Coscienza tradeunionistica o coscienza di classe?
La vicenda degli ambulanti senegalesi di Salerno e le sue implicazioni
Isa Pepe e Valerio Torre
Salerno è una piccola città di provincia, molto piccolo‑borghese. Afflitta da un elevatissimo tasso di deindustrializzazione, da tempo la sua economia è sostanzialmente fondata sul commercio e sui servizi. La società salernitana ha sempre espresso forti tratti reazionari dalle fosche tinte fasciste: non a caso, Giorgio Almirante, all’epoca segretario del Msi, veniva qui a chiudere le campagne elettorali riempiendo all’inverosimile la grande Piazza della Concordia. Ancora oggi, il peso della destra nella società è molto rilevante, ed elettoralmente si è fatto sentire convogliando massicciamente il proprio consenso sulle candidature di Vincenzo De Luca nei suoi ultimi mandati come sindaco della città, prima che diventasse presidente della regione Campania.
Eppure, Salerno è anche stata sempre molto accogliente. Storicamente, la comunità dei senegalesi è da decenni insediata e ben integrata sul territorio urbano, dedita perlopiù al commercio etnico.
Il clima, però, è cambiato anche qui, come nel resto del Paese: l’insofferenza verso gli “ultimi”, i “diversi”, si fa sempre più palpabile. Benché il peso elettorale della Lega alle ultime elezioni sia stato in città poco significativo (meno di 4.000 voti, con una percentuale del 5,61%), ultimamente il partito di Salvini sta cercando di ottenere una certa visibilità: pochi giorni fa, ad esempio, ha organizzato una “passeggiata per la sicurezza e la legalità” sul Lungomare cittadino, ricalcando il cliché battuto in tante parti d’Italia da forze razziste e neofasciste con le loro ronde nelle strade e sulle spiagge.
Ma nel corso di quest’iniziativa, contestata da esponenti della sinistra e dei movimenti antirazzisti, la Lega salernitana non si è limitata a declamare i soliti slogan. Approfittando della vertenza che vede contrapposti gli ambulanti senegalesi all’amministrazione cittadina – i senegalesi rivendicano la concessione del “sottopiazza” della Concordia che hanno avuto in uso per i loro piccoli commerci fino al 2016, epoca in cui sono stati sfrattati dovendo quindi occupare altre aree in cui debbono però subire le incursioni della polizia municipale, con tanto di multe e sequestri della merce – i militanti del partito di Salvini hanno furbescamente inalberato un’inaspettata parola d’ordine («Sindaco, rispetta i diritti dei senegalesi»), proprio mentre sfilavano vicino agli ambulanti intenti alle proprie attività.
Il rappresentante della comunità africana, Daouda Niang, si è avvicinato alla testa del corteo e ha preso a interloquire con il segretario provinciale della Lega, abbracciandolo e mostrando di apprezzare lo slogan espresso sullo striscione, tanto da sfilare anch’egli per qualche minuto addirittura sostenendolo, mentre altri immigrati applaudivano.
Inutile dire che, mentre i leghisti sono immediatamente passati all’incasso portando la surreale scenetta come la dimostrazione del loro “non‑razzismo”, la sinistra riformista salernitana ha scatenato sui social network un feroce dibattito dividendosi tra chi ha criticato Niang per aver commesso un grave errore e chi invece lo ha difeso. La disputa è stata senza esclusione di colpi, con vicendevoli accuse: le frange movimentiste accusando quelle più istituzionali di “intelligenza col nemico” (cioè il Pd, che – sindaco Napoli e governatore De Luca in testa – sta facendo la guerra agli ambulanti immigrati) e queste ultime addebitando a quelle altre di utilizzare le vertenze dei senegalesi per cavalcare la loro personale battaglia contro l’amministrazione cittadina.
E tra un post e l’altro delle due opposte fazioni non sono mancati gli interventi di Niang, che, legittimando al di là delle proprie stesse intenzioni la condotta strumentale dei leghisti, ha rivendicato il suo gesto perché – così ha affermato – lui “parla con tutti quelli che difendono i diritti dei senegalesi”[1].
