Poche settimane orsono, la stampa internazionale ha dato notizia del processo di revisione costituzionale in corso a Cuba mettendo in risalto quelle che venivano presentate come “novità”, e cioè l’introduzione nella nuova Costituzione dei concetti di “proprietà privata” e “mercato”.
A parte una “difesa d’ufficio” del governo cubano da parte dei gruppi stalinisti, in Italia non si è aperto nessun dibattito all’interno della sinistra (soprattutto quella rivoluzionaria) sulle sorti dell’isola che, a torto o a ragione, rappresenta ancora oggi un simbolo.
Pertanto, pubblichiamo un contributo di Valerio Torre che intende sistematizzare l’importante questione del carattere di classe che occorre riconoscere a Cuba e, sulla base dell’analisi svolta, risponde all’altrettanto importante quesito se quello caraibico sia tuttora uno Stato socialista.
Ovviamente, il tema è polemico. Ma proprio per questo lo riteniamo di particolare rilevanza, soprattutto perché involve aspetti teorici di notevole spessore.
Buona lettura.
La redazione
Cuba: dalla rivoluzione alla restaurazione
Cuba è ancora uno Stato socialista?
Valerio Torre
Nello scorso mese di luglio, ha avuto ampio risalto la notizia della riforma costituzionale approvata a Cuba[1]. Un particolare accento è stato posto su quella che viene dipinta come la novità della rimozione del concetto di “avanzamento verso il comunismo” e dell’introduzione delle nozioni di “proprietà privata” e di “mercato”.
Com’era facile prevedere, l’annuncio ha suscitato due simmetriche e contrapposte reazioni. Da una parte, abbiamo registrato la cauta[2] – e talvolta malcelata[3] – soddisfazione dei media borghesi. Dall’altra, invece, la notizia ha gettato nel panico quelle organizzazioni che oramai non rappresentano altro che i cascami dello stalinismo: le quali, per rassicurare i propri adepti, hanno dovuto far ricorso ad argomenti ormai triti (“è falso”; “è un complotto dei gusanos di Miami”; “si tratta solo di una necessaria modernizzazione del socialismo”)[4].
Ma entrambe le letture sono destituite di fondamento e lontane anni luce dalla realtà. Perché, come abbiamo già avuto modo di sostenere[5], il capitalismo a Cuba non viene introdotto oggi da questa revisione costituzionale, ma è stato completamente restaurato già da molto tempo, con buona pace sia della stampa borghese che di quella stalinista, e a dispetto della permanenza al governo della Isla di un partito unico che si proclama “comunista”.
Proprio per questa ragione, non esamineremo dettagliatamente il testo della riforma costituzionale appena approvato[6], ma analizzeremo le modifiche politico‑istituzionali e giuridiche che nel corso del tempo sono state realizzate a Cuba e che hanno permesso un mutamento completo del regime: da Stato operaio (benché burocratizzato) a Stato capitalista. Un mutamento, rimarchiamo, che non è di oggi, non affonda le sue radici nella nuova Costituzione, come “celebrano”, e rispettivamente “temono”, i fautori delle due contrapposte tendenze di cui abbiamo detto, ma rimonta a parecchi anni addietro.
La rivoluzione del 1959
Quella che conosciamo come “Rivoluzione cubana” non fu portata avanti da un partito proletario, né era un programma socialista a guidare i “barbudos” che rovesciarono la dittatura di Fulgencio Batista. Il movimento guidato da Fidel Castro e Che Guevara era sostanzialmente piccolo‑borghese e aveva come stella polare soltanto la liberazione di Cuba da un odiato regime e l’indipendenza del Paese. I primi passi dopo la presa del potere vennero mossi rapportandosi costantemente, benché ambiguamente, con gli Stati Uniti[7]. Le frizioni con l’imperialismo nordamericano si svilupparono sulla riforma agraria, e a partire da essa si esacerbarono; finché, soltanto due anni dopo, nel 1961, Castro proclamò il “carattere socialista” della rivoluzione cubana, nazionalizzando le imprese della borghesia autoctona e quelle del potente “vicino di casa”.
Insomma, si verificò quanto previsto da León Trotsky molti anni prima:
«Non si può … escludere categoricamente la possibilità teorica che, in caso di circostanze assolutamente eccezionali (la guerra, una sconfitta, un crollo finanziario, la mobilitazione delle masse rivoluzionarie, ecc.), i partiti piccolo‑borghesi, inclusi quelli stalinisti, possano essere trascinati, più di quanto vogliano, verso una rottura con la borghesia. In ogni caso, una cosa è fuori dubbio: anche se questa eventualità altamente improbabile divenisse, in qualche luogo e in qualche tempo, una realtà, e il governo operaio e contadino nel senso sopraddetto si realizzasse nei fatti, esso rappresenterebbe solo qualcosa di episodico lungo la strada che porta alla vera dittatura del proletariato»[8].
Accantonando per ora la seconda parte della proposizione appena citata[9], quella che nel 1938 per Trotsky era, benché non potesse a priori essere scartata, una “eventualità altamente improbabile”, si realizzò, appunto, più di vent’anni dopo. Nacque, con la Revolución, uno Stato operaio deformato[10].
Un’economia non capitalista
Come facciamo a definire il carattere di classe di uno Stato? Quali peculiarità deve rivestire un’economia per essere rappresentata come “non capitalista”? Quand’è che uno Stato può essere qualificato “operaio”?
È del tutto evidente che a questo scopo è necessario riscontrare gli elementi sulla base dei quali possono esistere rapporti sociali di produzione completamente diversi da quelli su cui si fonda un’economia capitalista. In altri termini, è necessario che concorrano i seguenti fondamenti: proprietà statale dei grandi mezzi di produzione e del sistema bancario; pianificazione economica centralizzata a cui tutta la produzione deve essere subordinata; monopolio del commercio estero. Sono questi gli elementi in presenza dei quali possiamo parlare di Stato operaio e di economia non capitalista.
«Le classi sono definite dalla loro posizione nell’economia sociale e, anzitutto, rispetto ai mezzi di produzione. Nelle società civili, la legge fissa i rapporti di proprietà. La nazionalizzazione del suolo, dei mezzi di produzione, dei trasporti e degli scambi, come pure il monopolio del commercio estero, costituisce la base della società sovietica»[11].
Fu grazie a queste misure – che egli riteneva “conquiste della rivoluzione proletaria” – che León Trotsky poté definire l’Unione Sovietica uno Stato proletario[12]. E ciò perché
«la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e del credito, il controllo delle cooperative e dello Stato sul commercio interno, il monopolio del commercio estero, la collettivizzazione dell’agricoltura … stabiliscono limiti ristretti all’accumulazione personale di denaro e disturbano e rendono difficile la trasformazione del denaro in capitale privato (usurario, commerciale e industriale)»[13].
D’altronde, in molteplici suoi scritti economici precedenti a La rivoluzione tradita Trotsky si era soffermato sugli elementi caratterizzanti un’economia non capitalista. Ad esempio, nel testo “Verso il capitalismo o verso il socialismo?”, scritto nell’agosto del 1925 per esporre le sue posizioni sulla pianificazione, egli afferma:
«Uno Stato che abbia nelle sue mani l’industria nazionalizzata, il monopolio del commercio estero e il monopolio dell’importazione di capitale straniero per questo o quel settore economico dispone per questo solo fatto di un grande arsenale di risorse che possono combinarsi per accelerare la marcia dello sviluppo economico. […] I progressi economici del periodo della ricostruzione sono stati ottenuti proprio grazie ai metodi socialisti di organizzazione della produzione, cioè grazie ai metodi pianificati o semipianificati per fornire dei mezzi necessari i diversi settori dell’economia sociale»[14].
E dunque, è chiaro a questo punto che sono questi gli elementi che debbono ricorrere perché uno Stato e l’economia che esso sviluppa possano non essere considerati capitalisti.
Cuba dopo la rivoluzione
È innegabile che, in presenza degli elementi che abbiamo finora brevemente illustrato, l’economia cubana successiva alla Revolución (e più precisamente dopo che ne fu proclamato il “carattere socialista”) si caratterizzò come “non capitalista”, dal momento che la struttura giuridico‑istituzionale venne costruita proprio perché fosse funzionale allo sviluppo di quel tipo di economia[15].
Lo affermava chiaramente l’art. 9 della Costituzione cubana del 1976:
«La Costituzione e le leggi dello Stato socialista sono espressione giuridica dei rapporti socialisti di produzione …»[16].
La stessa Carta costituzionale, al successivo art. 14 stabiliva il principio della socializzazione dei mezzi di produzione:
«Nella repubblica di Cuba vige il sistema socialista di economia basata sulla proprietà socialista di tutto il popolo sui mezzi di produzione …»,
specificando poi, nell’art. 15, cosa si intendesse per “proprietà statale socialista”:
«La proprietà statale socialista, che è la proprietà di tutto il popolo, è irreversibilmente stabilita sulle terre che non appartengano ai piccoli agricoltori o a cooperative da essi stessi composte; sul sottosuolo, le miniere, le risorse marine naturali e viventi entro la zona della sua sovranità, i boschi, le acque, le vie di comunicazione; sugli impianti di produzione dello zucchero, le fabbriche, i mezzi fondamentali di trasporto, e su tutte le imprese, banche, installazioni e beni già nazionalizzati ed espropriati agli imperialisti, latifondisti e borghesi, così come sulle fattorie del popolo, fabbriche e installazioni economiche, sociali, culturali e sportive costruite, promosse o acquisite dallo Stato e quelle che in futuro costruirà, promuoverà o acquisirà».
Con la legge n. 851 del 6 luglio 1960, il presidente della repubblica e il primo ministro venivano autorizzati a procedere alla nazionalizzazione mediante espropriazione forzata dei beni e delle imprese statunitensi su territorio cubano: e infatti, in ossequio a tale normativa, con risoluzione n. 1 del 6 agosto, firmata dal presidente Osvaldo Dorticós Torrado e dal premier Fidel Castro Ruz, veniva disposta la nazionalizzazione mediante espropriazione di ben ventisei compagnie di proprietà nordamericana, tra cui le imprese elettriche, di telecomunicazioni, petrolifere e di produzione dello zucchero.
