Presentiamo ai nostri lettori questo interessante e documentato articolo ripreso dal sito dei compagni della Frazione Internazionalista Rivoluzionaria, La voce delle lotte.it, che offre una lettura di classe della gestione Marchionne del gruppo Fca e si interroga, dopo la morte dell’Ad, sulle prospettive future, soprattutto per quel che riguarda le sorti degli operai, in vista della probabile ondata repressiva e peggiorativa dei diritti lavorativi.
Buona lettura.
La redazione
Marchionne è morto, Fca è viva e lotta contro di noi!
Marchionne ci lascia: la borghesia e i politici piangono il loro paladino
Giacomo Danielevic
La morte di Sergio Marchionne, amministratore delegato del gruppo Fca, è stata un vero e proprio evento nella scena economica e politica, italiana e non solo: la stampa, le più alte cariche dello Stato, il giornalismo borghese, svariati personaggi in vista della società civile hanno espresso, più o meno spudoratamente, la loro grande ammirazione per la figura del manager che aveva fatto da ariete di sfondamento di tutta una stagione di attacchi dei capitalisti al salario e alle condizioni sociali e politiche della classe lavoratrice, culminata con l’uscita da Confindustria di Fca, la firma di un contratto aziendale che inaugurava le “nuove” fabbriche-lager, e la preparazione del terreno per l’approvazione del Jobs Act del Pd di Matteo Renzi. Non a caso, proprio quest’ultimo ha voluto esprimere il suo sdegno verso la gran massa di lavoratori e di militanti della sinistra operaia che non avevano alcuna lacrima da versare per un borghese sfruttatore che se n’era andato.
Provo disgusto per chi ancora oggi ha insultato sui social un uomo che stava morendo. Un abbraccio affettuoso alla famiglia di Sergio #Marchionne. La terra gli sia lieve. https://t.co/V0160ljn8A
— Matteo Renzi (@matteorenzi) July 25, 2018
Non meno stomachevole l’ex premier Gentiloni, primo ministro di un governo Pd centrato su ordine&patria, basato sulla “dottrina Minniti” di lager in Libia per gli emigranti e repressione brutale in casa: Marchionne ha portato “l’orgoglio italiano” nel mondo – proprio quel Marchionne che pagava le (poche) tasse in Svizzera e aveva resto Fiat-Chrysler una vera e propria corazzata transnazionale la cui “italianità” consiste più che altro nei mille legami economici e politici di supremazia che gli Agnelli-Elkann mantengono in Italia grazie ai molteplici marchi “d’eccellenza” associati a Fca e alla maggioranza delle azioni della Juventus, quando però la sede legale del gruppo è nei Paesi Bassi.
#Marchionne Grazie per il lavoro, la fatica, i risultati. E per l’orgoglio italiano portato nel mondo
— Paolo Gentiloni (@PaoloGentiloni) July 25, 2018
Lo stesso Silvio Berlusconi, rivale diretto in campo calcistico degli Agnelli, ha riservato un ricordo “inaspettatamente” generoso per Marchionne, che d’altronde ha rappresentato per lui il capitano d’industria ideale, spietato verso i lavoratori e abile nel trattare – e fottere! visti i miliardi ricevuti a fondo perduto nel caso degli Usa di Obama per far “risorgere” Chrysler – con lo Stato e attrarre capitali altrui, così come lo era stato il Berlusconi imprenditore pre-Forza Italia. E come Silvio, Sergio avrebbe potuto essere anche capitano della repubblica.
«Con Sergio Marchionne l’Italia perde non soltanto il più brillante dei suoi manager, ma una delle figure simbolo del nostro Paese. Ha rappresentato l’Italia migliore: quella operosa e concreta, seria e preparata, dotata di visione e capace di guardare al futuro. Dissi una volta, senza avvertirlo prima – e non me ne sono mai pentito – che mi sarebbe piaciuto vederlo alla guida del nostro Paese. Lo penso ancora: le caratteristiche di una persona straordinaria come Marchionne, la competenza, la preparazione, la capacità dimostrata di ottenere risultati importanti, sarebbero state preziose – se fosse stato disponibile – per ridare dignità alla politica».
