Presentiamo oggi ai nostri lettori il quinto articolo della serie “Gramsci e il fascismo”, dello storico brasiliano Gilberto Calil, che in questo saggio ci espone l’analisi di Antonio Gramsci a proposito della suicida politica della burocrazia sindacale della Confederazione Generale del Lavoro e di quella politica del Partito socialista: una politica di pacificazione e conciliazione con i fascisti, che indebolì il movimento operaio lasciando campo libero alle reazionarie forze dello squadrismo.
Buona lettura.
La redazione
Gramsci e il fascismo
La criminale negligenza della burocrazia sindacale
Gilberto Calil [*]
Uno degli elementi centrali dell’intuizione di Gramsci sull’ascesa del fascismo passa attraverso la sua critica alla politica di pacificazione dei socialisti riformisti, come già abbiamo rilevato in un articolo precedente. Una dimensione particolarmente drammatica di questa politica era resa evidente dalla direzione impressa dai socialisti alla Confederazione Generale del Lavoro (Cgl), principale centrale sindacale italiana. Quest’indirizzo, nell’analisi di Gramsci, era segnato dal riformismo, dall’arrendevolezza e dalla passività rispetto ai crimini fascisti. Nel marzo del 1921, dopo che venne celebrato il congresso della Cgl, Gramsci denunciava la scelta della direzione sindacale di non affrontare la minaccia fascista in un duro giudizio:
«Il congresso non ha impostato e non ha risolto neppure uno dei problemi vitali per il proletariato nell’attuale periodo storico: né il problema dell’emigrazione, né il problema della disoccupazione, né il problema dei rapporti tra operai e contadini, né il problema delle istituzioni che meglio possono contenere lo sviluppo della lotta di classe, né il problema della difesa materiale degli edifici di classe e della integrità personale dei militanti operai. L’unica preoccupazione della maggioranza del congresso è stata quella di salvaguardare e garantire la posizione e il potere (potere impotente) del Partito socialista»[1].
Questo “potere impotente” generava condizioni favorevoli alle aggressioni fasciste che sempre più avanzavano: «il campo della lotta rapidamente divenne tragico: fiamme d’incendio, cannonate, fuoco di mitragliatrici, decine e decine di morti»[2]. Aggressioni che avvenivano già un anno e mezzo prima dell’ascesa al potere si Mussolini, e con la totale complicità delle istituzioni dello Stato liberale.
L’indifferenza dei dirigenti sindacali rispetto alle fucilazioni di operai e contadini compiute dalle orde fasciste veniva spiegata da Gramsci col trasformismo di questi dirigenti, convertiti da lavoratori in burocrati lontani dalle condizioni concrete incontrate dalla classe operaia: «Questi uomini non vivono più per la lotta delle classi, non sentono più le stesse passioni, gli stessi desideri, le stesse speranze delle masse: tra loro e le masse si è scavato un incolmabile abisso, l’unico contatto tra loro e le masse è il registro dei conti e lo schedario dei soci. Questi uomini non vedono più il nemico nella borghesia, lo vedono nei comunisti; hanno paura della concorrenza, sono da capi divenuti banchieri d’uomini in regime di monopolio»[3].
Invece di resistere al fascismo, la burocrazia sindacale preferiva offrire i propri servigi di pacificazione della lotta di classe alla borghesia italiana. Nell’analisi di Gramsci, è la sua impotenza e l’incapacità politica che portarono al disastroso tentativo dei socialisti di un’intesa coi fascisti, concretizzata nel Patto di Roma – mai osservato dai fascisti – che in teoria avrebbe dovuto garantire rispetto reciproco ai simboli e all’integrità fisica dei militanti di entrambe le organizzazioni[4].
