Riprendiamo la pubblicazione degli articoli della serie “Gramsci e il fascismo”, dello storico brasiliano Gilberto Calil.
È la volta di un testo con cui l’Autore esamina il rapporto tra il fascismo e i processi elettorali attraverso i quali esso cominciò ad affermarsi prima di trasformarsi in regime.
Buona lettura.
La redazione
Gramsci e il fascismo
Elezioni, governo e dittatura
Gilberto Calil [*]
L’instaurazione dei regimi fascisti in Italia e Germania passò attraverso i successi elettorali dei rispettivi partiti, ma ciò non significa che essa sia stata la diretta conseguenza delle consultazioni. Il consolidamento delle dittature fasciste si verificò in tre fasi successive: il raggiungimento di un risultato elettorale significativo (ma non maggioritario); l’arrivo al governo (benché senza maggioranza parlamentare) e il ripiegamento progressivo del regime, con la successiva distruzione delle garanzie e libertà democratiche. Nel caso tedesco, il Partito nazista (Nsdap) riuscì ad eleggere dei parlamentari nelle elezioni del 1930, nel quadro dell’aggravarsi della crisi economica conseguente al crack del 1929. Due anni dopo passò a 232 deputati, non raggiungendo neanche allora la maggioranza parlamentare. Fu nella condizione di forza minoritaria in parlamento che il Partito nazista, nel gennaio del 1933, venne portato al governo e che in breve cominciò a perseguitare i suoi avversari cercando di stabilire un regime apertamente dittatoriale. A tale scopo, utilizzò come principale pretesto, nel febbraio 1933, l’incendio del Reichstag (il parlamento tedesco), per il quale incolpò i comunisti.
In Italia, il processo fu più lento. Il Partito nazionale fascista si costituì sotto la direzione di Benito Mussolini nel 1919, a partire da un’altra organizzazione meno rilevante (il Partito rivoluzionario fascista). Il suo principale successo elettorale verso il potere si verificò nel maggio del 1921, quando elesse 35 deputati (poco più del 6% dei 535 parlamentari) all’interno della coalizione conservatrice Blocco nazionale, che elesse in tutto 105 deputati, Benché il centrosinistra diretto dal Partito socialista (123 deputati) e il centro sotto la guida del Partito popolare (108 deputati) avessero un numero maggiore di parlamentari, la grande frammentazione del parlamento determinò una crisi politica permanente che si aggravò durante due dei governi che si formarono in sequenza (Ivanoe Bonomi, socialista riformista, dal mese di luglio del 1921 al febbraio del 1922, e Luigi Facta, liberale, dal febbraio all’ottobre del 1922).
Alle elezioni del 1921, l’appena costituito Partito comunista d’Italia elesse solo 15 deputati. Alla vigilia delle consultazioni, Gramsci registrava la drammaticità di quel processo, considerando che «la guerra ha aperto la più grande crisi che la storia ricordi, crisi che non è di un governo o di uno Stato, ma di un regime e di un mondo», e che pertanto «la tattica seguita negli anni della pace e della tranquillità non serve più a nulla nel momento attuale»[1]. La politica di conciliazione dei riformisti sarebbe stata particolarmente inefficace: «Tutto ciò che una volta poteva sembrare un passo fatto in avanti, ogni azione che un tempo serviva a garantire un po’ di libertà, a dare un po’ di giustizia ai lavoratori, oggi non serve che a rendere più acuta la crisi, a far infierire i nemici, a suscitare reazioni più forti, a rendere più dura la vita e più aspra la battaglia»[2].
Dopo le elezioni, Gramsci segnalava che «i comunisti sono stati sconfitti» e che questa sconfitta era il prodotto di «una formidabile crisi di scoramento e di depressione». Quella sconfitta si era verificata in un contesto di forte coercizione imprenditoriale e di restrizione delle libertà, ma tali difficoltà non impedirono una dura analisi autocritica di Gramsci: «I comunisti sono perseguitati nelle fabbriche; in ogni sezione, due terzi delle persone hanno subito “ritorsioni”. La lotta elettorale – in funzione della dimensione universale data dal sentimento popolare – aveva un significato di affermazione della legalità borghese contro la barbarie e la ferocia fasciste. Il proletariato di Torino ha ritenuto di potersi disinteressare di questa affermazione. Quest’apatia non è un indicatore di capacità politica, ma, al contrario, è sintomo di disgregazione e di confusione mentale. […] L’astensione non può mai essere assunta come prova di capacità politica, ma è soltanto attestazione di disgregazione e di depravazione morale»[3]. Allo stesso modo, la responsabilità del Partito comunista d’Italia non veniva mascherata: «Lo scarso entusiasmo delle masse si giustifica in funzione dello scarso entusiasmo e della debolezza dei comunisti organizzati. Dev’essere compiuto un grande lavoro di riorganizzazione degli elementi migliori e più coscienti. Ma i comunisti non devono perdersi in processi di responsabilità formale. Il modo migliore di giudicare le responsabilità è costituire un’organizzazione più solida»[4]. Come abbiamo già sostenuto, Gramsci riteneva che la politica di conciliazione dei socialisti avrebbe condotto al disastro, per cui vedeva come unica alternativa il rapido e intenso rafforzamento dell’organizzazione dei comunisti, condizione necessaria per mettere in pratica la sua strategia di lotta al fascismo.