Inoltre, con la successiva risoluzione n. 2 del 17 settembre 1960, si procedeva alla nazionalizzazione mediante esproprio di tre banche statunitensi, la First National City Bank di New York e quella di Boston, oltre alla Chase Manhattan Bank.
A seguire, con la legge n. 890 del 13 ottobre 1960 si procedeva alla nazionalizzazione di oltre cento imprese zuccheriere, ventiquattro della distillazione e produzione di bevande alcoliche, e poi numerose altre dei settori: cosmetico, dolciario, alimentare, chimico, tessile, cartaceo, metallurgico, del caffè, ferroviario, edile, tipografico, marittimo.
E ancora: la legge n. 891 (nella stessa data) fissava il principio della nazionalizzazione dell’esercizio del credito e di tutte le attività bancarie, con il conseguente esproprio di tutte le banche di deposito, di sviluppo, di credito e credito ipotecario, con l’assegnazione di tutte le loro funzioni al “Banco Nacional de Cuba” in regime di monopolio.
In definitiva, nel solo mese di ottobre del 1960, vennero nazionalizzate 382 grandi imprese. Il valore delle attività statunitensi nazionalizzate ammontava a circa otto miliardi di dollari.
Quanto invece all’elemento della pianificazione, la Costituzione del 1976 prevedeva all’art. 16:
«Lo Stato organizza, dirige e controlla l’attività economica nazionale in accordo con il Piano unico di Sviluppo Economico‑Sociale …».
E infatti, già prima dell’approvazione della Costituzione, e cioè l’11 marzo 1960, era stata creata, con la legge n. 757, la Junta Central de Planificación (Giunta centrale di pianificazione), con il compito di «fissare gli obiettivi generali dell’azione dello Stato in materia economica, formulare piani di sviluppo, centralizzare l’indagine economica, statistica e tecnologica, fornire consulenza agli organismi esecutori dei piani e vigilare sulla loro adeguata realizzazione, vigilare sull’assistenza tecnica prestata da organismi internazionali e coordinare le attività dei distinti organismi incaricati della politica economica». Oltre a tali attribuzioni di carattere più generale, alla Giunta venivano assegnate anche le funzioni di concedere le autorizzazioni per avviare nuove fonti di produzione e per ampliare o ridurre la capacità produttiva di quelle esistenti; orientare la politica economica estera di Cuba, compresa la politica doganale, dei cambi, quella relativa a trattati commerciali, negoziati per prestiti e aiuti tecnici stranieri; indirizzare la partecipazione dello Stato e di organismi parastatali nel commercio estero; mobilitare i fattori della produzione per utilizzare al massimo la capacità produttiva del Paese a beneficio della società (art. 3)[17].
Intanto, la legge n. 793 del 25 aprile 1960 aveva dato vita al “Banco para el Comercio Exterior de Cuba” (Bancec), cioè all’organismo nazionale di credito cui venivano assegnate tutte le funzioni relative al finanziamento del commercio estero, come ausilio alla politica monopolistica del governo inerente al commercio internazionale. Lo scopo della creazione di tale organismo era la diversificazione e l’ampliamento del commercio estero, dato che fino ad allora le relazioni commerciali estere di Cuba erano di tipo coloniale subordinate agli Usa. Infatti, nelle parole di Ernesto “Che” Guevara, all’epoca presidente del Banco Nacional, il Bancec è
«l’importatore unico di tutti i prodotti necessari per Cuba, nonché l’orientatore, organizzatore e direttore di tutte queste importazioni. […] tra i suoi compiti c’è quello di cambiare la struttura del commercio estero del Paese, fare nuovi contratti, cercare nuovi mercati e, al contempo, mantenere i vecchi mercati suscettibili di essere conservati»[18].
Il 23 febbraio 1961 veniva costituito, con la legge n. 934, il Ministero del Commercio Estero di Cuba (Mincex). Tale organismo rappresentava un elemento centrale per la politica economica del Paese, poiché ad esso erano attribuite in regime monopolistico le funzioni di gestione e controllo delle importazioni e delle esportazioni del Paese.
Il crollo del socialismo reale e la crisi cubana
Come abbiamo appena visto, dunque, il processo rivoluzionario cubano venne consacrato in un’architettura giuridico‑istituzionale funzionale alla costruzione di un’economia in transizione verso il socialismo. Cuba, insomma, si caratterizzò come uno Stato operaio, benché deformato.
Perché “deformato”? Perché – lo abbiamo già evidenziato – la rivoluzione che lo produsse non fu il frutto dell’azione cosciente del proletariato, ma fu diretta da un “partito‑esercito” guerrigliero piccolo‑borghese; e perché, nonostante la Cuba rivoluzionaria sia stata costruita sulle basi di un’economia non capitalista, in essa non erano presenti quegli organismi di autentica democrazia operaia che caratterizzarono i primi anni dello Stato operaio sorto dalla rivoluzione russa del 1917 e che, unici, rappresentano il concreto potere politico del proletariato. La rivoluzione cubana, invece, si rifece al modello dell’Urss di c.d. “socialismo reale”.
Ciò detto molto sinteticamente, occorre osservare che la rottura delle relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti spinse Cuba ad allacciare rapporti con l’Unione Sovietica e i Paesi del blocco orientale. L’Urss offrì a Cuba generosi sussidi e accordi commerciali per la fornitura di macchine agricole, greggio e istruzione tecnologica in cambio dello zucchero cubano per compensare il commercio perduto con gli Stati Uniti. Dopo la proclamazione del carattere socialista della rivoluzione, Cuba diventò uno dei più stretti alleati dell’Unione Sovietica e, nel 1972, entrò come membro nel Consiglio per l’assistenza economica reciproca (Comecon), l’alleanza economica dei Paesi comunisti.
Per sostenere l’economia cubana, l’Urss pagava lo zucchero cubano a un prezzo superiore a quello fissato dal mercato mondiale, riforniva Cuba di petrolio e le condonò il debito. Stipulò inoltre accordi commerciali favorevoli in virtù dei quali il Paese caraibico riceveva merci per un valore annuo di cinque miliardi di dollari superiore rispetto a quello dei beni esportati da Cuba verso l’Urss. Nel 1970 oltre il 70% del commercio cubano era verso l’Unione Sovietica e un altro 15% era verso i suoi alleati dell’Europa orientale. Questa relazione con l’Urss permise a Castro di fornire istruzione, salute, lavoro e cibo alla stragrande maggioranza della popolazione[19].
Tuttavia, benché questi accordi avessero portato a una certa stabilizzazione, l’economia cubana soffriva comunque dei problemi legati a una scarsa produttività e a una scarsa diversificazione della produzione: problemi che divennero più gravi a partire dal 1989, con il collasso degli Stati dell’Europa orientale. L’Urss si vide costretta a ridurre gli aiuti a Cuba e il commercio con la Isla, il cui prodotto interno lordo cadde di almeno il 35% tra il 1983 e il 1993, con il calo più pronunciato tra il 1990 e il 1993. Dal 1989 al 1992 le importazioni diminuirono da 8 miliardi di dollari a 2,2 miliardi.
Fu questa disastrosa situazione a indurre la direzione burocratica castrista ad avviare, a partire dall’inizio/metà degli anni 90, un graduale – ma al contempo marcato – processo di smantellamento dei pilastri su cui si fondava l’economia non capitalista di Cuba, fino alla completa restaurazione del capitalismo nel Paese.
Gli strumenti per una … “transizione al contrario”
La riforma costituzionale del 1992[20] introdusse alcuni apparentemente piccoli, ma significativi cambiamenti rispetto a quella del 1976. In particolare, vennero eliminati:
- il riferimento alla Costituzione e alle leggi come “espressione giuridica dei rapporti socialisti di produzione” (art. 10);
- il riferimento ai “principi dell’internazionalismo proletario e della solidarietà combattiva dei popoli (art. 12);
- il riconoscimento del “diritto dei popoli a combattere la violenza imperialista e reazionaria con la violenza rivoluzionaria” (art. 12);
- il carattere “irreversibile” della proprietà di mezzi di produzione, che venne limitata solo a quelli “fondamentali” (art. 14);
- venne introdotta la possibilità della cessione “in proprietà a persone naturali o giuridiche” dei beni considerati mezzi di produzione, quantunque considerati “di proprietà statale socialista di tutto il popolo” (art. 15)[21];
- l’attività economica nazionale venne svincolata dal “Piano unico di Sviluppo Economico‑Sociale” e venne eliminato per l’economia il riferimento alla finalità di “osservare i doveri internazionalisti del … popolo” (art. 16);
- vennero introdotti il principio della responsabilità per le proprie obbligazioni e l’obbligo di funzionamento in regime di autofinanziamento per le imprese o entità incaricate di amministrare i beni di proprietà statale, nonché il principio di separatezza contabile e di bilancio fra questi organismi e lo Stato (art. 17);
- venne eliminato il regime monopolistico del commercio estero in favore dello Stato e contestualmente introdotta la possibilità per “persone naturali o giuridiche con capacità legale di realizzare … operazioni di esportazione e importazione e stipulare contratti commerciali” (art. 18);
- venne introdotto il riconoscimento della “proprietà delle imprese miste, società e associazioni economiche” (art. 23);
- vennero eliminati tutti i riferimenti alle funzioni assegnate ai tribunali, che nella Costituzione abrogata erano previsti all’art. 123, e cioè, tra le altre: “mantenere e rafforzare la legalità socialista; salvaguardare il regime economico, sociale e politico stabilito in questa Costituzione; proteggere la proprietà socialista […]”.