Sicuramente, il gesto di Daouda Niang, pur comprensibile perché dettato dall’onesta volontà di risolvere il problema di duecento famiglie di immigrati, ha significato un notevole arretramento per le forze antirazziste che sostengono la giusta battaglia dei senegalesi e intendono opporsi alle politiche razziste, non solo della giunta municipale, ma anche dell’attuale e del precedente governo nazionale. Simmetricamente, ha concretato un avanzamento nella coscienza sociale per i leghisti salernitani, che col furbesco escamotage sono riusciti a creare di fronte alla collettività un’artificiale divisione fra immigrati “buoni” e “cattivi”, rappresentando se stessi non come razzisti ma come difensori di una presunta “legalità”.
Elevare la coscienza delle masse è compito dei comunisti
E però, così come non è nostra intenzione prendere parte all’indecente bagarre tra le due opposte fazioni per schierarci con l’una o l’altra di esse, allo stesso modo non intendiamo sanzionare, pur segnalandone la portata, l’improvvido gesto del rappresentante della comunità senegalese.
Ciò che intendiamo invece fare con questa nota è, partendo da questa vicenda, abbozzare un’analisi scientifica sul rapporto fra coscienza di classe, proletariato e avanguardie, cioè sulla dialettica masse‑avanguardie, e verificare la correttezza e l’efficacia della politica che la sinistra riformista (borghese e piccolo‑borghese[2]) salernitana ha attuato in relazione alle rivendicazioni degli ambulanti senegalesi.
In cosa si è concretata l’azione di sostegno che questa sinistra ha promosso in loro favore? Più precisamente: quali sono stati i rapporti intercorsi tra l’una e gli altri?
In realtà, non si è andati al di là di un generico appoggio alle rivendicazioni che gli ambulanti hanno avanzato nei confronti delle istituzioni: qualche lettera indirizzata agli organi dell’amministrazione comunale e periferica statale, assemblee pubbliche dirette da qualche accademico, manifestazioni di piazza. In altri termini, il sostegno accordato ai giusti reclami dei senegalesi non è andato al di là di una politica di tipo tradeunionistico o economicista. E quale effetto ha avuto tutto questo nel far avanzare la coscienza di classe di quei lavoratori? Quali passi in avanti questi ultimi hanno fatto sul terreno della consapevolezza di sé in quanto classe?
La risposta a questi interrogativi sta, in tutta evidenza, nell’incauto gesto di Niang e degli altri ambulanti al passaggio del corteo leghista. E quel gesto, a sua volta, trova la sua spiegazione nelle politiche che per anni la sinistra riformista – e, oggi, i brandelli di quel che ne resta – ha attuato nei confronti dei lavoratori.
Per comprenderlo e andare più a fondo dobbiamo dire che il livello di coscienza è un fattore oggettivo, nel senso che dipende da ciò che storicamente è avvenuto, è una conseguenza storica. Ma il livello di coscienza non è immutabile, può cambiare rapidamente in alcuni casi.
Trotsky diceva:
«La coscienza di classe del proletariato è arretrata, ma la coscienza non è un qualcosa di “solido” come le fabbriche, le miniere, le ferrovie: è più mobile e, sotto l’influenza della crisi oggettiva, con milioni di disoccupati, può mutare con rapidità»[3].
Il fatto è, però, che un tale mutamento non avviene di per sé solo, automaticamente, con l’aggravarsi della crisi. Lo spiegava bene il rivoluzionario argentino Nahuel Moreno:
«L’operaio comune, lo sfruttato in generale, non prova nessun piacere ad entrare nella lotta. È un essere umano normale, che non ha alcun interesse a perdere una parte del suo già scarso salario scendendo in sciopero, né a mettere a repentaglio la sua integrità fisica andando a una manifestazione, né a rischiare la vita prendendo le armi contro il capitalismo. Le masse lavoratrici vanno alla lotta perché il sistema capitalista le sprofonda nella miseria, perché non lascia loro altra soluzione se non lottare per sopravvivere. L’operaio non “ama” lo sciopero, ma rischia di perdere il suo salario o il suo lavoro perché se non lotta morirà di fame; non “ama” la violenza, ma si vede obbligato ad usarla per difendersi dalla violenza dei capitalisti; non “ama” le armi, ma si vede costretto a utilizzarle quando il capitalismo le rivolge contro di lui».