Nel febbraio del 1922, con la caduta del governo Bonomi, la crisi si aggravò e ancora una volta Gramsci segnalò la fragilità delle istituzioni dello Stato liberale e la sua completa perdita di legittimazione, registrando che «tutto il parlamento è, di fronte al Paese, un corridoio oscuro e senza via d’uscita»[5]. In tale contesto, la perdita di identità e di combattività del partito socialista lo faceva identificare con il deteriorato ordine vigente: «in alcune zone, specialmente agricole e di piccole regioni, vi sono strati inferiori di popolazione lavoratrice che non fanno più distinzione tra i due partiti»[6] [cioè, tra il Partito socialista e il Partito popolare]. Nella sua analisi, i tentativi di conservare qualche apparenza di legalità nel mezzo degli attacchi delle classi dominanti, che permeavano la politica di socialisti riformisti e popolari, avrebbe condotto al disastro: «[…] il nuovo regime riassumerà in sé i più loschi lineamenti delle tradizionali camorre nostrane coi tratti nuovi dello Stato socialdemocratico, spregiudicato, demagogo, ipocrita, corruttore e corrotto. Bonomi, da questo punto di vista, è stato un precursore vero»[7]. Il fascismo, benché si presentasse come esterno al sistema, sarebbe stato al contrario uno strumento per la sua riconfigurazione: «Per raggiungere completamente lo scopo, è però necessario attraversare dei periodi di assestamento. Uno di essi è stato rappresentato dalla crisi di violenza del fascismo. […] Un’altra fase del periodo di assestamento è rappresentata dalle crisi parlamentari. In parlamento si deve compiere la saldatura tra gli elementi direttivi delle vecchie e quelli delle nuove camorre»[8].
Quando Mussolini marcia su Roma con la sua milizia fascista e grazie a ciò ottiene le dimissioni del governo Facta e la propria nomina a primo ministro, Gramsci si trovava per cure mediche a Mosca. Da lì inviò un articolo ricapitolando i vari fattori che avevano condotto alla costituzione del governo Mussolini: la fragilità della borghesia italiana; la sua completa mancanza di impegno democratico; l’aggravamento della crisi di dominazione in considerazione dei tentativi di mantenere la stabilità del sistema attraverso concessioni paternalistiche; l’impatto degli scioperi operai e delle sollevazioni contadine; il tradimento del Partito socialista allo sciopero del Piemonte nel 1920 e la conseguente demoralizzazione della classe lavoratrice; e l’articolazione tra le confederazioni imprenditoriali, le associazioni rurali e il fascismo[9]. Tutti questi fattori resero insostenibile il regime liberale e portarono alla costituzione del governo Mussolini in uno scenario in cui, quantunque si conservasse una legalità formale, essa derivava direttamente da un atto di forza: la Marcia su Roma.
Infine, è importante osservare che la costituzione del governo Mussolini non implicò l’immediato sorgere di un regime fascista. Tra il novembre del 1922 e il giugno del 1926, l’Italia ha avuto un governo con alla testa un fascista – come a partire dallo scorso gennaio accade in Brasile – ma in una condizione di transizione in cui continuavano ad esistere determinate libertà. In questo contesto, durante il 1923 Gramsci sviluppò la proposta di investire nell’articolazione politica fra gli operai del nord e i contadini del sud come percorso per concretare un processo rivoluzionario e sconfiggere il fascismo. Nell’aprile del 1924, in elezioni che si svolsero ancora con certe condizioni di libertà, Gramsci fu eletto deputato e tornò in Italia per assumere il suo mandato. Poco dopo che l’insediamento di Gramsci, il deputato socialista Giacomo Matteotti venne assassinato dai fascisti subito dopo aver tenuto un discorso denunciando i brogli elettorali e l’aggravarsi della violenza politica.
Gramsci allora sostenne che l’unica alternativa seria di resistenza sarebbe stata la convocazione immediata di uno sciopero generale, rompendo con l’immobilismo legalista e scontrandosi apertamente con il governo fascista. La sua posizione non riuscì ad imporsi e la scalata repressiva proseguì fino a quando, durante il 1926, si completò la riconfigurazione del regime italiano e, in novembre, Gramsci vide cancellata la sua elezione e decretato il suo arresto. Le strategie di pacificazione e conciliazione, la fede nella capacità delle istituzioni dello Stato di contenere il fascismo, o che questo sarebbe stato distrutto dai suoi stessi errori, finirono comunque per produrre il risultato tante volte anticipato da Gramsci.
[*] Gilberto Calil è Dottore di ricerca in Storia all’Università Federale Fluminense (Uff) ed è docente del corso di Storia e del Programma di Dottorato in Storia dell’Università Statale del Paranà occidentale (UniOeste). È componente del Gruppo di ricerca Storia e Potere. È autore, tra gli altri libri, di Integralismo ed egemonia borghese (EdUniOeste, 2011) ed effettua ricerche su Stato, Potere, Destra, Egemonia, Dittatura e Fascismo.
Note
[1] Gramsci, Antonio, “Socialista ou comunista?”. In: Escritos Políticos. Volume 2, 1921–1926. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, p. 61.
[2] Idem, p. 61.
[3] Idem, p. 64‑5.
[4] Idem, p. 65.
[5] Gramsci, Antonio. “A substância da crise”. In: Escritos Políticos, op. cit., p. 111.
[6] Idem, p. 112.
[7] Idem, p. 113.
[8] Idem, p. 113.
[9] Gramsci, Antonio. “As origens do Gabinete Mussolini”. In: Escritos Políticos, op. cit., pp. 122‑126.
(Traduzione di Ernesto Russo)