Ma ancor prima delle modifiche alla cornice generale costituzionale apportate nel 1992, già a partire dalla metà degli anni 70 erano stati avviati in alcuni settori dell’economia importanti e concreti cambiamenti – caratterizzati dalla decentralizzazione del processo decisionale e dall’introduzione di meccanismi di mercato – che implicarono significative concessioni al capitalismo e l’avvio del processo di restaurazione. In particolare, l’apertura del Mercado Libre Campesino (Mercato libero contadino) rappresentò il tentativo più audace in questa direzione. La riforma consisteva nel permettere ai contadini, una volta soddisfatte le consegne obbligatorie allo Stato, la vendita dei prodotti sul mercato libero a prezzi determinati dalla domanda e dall’offerta. Altre misure di “liberalizzazione” erano state: l’apertura del lavoro autonomo (Decreto Ley n. 14 del 1978) in 48 settori di attività (tra cui opere edili, falegnameria, idraulica ed elettricità), il permesso di assumere dipendenti da parte di piccoli agricoltori e l’autorizzazione alla costruzione di abitazioni da parte di imprese edili private.
Ma fu nel 1982 che venne assestato un primo significativo colpo alla struttura dell’economia non capitalista, con l’approvazione del Decreto Ley n. 50 del 15 febbraio, intitolato “Sobre asociación económica entre entidades cubanas y extranjeras” (“Dell’associazione economica tra entità cubane e straniere”), che aprì le frontiere di Cuba rendendo possibile un’iniziale penetrazione nella Isla di capitali stranieri attraverso le imprese miste[22]. Tale decreto fu l’antecedente giuridico della successiva Legge sugli Investimenti Esteri n. 77 del 1995[23] e segnò un rilevante riconoscimento dell’attività d’impresa, con l’evidente obiettivo di ampliare e diversificare i mercati esteri e favorire l’assimilazione di capitale straniero con l’adozione di diverse forme imprenditoriali: processo – questo – che iniziò nel settore del turismo, per estendersi poi ad altri settori[24]. Queste nuove necessità economiche venivano accompagnate da cambiamenti legislativi tali da costruire una cornice giuridica in grado di dare loro un’adeguata copertura. E, infatti, dopo il decreto legge n. 50/1982 venne promulgato, nel 1987, il primo Codice civile cubano, che apportò l’importante novità del riconoscimento di determinate persone giuridiche autorizzate a svolgere attività d’impresa[25].
In virtù di questi significativi cambiamenti, gli investimenti esteri – che fino al 1991 erano, come abbiamo appena segnalato, sostanzialmente limitati al settore del turismo – si estesero nel 1992 a quelli fino ad allora considerati strategici (prodotti farmaceutici e biotecnologici); nel 1993 il regime aprì alla possibilità dell’apertura di rappresentanze di banche straniere in territorio cubano «per ampliare l’infrastruttura di servizi finanziari al resto degli investitori esteri che operano nel Paese»[26]; alla fine di ottobre del 1994, Carlos Lage – all’epoca segretario del Consiglio dei ministri e del Comitato esecutivo, e dunque un autorevole esponente del governo – dichiarò che «nessun settore produttivo dell’economia nazionale sarebbe stato chiuso all’investimento estero e che anche il settore immobiliare, determinati servizi e spazi del mercato interno destinati al ricambio di importazioni, avrebbero dato spazio al capitale straniero»[27].
Nel loro studio pubblicato nel 1995 e citato nelle note del presente testo, gli economisti Carranza Valdés, Gutiérrez Urdaneta e Monreal González evidenziano (pp. 39 e ss.), oltre all’esponenziale aumento delle società anonime e all’autofinanziamento in valuta estera da parte degli operatori economici, «la fine del monopolio del commercio estero […], prima controllato totalmente dal Ministero del Commercio Estero (Mincex) [e ora] assunto direttamente da un numero crescente di imprese». E dunque, come avevamo in precedenza anticipato, già dai primi anni 90 a Cuba era venuto meno uno dei pilastri fondamentali di un’economia non capitalista. E con le conseguenze individuate da Trotsky settant’anni prima:
«Il monopolio del commercio estero non deve essere messo in discussione. Se dovessimo spiegare in cosa si basano le nostre speranze di un futuro socialista per la Russia, dovremmo rispondere: 1) sul potere politico del partito, appoggiato dall’Armata Rossa; 2) sulla nazionalizzazione della produzione; 3) sul monopolio del commercio estero. Sarebbe sufficiente far venire giù uno di questi pilastri perché crolli tutto l’edificio»[28].
E ancora: disposizioni varate nel 1993 (Decreto Ley n. 141 e Resolución n. 1 del Comité Estatal de Finanzas) regolarono e ampliarono le autorizzazioni per il lavoro autonomo, prevedendo che il prezzo dei servizi offerti venisse stabilito dalla relazione domanda‑offerta e fosse regolato nel tipo di valuta fissato dalle parti che intervenivano nella transazione; fra il settembre 1993 e l’ottobre 1994 vennero istituite le Unidades Básicas de Producción Cooperativa (Ubpc) e istituito il Mercato agricolo: i produttori associati nelle Ubpc, pur non essendo proprietari delle terre, si appropriavano dei prodotti, rivendendoli e ripartendosi i profitti. I prezzi delle vendite nel mercato agricolo erano determinati dalla domanda e dall’offerta; a partire dal dicembre 1994, poi, venne istituito anche il mercato dei prodotti industriali e artigianali, e anche in questo caso era la relazione domanda‑offerta a fissare i prezzi[29].
Una “Nep in salsa cubana”?
Naturalmente, c’è chi, a sinistra, pur di difendere l’idea romantica di una Cuba socialista, non si fa scrupolo di richiamare l’esperienza sovietica successiva al comunismo di guerra, e cioè la Nuova Politica Economica (Nep: Novaja Ėkonomičeskaja Politika). Secondo costoro, Fidel Castro non fece altro che introdurre, a fronte della grave crisi economica che affliggeva il Paese, quegli elementi di capitalismo necessari a contrastarla … né più e né meno di quanto avrebbero fatto Lenin e Trotsky a partire dal 1921.
Il richiamo è assolutamente erroneo, dal momento che i bolscevichi avevano introdotto nell’economia sovietica marginali elementi per un parziale ritorno al mercato, ma conservando strettamente nelle mani dello Stato il monopolio del credito e del sistema bancario, oltre che – soprattutto – del commercio estero. Invece a Cuba, come abbiamo visto, non è stato così; e andremo ora ad esaminarlo.
La “Ley de Inversión Extranjera” (Legge sugli investimenti esteri) n. 77 del 5 settembre 1995[30] rappresentò un approfondimento del già citato decreto legge n. 50 del 1982. Se quest’ultimo provvedimento aveva segnato il cammino per l’abolizione del monopolio del commercio estero, quello che ci accingiamo ad analizzare asfaltò un’autostrada (ci si passi l’iperbole) per la definitiva penetrazione a Cuba del capitale internazionale[31].
La finalità della nuova normativa era espressa a chiare lettere già nel preambolo: «[…] la Costituzione della repubblica, come modificata nel 1992, riconosce, tra le altre forme di proprietà, quella delle imprese miste, società e associazioni economiche che si costituiscano secondo la legge e prevede, in relazione alla proprietà statale […] la cessione in proprietà, parziale o totale di obiettivi economici […]», mentre «i mutamenti che hanno luogo nell’economia nazionale, diretti a promuovere e sostenere attivamente l’investimento del capitale straniero a Cuba e ad ampliare le possibilità relative a forme e aree di investimento, […] oltrepassano le possibilità offerte ad oggi dalla cornice legale del decreto legge n. 50 […] del 15 febbraio 1982», sicché si rende necessario «per ampliare e facilitare il processo di partecipazione dell’investimento straniero nell’economia nazionale, […] adottare una nuova legislazione che offra maggiore sicurezza e garanzia all’investitore estero».
Ma era l’articolato a spiegare nei minimi dettagli quali erano gli obiettivi che il governo cubano si era posto:
- «Questa legge ha come scopo promuovere e incentivare l’investimento estero nel territorio della Repubblica di Cuba, per realizzare attività lucrative […]» (art. 1).
- «Gli investimenti esteri nel territorio nazionale godono di piena protezione e sicurezza, e non possono essere espropriati, salvo che per motivi di utilità pubblica o interesse sociale […], previo indennizzo in valuta liberamente convertibile del suo valore commerciale stabiliti consensualmente. In caso di mancato accordo, il prezzo sarà stabilito da un’organizzazione di riconosciuto prestigio internazionale nella stima degli affari […]» (art. 3).
- «L’investitore straniero in un’associazione economica internazionale può, in qualsiasi momento, […] vendere o trasmettere in qualsiasi altra forma allo Stato, o a un terzo […], la sua partecipazione totale o parziale in essa, ricevendo il prezzo corrispondente in valuta liberamente convertibile […] (art. 6, 1° comma. Il comma successivo prevede la stessa identica possibilità anche per l’investitore straniero «in una impresa di capitale totalmente straniero»).
- «Lo Stato garantisce all’investitore straniero il libero trasferimento all’estero, in valuta liberamente convertibile, non assoggettabile ad imposte o altre esazioni relative a tale trasferimento di: a) gli utili netti o dividendi ottenuti dall’investimento […]. I cittadini stranieri che forniscono servizi a un’impresa mista, alle parti in qualsiasi altra forma di associazione economica internazionale, o a un’impresa di capitale totalmente straniero, sempre che non siano residenti permanenti a Cuba, hanno diritto a trasferire all’estero i beni ricevuti […] (art. 8).
- «Possono essere autorizzati investimenti esteri in tutti i settori, ad eccezione dei servizi sanitari e dell’istruzione popolare e delle forze armate, salvo nel loro sistema imprenditoriale» (art. 10)[32].
- «Nell’impresa di capitale totalmente straniero, l’investitore estero ne esercita la direzione, gode di tutti i diritti […]. L’investitore estero in imprese di capitale totalmente straniero può agire come persona fisica o giuridica entro il territorio nazionale cubano: a) creando una filiale cubana dell’entità straniera di cui è proprietario, in forma di una compagnia anonima per azioni nominative; b) iscrivendosi nel Registro della Camera di Commercio della Repubblica di Cuba e agendo per se stesso» (art. 15).
- Gli artt. 16, 17 e 18, poi, specificano che si possono realizzare investimenti esteri in beni immobili e acquistarne la proprietà, in particolare costruendo abitazioni (attività fino ad allora riservata in esclusiva allo Stato) destinate a residenze civili o turistiche, sia pure solo per non residenti sull’isola. L’art. 19 conferma il principio sancito dalla Costituzione del 1992 della trasmissibilità della proprietà o di altri diritti reali di beni statali.