John Elkann, da par suo, non ha aspettato nemmeno che il buon Sergio finisse di respirare per vergare un suo Requiem da mandare a tutti i dipendenti del gruppo.
A Pomigliano, Nola e Melfi l’azienda ha concesso dieci minuti di pausa per commemorare Marchionne, a mo’ di beffa postuma del “caro Sergio” che tanto si era speso per tagliare quanto più possibile le pause durante la giornata lavorativa degli operai: scene di silenzio diffuso e surreale, dopo il passaparola all’arrivo della notizia, si sono avute in tutte gli stabilimenti.
Fca accusa il colpo ma non “muore” di certo
La crisi finale della sua salute ha impedito a Marchionne di seguire il piano, annunciato lo scorso anno, di dimettersi da Ad il prossimo anno, per far spazio ad altri nell’attuazione del piano industriale 2018–2022.
Ricoverato da fine giugno in una clinica svizzera per un intervento a un sarcoma alla spalla che gli causava da tempo forti dolori che si aggiungevano a un problema cronico alla tiroide, una sopravvenuta embolia cerebrale l’ha portato velocemente al coma e al decesso all’età di 66 anni. La famiglia Agnelli-Elkann, che aveva già provveduto a rimuoverlo da ogni carica esecutiva non appena confermata l’irreversibilità delle sue condizioni, si è sollevata da ogni responsabilità dichiarando di essere all’oscuro della gravità delle condizioni di salute del manager – situazione non particolarmente verosimile, dato che Marchionne, per sua stessa ammissione, trascorreva pressoché tutto il suo tempo in azienda, senza ferie, avendo trovato anche una compagna di vita tra i ranghi dei suoi dipendenti.
La riunione degli azionisti Fca con la presentazione dei risultati trimestrali che doveva celebrare il trionfo di Marchionne, dopo 14 anni come Ad, e l’estinzione dei vecchi debiti di Fiat sulla scia di diverse annate di utili importanti, ha invece visto la rapida riorganizzazione dei vertici del gruppo nel weekend precedente la dipartita del vecchio manager, approfittando della chiusura dei mercati per attutire i verosimili cali in borsa: cali che puntualmente ci sono stati dopo l’annuncio della morte del manager, con il titolo Fca passato da 16,57 dollari per azione a 13,99 in poche ore; una diminuzione di quasi il 16%, mentre anche Exor (-3,49%), Ferrari (-2,19%) e Cnh (-0,27%) sono calate nelle stesse ore. Certo, i valori della Borsa non sono tutto e, come amava ripetere Marchionne stesso in azienda,
«il vero valore di un leader non si misura da quello che ha ottenuto durante la carriera ma da quello che ha dato. Non si misura dai risultati che raggiunge, ma da ciò che è in grado di lasciare dopo di sé».
E sull’eredità del Sergio nazionale, su ciò che “lascia dopo di sé”, effettivamente, il clan Agnelli non ha nulla da ridire: nel 2003–4 si trovava in una situazione finanziariamente disastrosa, fortemente indebitata, e a breve distanza da quella che sarebbe stata la spaventosa crisi mondiale del 2007–8; la gestione Marchionne ha portato alla piena internazionalizzazione del marchio, all’aggiustamento dei brand posseduti col rilancio di marchi di lusso come Ferrari e Maserati, all’acquisizione nel 2009 pressoché gratis e con investimenti statali Usa di Chrysler-Jeep-Dodge, gruppo che ai tempi versava in una crisi peggiore della Fiat nel 2003; il rilancio dei marchi americani e il riassetto industriale con apertura e potenziamento di fabbriche in paesi con salari più bassi di quelli italiani e condizioni fiscali e legali favorevoli (specialmente in Brasile ma anche, rimanendo nella Ue, in Serbia alla ex Zastava) hanno permesso a Fca di consolidarsi come uno dei pochi grandi gruppi internazionali che si spartiscono il mercato dell’automobile nel mondo. La presentazione delle prestazioni nel primo semestre 2018, inizialmente prevista proprio il 25 luglio, nonostante alcuni mesi dove si è in buona parte perduto lo slancio del 2017, ha sancito il raggiungimento di un grande obiettivo posto nell’era Marchionne: quello dell’azzeramento del debito aziendale, unito al raggiungimento di una liquidità netta industriale di 456 milioni di euro, a un utile netto di 1,774 miliardi di euro (quasi identico al primo semestre 2017) e a un numero complessivo di consegne globali di 1.301.000 veicoli (+6%) trainate dal mercato americano.
