltata fuori solo nel 1991.
E così pure, presunti disertori della guerriglia furono vittime di “suicidi” sospetti. Celebrato dai media golpisti dell’epoca come un “terrorista pentito” ed esibito dalla dittatura come propagandista contro i ribelli, Massafumi Yoshinaga era stato vicepresidente dell’Unione degli studenti di San Paolo e aveva militato nella Vpr (Avanguardia popolare rivoluzionaria), benché non avesse partecipato a nessuna azione armata. A metà degli anni 70, ventunenne, si sarebbe volontariamente consegnato agli organismi della sicurezza.
Da quel momento, cominciò ad apparire in radio e in televisione come “ex terrorista”, ma ben presto iniziò a soffrire di problemi psicologici: oggi si sa che alcuni di questi “pentimenti” erano anche il risultato della tortura. Yoshinaga prese a soffrire di allucinazioni ripetendo che l’Oban lo avrebbe ucciso. Si sottopose a cure psichiatriche e fu anche internato, ma per tre volte tentò il suicidio: la prima volta si gettò da un autobus in corsa, la seconda da una finestra e al terzo tentativo morì. Si impiccò in casa con un tubo di plastica della doccia.
Un altro suicidio sospetto fu quello in cui trovò la morte Esmeraldina Carvalho Cunha, quarantanovenne di Bahia, trovata morta in casa con un filo elettrico avvolto intorno al collo nell’ottobre del 1972. Da un anno Esmeraldina rivolgeva petizioni ai militari, non rassegnandosi alla morte della sua figlia minore Nilda, di soli 17 anni, dopo due mesi di torture a Salvador. Nilda era stata arrestata nell’agosto del 1971 mentre si trovava nell’appartamento in cui fu uccisa Iara Iavelberg, compagna di Carlos Lamarca. Tra le torture a cui fu sottoposta, Nilda fu obbligata a toccare il corpo freddo della guerrigliera uccisa. Quando la studentessa fu rilasciata aveva sintomi di improvvisa cecità, depressione e allucinazioni.
Ricoverata in un ospedale della capitale baiana, la ragazza ricevé la “visita” del maggiore Nilton de Albuquerque Cerqueira, che minacciò di arrestarla di nuovo se non “l’avesse fatta finita con le sue manie”, come riferiscono i giornalisti Oldack Miranda e Emiliano Neto nel libro Lamarca, o Capitão da Guerrilha. La salute di Nilda peggiorò fino alla morte, avvenuta nel novembre del 1971. Dalla sua cartella clinica si apprende che non mangiava, vedeva soldati nella stanza e ripeteva che sarebbe morta. Non si conosce l’esatta causa del decesso. Nel certificato di morte si legge “edema cerebrale da confermare”. Poco prima di “suicidarsi”, sua madre Esmeraldina ricevé la visita di uno sconosciuto che le portò un messaggio: «Il maggiore la avvisa che se non chiuderà la bocca, saremo costretti a farlo noi».
La vigliaccheria dei militari si manifestò anche nei confronti dei più anziani. Leopoldo Chiapeti aveva 58 anni quando fu arrestato in casa sua, nella città di Mariano Moro (Rio Grande do Sul), il 30 aprile 1964, con l’accusa di appartenere al “Gruppo degli undici” legato a Leonel Brizola[8]. Durante la sua detenzione fu tenuto per un mese nudo e nell’impossibilità di comunicare con l’esterno: in quel periodo fu sottoposto a tortura con la corrente elettrica, anche ai genitali, e annegamenti in acqua gelata. Non si riprese mai dalle torture subite e morì l’anno successivo.
Durante la caccia ai guerriglieri nella zona del fiume Araguaia, i militari fecero terra bruciata dietro di sé, torturando e uccidendo i contadini che trovavano sulla loro strada. Sebastião Vieira da Silva fu arrestato e torturato da truppe dell’esercito davanti agli occhi di familiari e vicini di casa il 19 gennaio 1972 a Poço Azul, nel comune di São Geraldo do Araguaia, dove viveva con la moglie e i figli. I soldati cercavano informazioni su una guerrigliera chiamata “Dina”. Prima di lasciare il posto, uccisero gli animali e distrussero la fattoria di famiglia con la scusa che sarebbero potuti servire per rifornire i guerriglieri. Sebastião morì una settimana dopo, in conseguenza delle torture.
Se la dittatura si comportava così con cittadini comuni, quando invece si trattava di qualcuno che di fatto aveva legami con la lotta armata la cosa diventava ben più terrificante, a nulla importando l’età del soggetto. Lo studente di San Paolo Eremias Delizoicov, militante della Vpr, fu ucciso a Rio de Janeiro quando aveva diciott’anni, nell’ottobre del 1969, crivellato da 19 colpi di fucile, dopo che il “nascondiglio” in cui si trovava era stato accerchiato dall’esercito. I genitori non si videro mai restituiti i resti mortali del ragazzo.
Eremias restò così deformato dal nugolo di proiettili che, nella sua testimonianza dinanzi alla Commissione di Verità, il giornalista Urariano Mota affermò: «Nella foto non riconosco Eremias. L’immagine è di un cadavere di 18 anni trapassato da pallottole, dal volto irriconoscibile perché tutto una ferita, dai capelli così bagnati e sporchi di coaguli di sangue che danno l’impressione che Eremias galleggi sul pavimento asciutto».
Tutte queste tragedie e altre ancora possono essere verificate nella relazione della Commissione Speciale sugli Assassinati e Scomparsi Politici. Soltanto conoscendo la verità si è capaci di giudicare, e non dando ascolto a politici e giornalisti dell’estrema destra reazionaria, interessati solo a falsificare i fatti per renderli compatibili con la propria ideologia.
Chi conosce la storia e continua ad appoggiare l’azione di torturatori e assassini che si nascondono dietro la menzogna per cui essi stavano “salvando il Brasile da una dittatura comunista” o è complice, oppure è tanto folle quanto lo è stato Brilhante Ustra.
(Traduzione di Valerio Torre. Tutte le note sono della redazione)
Note
[1] Il colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra fu a capo del Doi‑Codi (v. nota 3) teorizzando e attuando pratica di tortura estreme. Nel 2008 venne riconosciuto colpevole di tortura.
[2] “Departamento de Ordem Política e Social”. Si trattava di un organismo che aveva il compito di assicurare e disciplinare l’ordine militare nel Paese.
[3] “Destacamento de Operações de Informação – Centro de Operações de Defesa Interna”. Era un organismo, subordinato all’esercito, con compiti di intelligence e di repressione.
[4] Carlos Lamarca era un capitano dell’esercito brasiliano che disertò per diventare un membro della guerriglia comunista.
[5] Carlos Marighella è stato un guerrigliero, rivoluzionario, scrittore e politico brasiliano.
[6] “Ato Institucional Número Cinco”. Fu il quinto di diciassette decreti di legislazione eccezionale emanati dalla dittatura militare. Con l’AI‑5 vennero revocati i mandati ai parlamentari critici verso il regime e soppresse tutte le garanzie costituzionali, di fatto istituzionalizzando la tortura.
[7] “Operação Bandeirante”. L’Oban era stato costituito come centro di intelligence e di indagine. Benché composto da membri dell’Aeronautica, della Marina, dell’Esercito e della Polizia (ma anche del governo dello Stato di San Paolo), funzionò essenzialmente come un organismo paramilitare, finendo per diventare un centro di tortura e morte.
[8] Organizzazione fondata dal politico nazionalista Leonel Brizola.