- E ancora, l’art. 29 chiarisce definitivamente che non esiste più a Cuba il monopolio del commercio estero: «Le imprese miste, gli investitori nazionali e stranieri che siano parti in contratti di associazione economica internazionale e le imprese di capitale totalmente straniero hanno diritto, […] ad esportare direttamente la loro produzione e ad importare, sempre direttamente, quanto necessario per i loro scopi» (art. 29).
- Infine, un ulteriore tassello che dimostra inequivocabilmente quanto profonda sia stata con la Legge n. 77 del 1995 la penetrazione del capitale e delle sue regole a Cuba, è dato dalla sezione che disciplina il regime giuridico dei lavoratori. L’art. 33 specifica che la forza lavoro (operai cubani) viene somministrata da appositi uffici di collocamento (“Entidad empleadora”), istituita dal Ministero del Commercio Estero e autorizzata dal Ministero del Lavoro e della Sicurezza Sociale. Il rapporto di lavoro, però, non si svolge direttamente tra lavoratori e imprese, ma è scisso in due differenti obbligazioni: da una parte, la prestazione dell’attività lavorativa dell’operaio verso il datore di lavoro; dall’altra, il pagamento del salario dall’ufficio di collocamento al lavoratore. E pare addirittura superfluo evidenziare che, come prescrive l’art. 34 al 1° comma, il pagamento è previsto nella svalutata moneta nazionale, e non certo nella divisa straniera (dollari). Come se tutto ciò non bastasse, il comma successivo prevede addirittura un meccanismo assolutamente sfavorevole per i lavoratori nei rapporti con l’impresa: laddove le imprese dovessero «considerare che un determinato lavoratore non soddisfi le loro richieste sul lavoro possono chiedere all’ufficio di collocamento che lo sostituisca con un altro. Qualsiasi rivendicazione lavorativa viene risolta dall’ufficio di collocamento, che paga a sue spese al lavoratore l’indennizzo cui dovesse avere diritto, fissato dalle autorità competenti; in questi casi, l’impresa […] rimborsa all’ufficio di collocamento quanto anticipato, […] e tutto deve conformarsi alla legislazione vigente».
Si comprende, allora, che una simile posizione di subordinazione di uno Stato che si considera “socialista” agli agenti del capitalismo imperialistico, tale addirittura da sacrificare i diritti dei propri cittadini‑lavoratori alle esigenze del capitale, non può che deporre in favore della tesi che in questo testo stiamo sostenendo: e cioè che, già dall’epoca di applicazione di simili normative, a Cuba il capitalismo era stato restaurato.
E si comprende anche perché Ian W. Delaney, amministratore delegato della multinazionale canadese del nichel, Sherritt International, in un’intervista concessa alla rivista economica Business Week del 17 marzo 1997, abbia dichiarato: «Questo Paese è la migliore opportunità di investimento al mondo». Che queste non fossero parole al vento lo dimostra il fatto che, a partire dalla joint venture paritaria costituita nel 1994 tra la Sherritt International e la cubana Compañía General de Niquel, la multinazionale è talmente penetrata a Cuba da diventare protagonista assoluta di molti altri settori dell’economia, dall’energia elettrica al petrolio e gas, dall’agricoltura al turismo, dai trasporti alle telecomunicazioni, fino agli immobili. Sarà stato forse per questo che Delaney veniva definito “il capitalista preferito di Castro”[33].
- L’art. 51, inoltre, prevedeva l’istituzione di “Zone franche”, cioè regioni in cui «si può applicare […] un regime speciale in materia di dogana, cambiaria, tributaria, lavorativa, migratoria, di ordine pubblico, di investimento di capitali e di commercio estero, e nelle quali gli investitori esteri possono operare per realizzare operazioni finanziarie di importazione, esportazione, approvvigionamento, attività produttive o riesportazione».
Successivamente, è entrata in vigore la nuova “Ley de la Inversión Extranjera”, la n. 118 del 29 marzo 2014[34], che ha modificato, ampliandola, la legge n. 77 del 1995. Lo conferma già il preambolo, che recita: «La presente legge […] stabilisce un regime di facilitazioni, garanzie e sicurezza giuridica all’investitore che propizia l’attrazione e l’utilizzo del capitale straniero. L’investimento estero nel Paese si orienta verso la diversificazione e l’ampliamento dei mercati di esportazione». Ha inoltre confermato, estendendolo, il principio della libera trasferibilità all’estero per l’investitore, in esenzione di qualsiasi tassazione, dei dividendi e degli utili ricavati dall’investimento e di qualsiasi altro importo dovesse ricevere.
La nuova legge sugli investimenti esteri conferma il regime fiscale di favore di cui abbiamo già detto, ma lo amplia. I soci investitori stranieri sono esentati dal pagamento di imposte sulle entrate personali che derivino dal riparto degli utili ottenuti dall’affare. Alle imprese miste e agli investitori che siano parte di contratti di associazione internazionale viene applicata un’imposta fissa del 15% sugli utili imponibili[35], ma detta imposizione viene sospesa per i primi otto anni dalla costituzione dell’impresa. Il termine può essere prorogato dal Consiglio dei ministri. Per il primo anno non si applica l’imposta sulle vendite (l’equivalente della nostra Iva), successivamente l’imposta sarà dovuta in ragione del 50%.
Monopolio del commercio estero e pianificazione: formalizzazione di un addio
Tutti gli elementi che abbiamo indicato ed esaminato sinora depongono inequivocabilmente nel senso di una compiuta restaurazione del capitalismo a Cuba: e non da ora (né sicuramente dal nuovo progetto di Costituzione, spunto dal quale siamo partiti per questo articolo), ma da decenni addietro. Ciò perché, come dovrebbe essere ormai chiaro, non può esistere un’economia in transizione verso il socialismo se non ne esistono i pilastri fondamentali che abbiamo descritto. Ma vogliamo aggiungere qualche altro argomento a conferma della nostra tesi.
Abbiamo già visto come non esista più il monopolio del commercio estero grazie alla penetrazione di imprese capitalistiche cui è garantito di poter importare ed esportare ciò che più aggrada loro, oltre a poter trasferire all’estero i profitti realizzati, senza alcun obbligo di reinvestirli a Cuba. E anche in questo caso, il governo cubano ha apprestato un quadro giuridico entro cui inscrivere la nuova realtà allo scopo di dissipare, persino formalmente, ogni dubbio al riguardo: perciò, con il Decreto Ley n. 264 del 2 marzo 2009, venne estinto il Ministero del Commercio Estero, cui erano attribuite in regime monopolistico le funzioni di gestione e controllo delle importazioni e delle esportazioni del Paese, e al suo posto è stato creato il Ministero del Commercio Estero e degli Investimenti Esteri che, al di là dell’assonanza puramente nominalistica, non persegue gli obiettivi dell’organismo estinto, ma ha il ben diverso compito di preparare e proporre al governo la politica relativa all’attività commerciale con l’estero, creare le imprese miste (che, come abbiamo visto, hanno piena libertà – così come quelle a capitale integralmente straniero – di importare ed esportare ciò che vogliono) e “collaborare economicamente con altri Paesi”.
E così pure, in epoca di molto precedente, era già venuto meno l’altro grande pilastro su cui si deve fondare un’economia non capitalista. Con il Decreto Ley n. 147 del 21 aprile 1994, infatti, era stata disciolta la Junta Central de Planificación. In altri termini, da quel periodo, non esisteva più l’organismo che deve elaborare un piano centrale della produzione, e cioè l’elemento che caratterizza un’economia non di mercato: la pianificazione centralizzata dell’economia, infatti, non è (solo) il controllo da parte dello Stato dei processi economici, bensì la direzione che si vuole imprimere allo sviluppo economico. Ossia, la pianificazione non è (solo) lo sviluppo delle forze produttive, ma deve avere come obiettivo finale la creazione di un ordine socialista[36]. Senza lo strumento della pianificazione centralizzata si possono anche predisporre dei piani di approvvigionamento della tale o tal altra merce, di estrazione della tale o tal altra risorsa mineraria, o ancora della vendita del tale o tal altro prodotto, ma non si sarà mosso un solo passo in direzione del socialismo, e l’economia che sortirà da quei piani sarà soltanto e unicamente un’economia di mercato.
Il fatto è che esiste un’intima e indissolubile correlazione tra monopolio del commercio estero e pianificazione centralizzata. Se, per rifarci a Cuba, le imprese, sia miste che di capitale interamente straniero, possono liberamente importare ed esportare ciò che è più funzionale ai loro obiettivi, e cioè ai loro profitti; se, in altri termini, possono senza restrizioni gestire il commercio estero, che dunque non è più monopolio dello Stato; se addirittura i soci stranieri di quelle miste e i proprietari di quelle a totale capitale straniero possono “liberamente trasferire all’estero, in valuta liberamente convertibile, non assoggettabile ad imposte o altre esazioni relative a tale trasferimento, gli utili netti o dividendi ottenuti dall’investimento” (v. sopra, art. 8 della Legge sugli Investimenti Esteri n. 77 del 1995. Lo stesso principio è confermato dall’art. 9 della vigente Legge n. 118 del 2014); allora è evidente che la produzione – e, più in generale, l’economia – non è in funzione di un piano centrale, e dunque nell’interesse della società, ma invece in funzione degli interessi dell’investitore, e dunque del profitto: e il profitto è il fulcro di un’economia capitalista.
Allora, non può essere messo in discussione il fatto che Cuba non sia più – da un pezzo – uno Stato operaio (quantunque deformato), ma uno Stato capitalista. Ciò potrà rincrescere ai militanti sentimentali, ai sinceri attivisti che hanno negli occhi e nel cuore l’effigie del “Che”, ma a un’analisi marxista della realtà la rappresentazione romantica della Cuba come ultimo bastione del comunismo non regge.
Le critiche: l’embargo …
Potremmo, a questo punto, terminare qui la nostra disamina, ritenendo concluso con successo il compito che ci eravamo prefisso all’inizio del testo. Ma già sappiamo che altre critiche stanno per essere rivolte alla nostra ricostruzione. E allora conviene affrontarle subito.