Quello che manca, nell’eredità di Marchionne, è un avanzamento nella ricerca e nella tecnologia paragonabile ai competitor diretti per quanto riguarda l’auto elettrica. Su questo terreno, Fca vanta un’offerta praticamente inesistente e piuttosto arretrata sul piano della ricerca e della progettazione di nuovi modelli da immettere a breve termine, quando altre importanti case automobilistiche si sono già fatte strada in quello che verosimilmente rappresenta il futuro dell’automobile o, perlomeno, un’alternativa sempre più sostanziosa al quasi-monopolio del petrolio per quanto riguarda i carburanti per veicoli a motore.
L’eredità di Marchionne in Italia
E in Italia, cosa rimane del vecchio gruppo Fiat? Nel nostro Paese rimangono Fiat, Alfa Romeo e Lancia, dove quest’ultima è stata praticamente soppressa a favore di Chrysler, con la sola Ypsilon venduta in Italia – e prodotta a Tychy, in Polonia! –, una rottamazione giustificata, secondo il fu Marchionne, dalla concentrazione di risorse nel rilancio a livello internazionale di Alfa Romeo, brand che effettivamente solo l’anno scorso ha venduto poco più di 12.000 veicoli nei soli Usa (anche se non ha iniziato diverse produzioni di modelli annunciati in Italia): molto, rispetto al nulla di prima; pochissimo, se comparato con il vento in poppa di Ram (pickup e veicoli commerciali), Jeep (in forte rialzo anche in Europa) e Chrysler, le quali congiuntamente vendono milioni di esemplari.
Proprio dal Ram-Jeep viene il nuovo Ad Fca, Mike Manley, che si ritrova un colossale gruppo con 14 marchi, 111 miliardi di ricavi netti, circa 236.000 dipendenti sparsi in 149 stabilimenti in decine di paesi, di cui poco più di un decimo in Italia.
A proposito: e l’Italia? A livello occupazionale va smentita la voce sensazionale riportata da Marco Revelli sul Manifesto e riportata da Fausto Bertinotti nella sua recente intervista concessa ad Ansa, per cui i dipendenti Fca in Italia oggi sarebbero 29.000, a fronte di 120.000 nel 2000. Il dato è probabilmente ricavato da quello Fim-Cisl del 2016 dove però, in maniera chiara e netta, si indica il numero degli operai delle fabbriche, neanche tutte, del gruppo. Ora, va tenuto conto che, da una parte, il gruppo Fca, come abbiamo accennato sopra, è frutto di una centralizzazione di capitale con un processo di fusione e scorporazione di singoli brand che ha alterato la struttura aziendale del vecchio gruppo Fiat (che nel 2000, ad ogni modo, contava 112.000 dipendenti e non 120.000), e che dunque in Italia alcuni marchi ora sono separati da Fiat anche se controllati sempre da Exor (Ferrari e tutto il gruppo Cnh, ad esempio) e pertanto non sono da contare nell’organico Fca; dall’altra, i dipendenti Fca a fine 2017 risultano secondo l’Annual Report dell’azienda circa 60.000 (sempre tenendo conto che, evidentemente, non sono tutti operai metalmeccanici). Certo, fra questi abbiamo parecchie migliaia di operai con contratti a breve o brevissima scadenza, o in cassa integrazione prolungata nel tempo, con turni scientificamente progettati e che non sono in alcun modo realmente riconducibili a congiunture o problemi economici strutturali dell’azienda: tutto “merito” della lotta di classe vittoriosa dei vertici Fca contro i propri operai e contro tutta la classe lavoratrice italiana, visto il simbolico valore di Fca di bandiera e avanguardia del capitalismo italiano negli ultimi anni, dalla rottura con la Confindustria, alla firma del contratto aziendale senza la Fiom, alla preparazione del terreno politico nazionale per l’approvazione del Jobs Act.