Burocratizzati, i sindacalisti non esercitavano più la leadership sui lavoratori, poiché «le masse non ubbidiscono più ai capi dai quali sono state abbandonate vilmente nel momento del pericolo e della strage»[5]. Pertanto, cessavano anche di essere utili alle classi dominanti, che senza grandi rimpianti si disfacevano degli antichi alleati, dato che «i capi sindacali sono apprezzati solo in quanto si suppone godano la fiducia delle grandi masse lavoratrici, solo in quanto possono evitare scioperi e possono convincere gli operai ad accettare con rassegnazione lo sfruttamento e l’oppressione del capitalismo»[6]. È per questa ragione che, pateticamente, non potendo agire come veri rappresentanti dei lavoratori, praticavano una politica vaga e suicida, indebolendo la resistenza al fascismo: l’incapacità di pensare alla realtà a partire dalla lotta di classe li portò a una conciliazione con i fascisti nell’esatto momento in cui questi colpivano e attaccavano i lavoratori e i contadini.
Pochi mesi dopo, Gramsci segnalava che l’attività sindacale era completamente devastata, ma che ciò non preoccupava minimamente i burocrati della Cgl:
«Gli Stenterelli[7] della Confederazione generale del lavoro sono permanentemente in vena di allegria. Intere regioni sono messe a ferro e a fuoco dalla guardia bianca, l’attività sindacale è completamente spezzata, non sussiste più nessuna garanzia costituzionale per gli individui e per le associazioni, gli operai e i contadini vengono fucilati impunemente da bande armate mercenarie che si spostano liberamente da provincia a provincia e da regione a regione, ma gli Stenterelli della Confederazione bo perdono perciò né l’appetito né il buon umore»[8].
A fronte dell’ascesa del fascismo e dell’aumento degli attacchi portati dai fascisti, la riflessione di Gramsci esprimeva una grandissima pena per le conseguenze facilmente prevedibili della politica di pacificazione e conciliazione condotta dai burocrati sindacali, così come dai dirigenti del Partito socialista. Al contrario, egli propugnava la necessità dell’organizzazione politica dei lavoratori per la resistenza, insieme all’orientamento della lotta politica per la costruzione di uno sciopero generale. In questo senso, evidenziò che era stata la realizzazione di uno sciopero generale di successo che nel marzo del 1920 aveva permesso di sconfiggere in Germania un golpe reazionario[9], e si entusiasmò per lo sciopero generale dei lavoratori di Torino contro la condanna di operai ingiustamente accusati[10].
Benché l’organizzazione del Partito comunista fosse in crescita, era ancora insufficiente per dirigere la resistenza e organizzare uno sciopero generale nazionale: ciò spiega l’angoscia di Gramsci, che vedeva il fascismo crescere quanto a organizzazione e violenza e – al contrario della direzione socialista – intravvedeva la concretizzazione di un golpe fascista.
[*] Gilberto Calil è Dottore di ricerca in Storia all’Università Federale Fluminense (Uff) ed è docente del corso di Storia e del Programma di Dottorato in Storia dell’Università Statale del Paranà occidentale (UniOeste). È componente del Gruppo di ricerca Storia e Potere. È autore, tra gli altri libri, di Integralismo ed egemonia borghese (EdUniOeste, 2011) ed effettua ricerche su Stato, Potere, Destra, Egemonia, Dittatura e Fascismo.
(Traduzione di Ernesto Russo e Valerio Torre)
Note
[1] Gramsci, Antonio. “Burocratismo”. In: Escritos Políticos. Volume 2, 1921‑1926. Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, p. 41.
[2] Idem, p. 41.
[3] Idem, p. 41.
[4] V., al riguardo, “Gramsci e il fascismo: Il fallimento della politica di pacificazione dei socialisti”.
[5] Gramsci, Antonio. “Os líderes e as massas”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 72.
[6] Idem, p. 73.
[7] «Stenterello è una maschera del teatro fiorentino, creata da Luigi Del Buono alla fine del XVIII secolo, che rappresenta il falso esperto». “Notas ao Texto”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 447.
[8] Gramsci, Antonio. “Golpe de Estado”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 77.
[9] Idem, p. 77.
[10] Gramsci, Antonio. “Contra a magistratura”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 102. Maggiori indicazioni su questo sciopero in “Gramsci e il fascismo: La complicità dello Stato e della magistratura”.