Uno degli argomenti che viene usato è quello dell’embargo. Si sostiene che il feroce embargo che gli Usa stanno attuando da oltre cinquant’anni avrebbe indotto Cuba a delle contromisure economiche per una questione di sopravvivenza. Anzi, proprio l’embargo sarebbe la prova che quello cubano sarebbe uno Stato socialista perché con tale misura gli Stati Uniti lo starebbero strozzando per restaurare finalmente il capitalismo sulla Isla.
Peccato che questo ragionamento sia estremamente debole e totalmente fallace. Il bloqueo[37] risale al 1962, ma per tutto il periodo in cui è rimasta legata all’Urss e al Comecon, Cuba vi ha fatto fronte, sia pure con grandi difficoltà, grazie agli aiuti del blocco dei paesi dell’Est. Il 24 novembre 1992, l’Assemblea generale dell’Onu approvò per la prima volta una risoluzione di condanna dell’embargo: i voti favorevoli alla risoluzione furono 59, 71 gli astenuti e solo 3 quelli contrari (Usa, Israele e Romania). A partire da quella data, ogni anno è stata adottata la stessa risoluzione, e con un numero di voti favorevoli sempre crescenti (179 nel 2004, 182 nel 2005, 184 nel 2007, 185 nel 2008, 187 nel 2009, fino ad arrivare a 191 nel 2017, con i soli voti contrari di Usa e Israele).
È un caso che solo a partire dal 1992 l’Onu abbia preso una simile posizione? No, non è un caso. E la ragione ce la spiega Trotsky a proposito dell’Unione Sovietica:
«L’evoluzione della burocrazia sovietica interessa in ultima analisi la borghesia mondiale dal punto di vista della modificazione delle forme di proprietà. […] Finché il monopolio del commercio estero non è abolito, finché non sono ristabiliti i diritti del capitale, l’Urss, malgrado tutti i meriti dei suoi governanti, resta agli occhi della borghesia del mondo intero un nemico irriducibile […]»[38].
Nel luglio 1992 Cuba adottava una Costituzione che, come abbiamo visto, modificava radicalmente gli elementi costitutivi della propria economia, eliminando quei pilastri che ne facevano un’economia non capitalista (monopolio del commercio estero, proprietà esclusiva dei mezzi di produzione; la Giunta per la pianificazione sarebbe stata abolita di lì a due anni). E solo pochi mesi dopo (novembre), la borghesia mondiale riconosceva formalmente, attraverso la risoluzione dell’Onu, questa nuova realtà, e cioè la transizione di Cuba da un’economia non di mercato a una capitalista. Il bloqueo era in vigore anche l’anno prima, due, cinque, trenta anni prima. Perché dunque arrivare al 1992 per condannarlo? Perché fu solo allora che Cuba diede una altrettanto formale garanzia di radicale cambiamento di sistema: abolendo cioè il monopolio del commercio estero, “ristabilì – per dirla con Trotsky – i diritti del capitale”, e perciò non fu più per la borghesia del mondo intero un “nemico irriducibile”.
Sappiamo che uno degli ultimi atti della presidenza Obama fu il fragile ristabilimento delle relazioni Usa‑Cuba, pur restando in vigore la legge Helms‑Burton[39]. Sappiamo anche che l’attuale presidente Usa, Trump, ha preannunciato un inasprimento delle sanzioni. In realtà, l’embargo è il prezzo che il governo statunitense deve pagare alla potente lobby dei cubano‑americani di Miami, costituita dalla borghesia cubana esiliata dai tempi della Revolución: una borghesia che venne espropriata e vorrebbe rientrare in possesso dei beni perduti. Ma è un prezzo salato per l’imperialismo nordamericano, che per decenni si è autoescluso dai lucrosi affari con Cuba, conclusi invece da altri governi capitalisti: che hanno, così, realizzato profitti da favola appropriandosi di fatto di un mercato vergine ai danni degli Stati Uniti. Ecco perché all’interno degli Usa da anni si sta dipanando sottotraccia un conflitto interborghese tra quei settori che vorrebbero togliere l’embargo a Cuba per riguadagnare quote di mercato perdute a tutto vantaggio dei Paesi imperialisti concorrenti[40] e altri che invece appoggiano la lobby di Miami[41].
In funzione di questo conflitto, a dispetto della vigenza del bloqueo, gli Usa non hanno rinunciato a fare affari con Cuba, sia pure da una posizione defilata, tanto che nel 2004 figuravano come il suo sesto partner commerciale[42]. Oggi, «gli Stati Uniti hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo importante nell’economia cubana nonostante le restrizioni imposte dall’embargo e dalle nuove regole dettate dal governo di Donald Trump nel novembre scorso. In questo scenario, ci sono almeno cinque aree chiave in cui i legami economici degli Usa con Cuba sono significativi: i viaggi turistici, le rimesse, i servizi di telecomunicazioni, le vendite di prodotti agricoli (TSRA), e gli investimenti indiretti»[43].
È evidente, quindi, che quello dell’embargo non è un argomento che possa validamente contrastare le conclusioni cui siamo finora giunti.
… la proprietà dei mezzi di produzione …
Si dice allora, e passiamo a un’altra critica: “Sì, ma i mezzi di produzione sono rimasti prevalentemente nelle mani dello Stato. In moltissimi casi, poi, le società miste vedono una quota maggioritaria pubblica a scapito di quella degli investitori privati, e comunque la gran parte delle imprese è statale”.
In realtà, abbiamo visto che la cornice legale approntata negli anni da Cuba prevede la possibilità che i mezzi di produzione vadano in proprietà agli investitori[44]. E le imprese a capitale totalmente straniero ne sono un esempio lampante. Ciò smentisce categoricamente la prima parte dell’obiezione mossa.
Tuttavia, a non dissimile conclusione si giunge anche rispetto alla sua seconda parte, e cioè quando – si dice – nelle imprese miste la quota proprietaria dello Stato è maggioritaria e quando tante sono statali al 100%.
Il fatto è che il carattere di classe di uno Stato non è necessariamente determinato dalle forme di proprietà. In uno Stato possono coesistere diverse forme di proprietà (pubblica, privata), ma non è questo solo elemento a determinarne il carattere di classe. Nell’Unione Sovietica all’epoca della Nep esistevano numerose imprese private[45]; nell’Italia fascista ai tempi di Mussolini la maggioranza delle imprese era sotto il controllo dello Stato corporativo[46]. Ma tutto questo non faceva, né dell’Urss uno Stato capitalista, né dell’Italia uno Stato socialista. Le diverse forme di proprietà debbono in altri termini essere accompagnate e qualificate da un ulteriore elemento. E cioè dai rapporti di produzione sottesi all’economia:
«La natura di classe dello Stato non viene determinata dalle sue forme politiche, ma dal suo contenuto sociale, cioè dal carattere delle forme di proprietà e dei rapporti di produzione che un dato Stato fa propri e difende»[47].
A Cuba non è la percentuale di proprietà statale dei mezzi di produzione a determinare il carattere di classe dello Stato, ma il fatto che la produzione effettuata attraverso quei mezzi non si svolge in funzione di un’economia centralmente pianificata caratterizzata dal monopolio del commercio estero[48]: e dunque, non nell’interesse della società, ma delle leggi del mercato e del profitto. Ciò perché Cuba ha “fatto propri e difende” rapporti di produzione capitalistici, come abbiamo visto.
… e la borghesia?
Vale la pena a questo punto affrontare un’ultima obiezione. “Ma se il capitalismo è stato restaurato, dov’è la borghesia che avrebbe condotto questo processo? I tentativi di colpo di stato sono falliti. I gusanos[49] continuano a vivere agiatamente in Florida e continuano a reclamare la restituzione delle proprietà che vennero loro espropriate. E intanto, a Cuba vige un regime di partito unico e quel partito è comunista”.
I processi di restaurazione del capitalismo nell’ex Unione Sovietica, così come in Cina e poi a Cuba, hanno indubbiamente avuto dei tratti comuni: non v’è stato un evento esterno, come ad esempio un golpe orchestrato dall’imperialismo, non v’è stato spargimento di sangue e instaurazione di regimi dittatoriali. Al contrario, la restaurazione s’è data “dall’interno” ad opera della stessa burocrazia che dirigeva quegli Stati quando erano operai. In questo senso, ancora una volta, il pronostico di Trotsky ha trovato conferma:
«La prognosi politica implica un’alternativa: o la burocrazia, divenendo sempre più l’organo della borghesia mondiale nello Stato operaio, rovescerà le nuove forme di proprietà[50] e trascinerà di nuovo il Paese nel capitalismo; oppure la classe operaia distruggerà la burocrazia e aprirà la strada al socialismo»[51].
Con forme, modalità e ritmi delle rispettive dinamiche diversi, in Urss, Cina e Cuba si è verificata la prima delle due ipotesi alternative: è stata la burocrazia alla testa dello Stato a restaurare il capitalismo, non già la vecchia borghesia che era stata a suo tempo espropriata. E per farlo ha dovuto trasformare se stessa da casta burocratica e parassitaria in nuova borghesia.
È ancora una volta Trotsky a spiegarci il fenomeno:
«Ammettiamo […] che né il partito rivoluzionario, né il partito controrivoluzionario si impadroniscano del potere. La burocrazia resta alla testa dello Stato. Anche in queste condizioni l’evoluzione dei rapporti sociali non si ferma. Non si può certo immaginare che la burocrazia abdichi in favore dell’eguaglianza socialista. Se essa ha … ritenuto possibile […] ristabilire i gradi e le decorazioni, in seguito dovrà inevitabilmente cercare un appoggio nei rapporti di proprietà. Si potrebbe obiettare che poco importano ai grossi funzionari le forme di proprietà da cui ricavano i loro redditi, ma sarebbe ignorare il fattore della precarietà dei diritti della burocrazia e il problema della sua discendenza. Il recente culto della famiglia sovietica non cade dal cielo. I privilegi che non si possono tramandare ai figli perdono la metà del loro valore. Ma il diritto di lasciare in eredità è inseparabile da quello di proprietà. Non basta essere direttore di un trust, bisogna esserne azionista. La vittoria della burocrazia in questo settore decisivo ne farebbe una nuova classe possidente»[52].