Ma tutto ciò, secondo Moreno, non è sufficiente:
«Non basta che esista il problema oggettivo affinché, automaticamente, le masse scendano in lotta. I lavoratori possono sopportare di essere pagati con salari bassissimi, ma il loro atteggiamento rispetto a questo problema dipende da qual è la situazione della loro lotta contro la borghesia in quel momento. Se il problema dei salari si verificasse […] in una situazione sfavorevole, con i loro dirigenti uccisi o in carcere, con le loro organizzazioni distrutte, con tutto il peso della repressione sulle loro spalle … non si mobiliteranno fino alla riorganizzazione delle forze. Se invece questa situazione si producesse […] con le masse in piena offensiva, in una situazione rivoluzionaria, esse sarebbero capaci di giungere al limite della presa del potere, spinte dalla necessità di trovare una soluzione a questo problema oggettivo».
E quindi concludeva:
«Così si combinano questi due fattori: l’infamia … del sistema capitalista è quella che crea la necessità di lottare e fissa l’obiettivo immediato di questa lotta delle masse; il grado di sviluppo del movimento di massa è quello che determina che la mobilitazione scoppi oppure no, l’ampiezza che essa può avere, i metodi che utilizza e i suoi risultati concreti […]. La coscienza immediata, presente, delle masse è determinata da questi due fattori; è la coscienza della necessità che esse subiscono e delle condizioni in cui si trovano per scontrarsi con gli sfruttatori»[4].
Ciò detto, quale deve essere il compito dei comunisti rispetto alle masse? Dato che le masse apprendono solo dall’esperienza delle proprie azioni, evidentemente l’obiettivo dei comunisti deve essere quello di mobilitarle affinché, attraverso la mobilitazione, esse acquisiscano coscienza politica di classe. In altri termini, compito dei comunisti è quello di elevare la coscienza presente delle masse verso la coscienza politica di classe; e tale compito deve consistere nell’aiutarle, «nelle lotte quotidiane, a trovare il ponte tra le rivendicazioni attuali e il programma socialista della rivoluzione. Questo ponte deve includere un sistema di rivendicazioni transitorie, che sorgano dalle condizioni e dal livello di coscienza attuali di larghi strati della classe operaia e che, inevitabilmente, conducano a una sola conclusione: la conquista del potere da parte del proletariato»[5].
La sinistra borghese e piccolo‑borghese salernitana ha per caso fatto questo nella propria azione politica nei confronti del proletariato senegalese? La risposta sta, come già accennato, nel gesto che il suo rappresentante ha avuto rispetto alla strumentale manifestazione della Lega. E l’indecente gazzarra che si sta sviluppando sui social fra chi difende e chi condanna Niang rappresenta esattamente il portato del fallimento di quella sinistra.
Perché accapigliarsi sul gesto di Niang significa esattamente l’inconsapevolezza dei propri errori da parte dei due settori della sinistra riformista salernitana. Perché, alla fine dei conti, riempirsi la bocca di “antirazzismo” e di “antifascismo”, utilizzandoli come bandierine da sventolare in qualche manifestazione, senza però innestarli sull’anticapitalismo, e cioè su un complessivo programma per il rovesciamento violento del sistema che genera razzismo e fascismo, non può che produrre gesti come quello di Niang e allontanare ulteriormente le condizioni per un radicale cambiamento di questa società.
Una politica tradeunionistica non può sfociare in una rivoluzione.
Note
[1] Sembra addirittura – ma non possiamo giurarci, perché il link non è più accessibile – che Niang in un altro post avrebbe rincarato la dose, assicurando il suo appoggio persino a Casapound se questa avesse difeso i diritti dei senegalesi. Lo riportiamo qui, con ogni riserva, così come lo abbiamo appreso da qualche commento su Facebook. Intanto, però, da qualche altro suo post – sicuramente dettato da una reazione nervosa per essere stato sottoposto in questi giorni a forti pressioni in seguito all’accaduto – abbiamo letto di un apprezzamento di Niang per Salvini, se paragonato al governatore De Luca e al sindaco Napoli.
[2] Al riguardo, v. K. Marx, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, 1996, pp. 39 e ss.
[3] L. Trotsky, “L’arretratezza politica degli operai americani”, in Programma di transizione, Massari editore, 2008, p. 151.
[4] N. Moreno, El partido y la revolución, Ediciones Marxismo vivo, 2010, pp. 334 e s.
[5] L. Trotsky, Programma di transizione cit., p. 75.