Trotsky ci dice, in altri termini, che i privilegi della casta burocratica sono per loro natura precari e che, per consolidarsi, debbono trasformarsi in privilegi proprietari. Così pure, chi li esercita non può limitarsi ad esserne il gestore, ma deve diventarne il titolare.
Ecco come, in mancanza di una rivoluzione politica che la rovesciasse, la burocrazia si è mutata in borghesia: e ciò è valso in tutti gli Stati ex operai. In tutti e tre i casi citati, le (contro)riforme sono state varate “in nome” del socialismo, sbandierando una presunta “continuità” o “modernizzazione” del socialismo; ma in Cina e a Cuba è restato al potere un partito che continua a definirsi comunista. E soltanto a Cuba alla testa dello Stato è rimasta proprio – fisicamente – la direzione che aveva fatto la rivoluzione ed espropriato la borghesia: ciò che le ha concesso un’autorevolezza che non è stato dato riscontrare negli altri casi.
Ora, per restare a Cuba, la casta burocratica che ha diretto lo Stato operaio si è, come detto, trasformata nella borghesia ora al potere di uno Stato borghese: la cui colonna vertebrale, come in tutti gli Stati borghesi, è rappresentata dalle forze armate. Un’istituzione che gestisce direttamente una enorme parte dell’economia della Isla.
Le Fuerzas Armadas Revolucionarias dirigono il gruppo imprenditoriale Gaesa (Grupo de Administración Empresarial S.A.), che è la più grande holding cubana, un conglomerato di oltre cinquanta grandi imprese, tutte operanti sotto le leggi del mercato e dirette dal generale di brigata Luis Alberto Rodríguez López‑Callejas, ex genero di Raúl Castro. Attualmente Gaesa è leader in molti settori strategici dell’economia del paese, come il commercio al dettaglio, il settore del turismo, la zona di sviluppo speciale Mariel (Zedm), le telecomunicazioni, la finanza, la logistica, il mercato automobilistico e il settore immobiliare, tra gli altri. Tutte le società che compongono la sua struttura aziendale operano sul mercato dollarizzato.
Nella storia della rivoluzione cubana, mai le forze armate avevano concentrato tanto potere economico nelle loro mani quanto oggi. In un primo tempo, Gaesa aveva un ruolo marginale nell’economia cubana. Il suo modello di business era orientato a raccogliere fondi per finanziare le attività dell’esercito e ridurne l’onere finanziario a carico dello Stato. Oggi la situazione è diversa: Gaesa è diventata una piovra imprenditoriale che ha gradualmente raccolto i settori più redditizi dell’economia del Paese. Si stima che la sua attività nel 2016 sia stata di circa 3,8 miliardi di dollari e che il complesso delle sue operazioni commerciali abbia generato il 21% del reddito lordo dell’economia cubana. Tra le sue acquisizioni più importanti negli ultimi anni ci sono Cimex Corporation, Habaguanex S.A. e Banco Financiero Internacional (Bfi), che hanno reso Gaesa una delle compagnie più redditizie e potenti non solo sull’isola, ma nella regione dei Caraibi.
Le riforme che hanno introdotto a Cuba l’economia di mercato hanno fatto sì che GAESA si sia posizionata rapidamente nei settori in cui erano previsti investimenti esteri. Esempi sono la zona di sviluppo speciale Mariel (Zedm), il luogo progettato per diventare la locomotiva industriale e tecnologica del paese; il mega progetto turistico del porto dell’Avana e lo sviluppo del centro storico della capitale del paese, la zona più caratteristica e visitata dell’isola da turisti stranieri, popolata da musei e luoghi storico‑culturali, hotel, bar e negozi; l’85% del mercato al dettaglio dollarizzato, che domina le più grandi reti di negozi di alimentari, stazioni di servizio, catene di fast food, che rappresentano i principali esercizi in cui viene spesa gran parte delle rimesse inviate dagli esiliati cubani; il 27% delle quote di Etecsa, il monopolio delle telecomunicazioni del Paese, che controlla un mercato in crescita per gli utenti di telefonia cellulare (4,3 milioni di utenti) e la distribuzione dell’accesso a Internet; il settore turistico con due potenti catene alberghiere (Gaviota S.A. e Habaguanex S.A.) che hanno la maggioranza degli hotel a 4 e 5 stelle nei poli turistici più strategici del paese; e parte del settore finanziario.
Questa ampia presenza di Gaesa nell’economia cubana dimostra inequivocabilmente che buona parte delle imprese che costituiscono le maggiori opportunità di investimento sono nelle mani delle forze armate cubane.
A ciò va aggiunto che lo Stato ha spezzato il vincolo lavorativo che lo legava a centinaia di migliaia di lavoratori[53], che oggi svolgono un lavoro autonomo (i cuentapropristas)[54] e che nel 2016 hanno prodotto il 17,81% del reddito lordo dell’economia. Questo processo ha prodotto, all’interno di questo settore, la formazione di una piccola borghesia con livelli di reddito parecchio più alti di quanto invece percepisce la maggioranza della popolazione, in particolare lavoratori pubblici e pensionati[55].
In linea generale, pertanto, oltre a registrare la formazione di una nuova classe borghese nata nel seno della casta burocratica al potere, si può dire, pur in mancanza di dati ufficiali (che il governo si guarda bene dal diffondere), che a Cuba si è incrementata la diseguaglianza sociale, è aumentata la concentrazione di ricchezza ed è cresciuta la povertà. Anche questa polarizzazione sociale non depone in favore di un’economia non di mercato.
Chi difende davvero l’idea della rivoluzione?
In conclusione di questo lungo scritto, non ci soffermeremo su quanto resta delle conquiste sociali della Revolución. Indubbiamente, con l’avanzare del capitalismo e delle sue leggi nella Isla, la tendenza è alla progressiva perdita di quelle conquiste[56].
Ci si chiederà, allora, la ragione che ci ha mossi a questa puntigliosa analisi.
Ebbene, contrariamente a quanto possano pensare i nostalgici della Rivoluzione cubana; o coloro che restano abbarbicati all’immagine del “Che” in ricordo dei loro anni giovanili e come comprensibile reazione rispetto a quella che appare loro come una “sconfitta” degli ideali di quell’epoca; o ancora coloro che difendono l’idea di una Cuba come ultimo bastione del socialismo, come un Davide che da decenni si batte contro il Golia nordamericano; contrariamente a tutti costoro, noi sosteniamo che non sono loro i difensori di quella rivoluzione. Al contrario: sono i difensori di una casta burocratica e parassitaria che ne ha tradito gli ideali consegnando Cuba al capitalismo e trasformando se stessa nella nuova borghesia sfruttatrice dei lavoratori e del popolo cubano.
E invece, la nostra critica vuole essere proprio la difesa di quella rivoluzione.
Nel 1959, Cuba era uno dei Paesi più poveri dell’area, afflitto dai problemi della miseria, della disoccupazione, delle malattie, dell’analfabetismo. La rivoluzione mostrò che quei problemi potevano essere risolti con un’economia centralmente pianificata. Quello che era considerato il bordello degli Stati Uniti dimostrò, fra enormi difficoltà, che l’unico modo per porre fine al degrado prodotto dall’ordine capitalista era proprio sovvertirne l’anarchia. Per i progressi fatti grazie a un sistema economico‑sociale nuovo, Cuba si collocò fra i primi Paesi del mondo per il proprio sistema sanitario e per quello educativo, il pieno impiego fu una conquista che nessun Paese della regione poteva vantare, primeggiò persino nello sport.
Non solo! Rompendo il giogo imperialista, la rivoluzione cubana ebbe un enorme impatto su tutto il continente latinoamericano, sprigionando nel resto del mondo un entusiasmo rivoluzionario secondo solo a quello che si era sviluppato con l’Ottobre russo.
Contro chi sostiene che fare una rivoluzione socialista è un’utopia, Cuba dimostrò che i veri realisti sono i rivoluzionari, mentre è proprio chi difende il capitalismo ad essere portatore di un’utopia: quella di pensare che “democratizzandolo” si possa avere un capitalismo “buono”, “progressivo”, “inclusivo”.
Ora, dopo alcuni anni dall’aver ottenuto quei successi, i dirigenti della rivoluzione, per le ragioni che abbiamo visto, hanno riaperto le porte di Cuba al capitalismo, e subito se ne sono cominciati a vedere gli effetti: ad una ad una, tutte le conquiste, che erano state ottenute espropriando il capitalismo e che avevano fatto progredire il popolo cubano, sono state perse e si stanno ancora perdendo. Perché è proprio questo il problema: una volta che si sia consegnata l’economia al capitalismo e alle sue leggi, invece di fare limitate concessioni come fu nel periodo della Nep, quelle conquiste sociali andranno via via a perdersi.
E la ragione per cui rivendichiamo che, attraverso un’analisi scientifica del corso della Rivoluzione cubana, siamo noi i veri difensori di quella rivoluzione sta in quella parte della citazione di Trotsky che abbiamo riportato all’inizio di questo testo, anticipando lì che avremmo lasciato in sospeso l’esame della sua seconda parte.
Ricordiamola. Dopo aver ipotizzato che in presenza di “circostanze assolutamente eccezionali” partiti piccolo‑borghesi avrebbero potuto essere spinti al di là dei limiti del loro stesso programma espropriando la borghesia, Trotsky aggiungeva:
«In ogni caso, una cosa è fuori dubbio: anche se questa eventualità altamente improbabile divenisse, in qualche luogo e in qualche tempo, una realtà, e il governo operaio e contadino nel senso sopraddetto si realizzasse nei fatti, esso rappresenterebbe solo qualcosa di episodico lungo la strada che porta alla vera dittatura del proletariato»[57].
Ecco, a Cuba si realizzò – come detto – quella “eventualità altamente improbabile”, e il governo che ne scaturì è stato, appunto, “qualcosa di episodico” sulla strada della dittatura del proletariato.
Ciò non vuol dire affatto che quest’esito era “scritto nel destino”: Trotsky non voleva assolutamente affermare questo, com’è reso evidente da altri scritti che abbiamo citato (v., ad es., quello indicato in nota 51). Se il partito al potere avesse costruito lo Stato operaio cubano sulle basi dell’autentica democrazia operaia, e cioè sviluppando appieno gli organismi consiliari che dovrebbero essere presenti in una rivoluzione proletaria; se avesse approfondito gli elementi dell’economia non capitalista che aveva insediato; o ancora: se la classe operaia avesse rovesciato la burocrazia e realizzato una rivoluzione politica contro di essa, prima ancora che si trasformasse nella nuova borghesia, e l’avesse scalzata dal potere insediando invece il proprio potere; allora sì, come ipotizzò Trotsky, a Cuba si sarebbe “aperta la strada al socialismo”.
Ma tutto ciò non è accaduto. Quella burocrazia si è mantenuta al potere senza che si realizzasse nessuna delle alternative che abbiamo appena delineato, e, proprio per questo, la continuità del regime burocratico si è risolta nella restaurazione del capitalismo.
È sempre Trotsky, analizzando la realtà dell’Urss a pochi giorni dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, a dirlo:
«È vero che ci aspettavamo più il crollo dello Stato sovietico che la sua degenerazione; per dirla più esattamente, non facevamo gran differenza fra le due possibilità. Ma esse non si contraddicono l’una con l’altra. La degenerazione deve ineluttabilmente finire, a un certo punto, in un crollo»[58].
In altri termini, l’indefinita permanenza al potere della burocrazia trasforma “ineluttabilmente” – come dice Trotsky – lo Stato operaio in Stato capitalista.
Per queste ragioni rivendichiamo – contro chi difende la burocrazia cubana schierandosi attivamente nel suo campo, ma anche contro chi di fatto non si disloca apertamente contro di essa non volendo riconoscere la compiuta restaurazione del capitalismo a Cuba – di essere gli autentici difensori della Revolución e degli ideali da essa incarnati.
Ed è appunto questo il senso di questo scritto: non quello di gettare discredito sulla Rivoluzione cubana, ma, al contrario, di difenderne lo spirito originario. Non voler vedere gli errori che sono stati commessi e non volerli addebitare ai responsabili porta ad un errore ancor più grande, e cioè a rinunciare a fare tesoro dell’esperienza storica per potere in futuro imboccare la strada giusta nell’interesse del movimento operaio.
Ecco perché ci paiono particolarmente appropriate, per terminare questa lunga analisi, le parole di Rosa Luxemburg scritte all’indomani della capitolazione delle organizzazioni dei lavoratori di fronte allo scoppio della Prima guerra mondiale:
«L’esperienza storica è la … sola maestra [del proletariato], la strada di spine della sua autoliberazione non è lastricata soltanto di infinite sofferenze, ma anche di innumerevoli errori. La meta del suo viaggio, la sua emancipazione dipende dal problema se il proletariato è in grado di apprendere dai propri errori. L’autocritica, un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose, costituisce l’aria e la luce del movimento proletario. […] Ma il socialismo sarebbe perduto soltanto se il proletariato internazionale non potesse misurare la profondità [della sua] caduta e non volesse apprendere qualche cosa da tutto ciò»[59].
Note
[1] Il progetto di riforma, licenziato dall’Assemblea nazionale (il parlamento cubano), verrà nei prossimi mesi sottoposto a referendum popolare.
[2] “A Cuba torna la proprietà privata Approvata la nuova Costituzione”, Il Corriere della Sera, 23/7/2018 (https://tinyurl.com/ya6zluvv).
[3] “L’ultima revolución. Cuba sulla Carta non è più comunista”, la Repubblica, 23/7/2018 (https://tinyurl.com/ybzxowvn).
[4] Si veda, ad esempio, “La fake news ‘a Cuba è arrivato il capitalismo’, smontata dal Prof. Vasapollo”, Contropiano, 24/7/2018 (https://tinyurl.com/ycjc9doz).
[5] “Cuba non è … ‘un’isola’” (https://tinyurl.com/y9zog8lj).
[6] Esercizio, questo, completamente inutile – per le ragioni appena accennate e per quanto vedremo nel prosieguo del testo – e che volentieri lasciamo ai fautori delle due contrapposte letture di cui abbiamo appena detto.
[7] Nell’aprile del 1959, Castro si recò negli Stati Uniti e si incontrò con l’allora vicepresidente Richard Nixon. In proposito, il rivoluzionario peruviano Ricardo Napurí, molto vicino a Che Guevara, insieme alla cui madre viaggiò alla volta di Cuba nel gennaio del 1959, racconta: «Mi trovavo a Cuba insieme al Che nel momento in cui Fidel decise di andare a discutere con le autorità nordamericane il tipo di relazione da instaurare con la Cuba postbatistiana. Il Che mi raccontò che lui, Raúl Castro e altri non erano d’accordo con questa visita. […] Giunto negli Usa, il 17 aprile 1959, a New York, Fidel Castro dichiarò: “L’ho detto in maniera chiara e definitiva che non siamo comunisti. Le porte sono aperte agli investimenti privati che possano contribuire allo sviluppo dell’industria a Cuba”. E il 22 aprile, nel suo discorso a Central Park: “La vittoria è stata possibile soltanto perché si sono riuniti i cubani di tutte le classi e di tutti i settori intorno alla medesima aspirazione”» (E. González, El trotskismo obrero e internacionalista en la Argentina, Editorial Antídoto, 1999, tomo III, vol. 1, pp. 29‑30).
[8] L. Trotsky, Programma di transizione, Massari editore, 2008, p. 106.
[9] La approfondiremo più avanti nel testo.
[10] Non ci dilungheremo qui su tale caratterizzazione, che non è oggetto di quest’articolo e che ha rappresentato motivo di polemica in seno alla sinistra mondiale. Più oltre, nel testo, ne daremo una succinta definizione.
[11] L. Trotsky, La rivoluzione tradita, A.C. Editoriale, 2000, p. 293.
[12] «Il carattere di classe dello Stato viene determinato dal suo rapporto con le forme di proprietà dei mezzi di produzione»: L. Trotsky, “Un État non ouvrier et non bourgeois?”, Œuvres, vol. 15, Institut León Trotsky, 1983, p. 310.
[13] L. Trotsky, La rivoluzione tradita, cit., p. 138.
[14] L. Trotsky, “¿Hacia el capitalismo o hacia el socialismo?”, 25 agosto 1925, Ceip León Trotsky (https://tinyurl.com/ydg597r6).
[15] Sarebbe senza dubbio più corretto parlare di una “economia in transizione verso il socialismo”, dal momento che la sola architettura giuridico‑istituzionale non capitalista non importa, di per sé sola, la trasformazione illico et immediate dell’economia di uno Stato in socialista (cfr., al riguardo, L. Trotsky, La rivoluzione tradita, cit., p. 121. D’altronde, già Marx sosteneva, in “Critica del programma di Gotha”, che nel primo periodo di esistenza di uno Stato operaio, le norme borghesi di distribuzione vengono mantenute). Nondimeno, per semplicità del discorso, continueremo nel testo a far riferimento all’espressione “economia non capitalista”.
[16] Costituzione della Repubblica di Cuba (https://tinyurl.com/y92c5b3y). Il grassetto è nostro.
[17] J. Bell Lara e altri, Documentos de la Revolución Cubana 1960, Nuevo Milenio, 2017, pp. 132 e ss.
[18] Conferenza del 20 ottobre 1960 sul tema “El Banco Nacional y la economía”, in op. ult. cit., p. 215 e ss.
[19] Come segnala lo studio di tre economisti cubani molto vicini al governo castrista (tanto che il loro lavoro si sostanziava in proposte per l’adozione di riforme), «la forte integrazione economica di Cuba al blocco del Consiglio di Mutuo Aiuto Economico (Comecon) non fu solo … il risultato di coincidenze ideologiche, bensì l’unica alternativa alla politica di embargo che i governi Usa imposero dai primi anni della Rivoluzione. Progressivamente, quest’integrazione, non senza tensioni e contraddizioni, produsse per quasi tre decenni un tipo di relazione economica che in gran misura permise di liberarsi dalle difficili condizioni imposte dal mercato mondiale ai Paesi sottosviluppati. Prezzi preferenziali, crediti allo sviluppo, compensazioni agli squilibri commerciali, aiuti tecnici e militari, procurarono all’economia nazionale le risorse sufficienti per sostenere un alto livello di investimenti e una spesa sociale in espansione» (J. Carranza Valdés, L. Gutiérrez Urdaneta, P. Monreal González, Cuba: la reestructuración de la economía (Una propuesta para el debate), Iepala Editorial, 1995, pp. 13 e s.).
[20] La Costituzione del 1992 è consultabile alla pagina https://tinyurl.com/yc8fjm7o.
[21] Una vera e propria contraddizione in termini!
[22] La giustificazione la fornisce la premessa del provvedimento: «Lo sviluppo economico del Paese richiede questo tipo di associazione in determinate attività in cui le risorse finanziarie, materie prime, tecnologie e mercati, che non sono alla nostra portata, sono indispensabili per l’impiego delle nostre risorse naturali e umane. Queste associazioni [sono] promosse o accettate in maniera assolutamente libera dallo Stato socialista […]]» (il grassetto è nostro).
[23] Di cui parleremo più diffusamente nel prosieguo.
[24] In questo senso, il Decreto Ley n. 50 «permise la possibilità di costituire, nella forma giuridica di società anonima, imprese di capitale esclusivamente straniero (imprese di capitale straniero) e imprese di capitale straniero e nazionale (imprese miste), così come altre associazioni con capitale straniero e locale non implicanti la creazione di una persona giuridica, ma semplicemente una joint venture, o, se si vuole, un contratto di collaborazione (associazione economica internazionale). Allo stesso modo, in questa stessa normativa venne consacrata una serie di disposizioni relative […] al modo in cui dovevano essere distribuiti i loro profitti o utili» (A. Gurrea Martínez, N. Mesa Tejada, Una aproximación al régimen jurídico de las empresas cubanas: regulación actual y perspectivas de reforma, Instituto Iberoamericano de Derecho y Finanzas [IIDF], agosto 2016, p. 6: le evidenziazioni sono nel testo originale). Da notare che l’art. 25 del D.L. 50/1982 stabiliva un regime fiscale di favore per gli amministratori, dirigenti e soci delle imprese con investitori esteri, che prevedeva una parziale (ma significativa) esenzione dal pagamento di imposte: detto regime è stato prorogato nel tempo da tutte le leggi succedutesi.
[25] L’art. 39.2 del codice definiva la nozione di persone giuridiche, prevedendo, oltre alle imprese e cooperative statali, «[…] d) le società e associazioni costituite in conformità ai requisiti previsti dalla legge, […] f) le imprese non statali autorizzate a realizzare le loro attività, g) le altre entità a cui la legge conferisce personalità giuridica».
[26] J. Carranza Valdés e altri, op. cit., p. 39.
[27] Ibidem.
[28] L. Trotsky, “Produzione e rivoluzione”, discorso pronunciato al XII congresso del Partito comunista russo (B), pubblicato sulla Pravda il 22 aprile 1923, Ceip León Trotsky (https://tinyurl.com/y7fx5fxy). A proposito dell’importanza che il monopolio del commercio estero rivestiva per l’economia non capitalista della Russia sovietica, giova riferirsi a M. Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, 1969, pp. 46 e ss., dove è dettagliatamente descritta, appunto, la battaglia che Lenin, insieme a Trotsky, condusse contro una parte del governo e del Comitato centrale – e in particolare contro Stalin – che volevano eliminare detto monopolio: ciò che Lenin considerava «un errore capitale, un attentato inammissibile agli interessi del Paese» (ivi, p. 47). Si vedano anche: V.I. Lenin, “Lettera sul monopolio del commercio estero” e “Sul monopolio del commercio estero”, entrambi i testi in Opere, vol. 33, Edizioni Lotta comunista, 2002, rispettivamente pp. 342 e ss. e 418 e ss.; P. Broué, La rivoluzione perduta, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 300‑302. Invece, sull’instaurazione del monopolio del commercio estero subito dopo l’insediamento del potere sovietico, E.H. Carr, La rivoluzione bolscevica. 1917‑1923, Einaudi editore, 1964, pp. 537 e ss.
[29] J. Carranza Valdés e altri, op. cit., pp. 46 e ss.
[30] Consultabile all’indirizzo https://tinyurl.com/ybwm89kq.
[31] Secondo J.M. Viñas Camallonga e R.A. Landeira, La compraventa da acciones de empresa mixta cubana por inversor extranjero (https://tinyurl.com/y8oawv2x), «prima dell’entrata in vigore di detto decreto [il D.L. 50 del 1982: NdA] non può parlarsi propriamente dell’esistenza di un quadro giuridico sugli investimenti esteri a Cuba, esistendo soltanto accordi bilaterali tra i Paesi membri del Consiglio di Aiuto Mutuo Economico (Comecon, in inglese), […]. Una volta fissati i principi sull’ingresso di capitali stranieri a Cuba, si rese necessaria la creazione di un corpo di leggi che offrisse garanzie e sicurezza giuridica all’investitore estero. Tale obiettivo si sarebbe materializzato con l’entrata in vigore della Legge 77/1995 del 5 settembre, “Sugli Investimenti Esteri” […]».
[32] L’art. 11 della Legge sugli Investimenti Esteri n. 118 del 2014, che ha sostituito quella in esame e di cui parleremo in seguito, ha confermato il principio dell’esclusione degli investimenti esteri nel settore della sanità. Giova tuttavia evidenziare che, a dispetto della vigenza di tale divieto, durante il 3° Congresso internazionale “Cuba Salute” 2018, nell’ambito dell’Esposizione “Salud para todos 2018”, esponenti delle istituzioni sanitarie e governative di Cuba hanno presentato la “cartera de negocios” (portafoglio di attività) per attrarre capitali stranieri anche nel settore della salute, che comprende quindici proposte nei campi della farmaceutica e della biotecnologia, per l’insediamento di un impianto di emoderivati e un altro di biomateriali, oltre che per la produzione di vaccini per il trattamento del tumore e di anticorpi terapeutici, nonché per la creazione di un centro esclusivo di Qualità della Vita e di una clinica internazionale di medicina dello sport e scienze applicate (https://tinyurl.com/yb9zvubt).
[33] “Castro’s Favourite Capitalist”, The Walrus, 12 dicembre 2009 (https://tinyurl.com/yapw6dba).
[34] Consultabile all’indirizzo https://tinyurl.com/ycal27f8.
[35] Da evidenziare che l’aliquota normale impositiva è del 35%.
[36] Per un utilissimo studio su questa problematica, che venne sviscerata da un lungo, acceso e approfondito dibattito degli economisti bolscevichi in seno al Gosplan (Gosudarstvennaja planovaja komissija: Commissione statale per la pianificazione), rinviamo a E.H. Carr e R.W. Davies, Le origini della pianificazione sovietica, Einaudi editore, 1974, e, in particolare, al t. II, pp. 335 e ss.
[37] Così viene denominato in lingua ispanica l’embargo.
[38] L. Trotsky, La rivoluzione tradita, cit., p. 249.
[39] Cioè quella che aggrava l’embargo.
[40] “Hillary Clinton calls for end to Cuba embargo in attack on ‘outdated’ policy”, The Guardian, 31 luglio 2015 (https://tinyurl.com/y9ef7ejt).
[41] “Rubio continues fight against Cuba deal”, CNN Politics, 21 dicembre 2014 (https://tinyurl.com/yat3dt2l).
[42] “Estados Unidos es el sexto socio comercial de Cuba” (https://tinyurl.com/yd8yd2oe).
[43] “El turismo y las relaciones comerciales Cuba‑Estados Unidos”, Progreso semanal, 27 febbraio 2018. V. anche “Los negocios entre Estados Unidos y Cuba están al alza a pesar de Trump”, 14Ymedio, 18 agosto 2017 (https://tinyurl.com/yc6yrpfl).
[44] In questo senso, si registra una crescente tendenza alla privatizzazione, considerando che tutti i settori produttivi sono stati – come abbiamo visto – messi a disposizione del capitale straniero.
[45] Trotsky riferiva in “¿Hacia el capitalismo o hacia el socialismo?”, cit., che durante la Nep ben il 38% della massa totale dei mezzi di produzione era in mano ai privati, mentre, in agricoltura, la percentuale giungeva al 96% e solo il 4% era statale!
[46] Non a caso, il dittatore italiano si vantava, come riportava Trotsky: «“I tre quarti dell’economia italiana, industriale e agricola, sono nelle mani dello Stato” (24 maggio 1934)» (L. Trotsky, op. ult. cit., p. 292).
[47] L. Trotsky, “Un État non ouvrier et non bourgeois?”, cit., p. 305 (l’evidenziazione è nostra).
[48] «Il commercio estero è completamente socializzato e il monopolio statale continua ad essere un principio immutabile della nostra economia politica»: L. Trotsky, “¿Hacia el capitalismo o hacia el socialismo?”, cit.
[49] Letteralmente, “vermi”: è l’appellativo dispregiativo con cui i cubano‑americani esiliati a Miami vengono definiti a Cuba.
[50] E cioè quelle socialiste.
[51] L. Trotsky, Il programma di transizione, cit., p. 118.
[52] L. Trotsky, La rivoluzione tradita, cit., p. 298 (l’evidenziazione è nostra).
[53] “Cuba se deshizo de 600.000 empleados en cuatro años”, La Nación, 26 febbraio 2014 (https://tinyurl.com/ybaby27y).
[54] Nel 2016 si contano 535.000 lavoratori autonomi, a fronte dei 157.000 del 2010.
[55] “¿Compañeros ricos? Los grupos de altos ingresos en Cuba”, Nodal, 8 maggio 2018 (https://tinyurl.com/ya8e2qmp). Si veda anche P. Monreal, “Contando “ricos” y “pobres” en Cuba: ¿qué dicen los datos disponibles?” (https://tinyurl.com/yajqdv44).
[56] Basti pensare alla piaga della prostituzione, che era stata quasi del tutto eliminata e che oggi, invece, complici la risorgente miseria e gli alti livelli di ingressi turistici nell’isola, è enormemente aumentata. Il pieno impiego non esiste più dal momento dell’annuncio dei licenziamenti di massa (v. precedente nota 53). L’istruzione pubblica, che era il fiore all’occhiello della rivoluzione cubana, versa oggi in condizioni precarie a causa della scarsità di maestri e professori: «secondo l’Istituto nazionale di Statistica, durante gli ultimi otto anni più di 20.000 insegnanti hanno abbandonato le scuole, alcuni per emigrare e altri per ricollocarsi in altre attività, ma tutti in cerca di migliori entrate economiche. Il ministro dell’Istruzione, Ena Elsa Velázquez, ha dichiarato che il deficit verrà coperto con l’assunzione di 17.000 pensionati e l’ingresso di 1.000 studenti di pedagogia», Público, 13 settembre 2017 (https://tinyurl.com/y7g8mm4s). Il fenomeno della diserzione riguarda anche – e per lo stesso motivo degli insegnanti – il sistema sanitario, in cui i medici sopravvivono con stipendi da fame, per cui, quando vengono inviati all’estero in missione (quello delle missioni sanitarie all’estero costituisce uno dei settori di punta dell’economia cubana, sotto la voce “esportazione di servizi”, fruttando a Cuba 11,5 miliardi di dollari all’anno: nel 2015 i medici cubani all’estero erano 50.000), spesso “disertano”, sicché lo Stato cubano li punisce impedendo loro il rientro in patria per otto anni (El Nuevo Herald, 11/5/2018).
[57] V. nota 8.
[58] L. Trotsky, “L’Urss in guerra”, 25 settembre 1939, in In difesa del marxismo, Giovane Talpa, 2004, p. 29.
[59] R. Luxemburg, “La crisi della socialdemocrazia (Junius‑Broschüre)”, in Scritti politici, vol. 2, Editori Internazionali Riuniti, 2012, p. 68.