E ora? La gestione Manley e le prospettive di Fca
Investito rapidamente del massimo ruolo dirigenziale in Fca, dopo una scia di rumors che vedevano tutti come scontata l’elezione di un nuovo Ad pescando dal parco manager del gruppo, Mike Manley è uno dei simboli viventi del successo industriale dell’era Marchionne e della sua capacità di rilancio dei marchi americani acquistati – scorticando i salari e le condizioni sindacali di decine di migliaia di operai americani, e facendosi inondare di sovvenzioni statali dall’amministrazione Obama.
Già all’investor day a Balocco, lo scorso giugno, Manley aveva dichiarato:
«Consolideremo il marchio per resistere alla concorrenza. Nei prossimi cinque anni entreremo in tre nuovi segmenti: quello dei piccoli uv (utility vehicles), dei pick up e dei grandi suv. Anni di gloria ci aspettano».
Coerentemente con la sua esperienza, Manley, nel suo discorso di insediamento come Ad con la delega per l’area Nafta (Nord America), ha promesso di seguire e completare il piano 2018–2022 e di ricerca di un’ulteriore scia di traguardi da tagliare, primo fra tutti la Cina: «La Cina è una priorità. Le sfide maggiori con cui dobbiamo fare i conti e che francamente continueremo a dovere affrontare sono tutte concentrate sulla Cina». Il Paese di Mezzo è d’altronde il più grande mercato nazionale dell’auto, con oltre 28 milioni di esemplari venduti nel solo 2016.
«Abbiamo investito nel mestiere con una disciplina quasi calvinista, abbiamo restituito la dignità del lavoro alla gente degli stabilimenti che erano stati quasi completamente abbandonati» e così «siamo riusciti a ricreare una cultura della produzione che la Fiat aveva perduto»,
affermava Marchionne nel 2007. «Voglio che la Fiat diventi la Apple dell’auto».
Se il fu Sergio per “Apple dell’auto” intendeva un mostro di sfruttamento e una macchina macina-profitto, possiamo dargli ragione: cosa può “fare di più” il buon Mike Manley?
Da una parte, procedere con lo scorporo della Magneti Marelli (come avvenuto per Ferrari, anche rispetto la modalità di conferimento totale o quasi delle azioni agli azionisti Fca, con solito dominio di Exor) per pompare il suo sviluppo come punta di lancia nell’ibrido e nell’elettrico per tutto il gruppo Fca: dall’altra, decidere se spingere per un ridimensionamento, questa volta sì, importante e rapido dell’apparato industriale Fca in Italia, prevedendo di insistere di più sugli stabilimenti italiani per eliminare quello che sempre più sarà un peso morto, cioè la produzione di motori termici e di linee ad essi collegate, che poi sono le (poche) linee di automobili rimaste in Italia, in buona sostanza. Oppure prevedere soluzioni intermedie, con un tasso di chiusure/delocalizzazioni minore centrato su un ennesimo ciclo di favori fiscali da parte dello Stato italiano e su un regime di sfruttamento selvaggio non identico ma peggiore rispetto a quello presente, cosa possibilissima senza una nuova ondata di resistenza e lotta operaia nel gruppo.
E qui, in conclusione, veniamo a noi: l’eredità di Sergio Marchionne lasciata a questa vivissima Fca che pianifica la sua strategia, e dunque le sue prossime mosse contro i suoi propri operai, politicamente è quella di uno sfondamento in grande stile della tradizione sindacale, politica e in generale di lotta del gruppo, con il “ritorno all’ordine” della Fiom dopo la sconfitta, non più di tanto evitata, al referendum che sancì l’entrata in vigore del nuovo contratto aziendale post-Confindustria; con l’espulsione, dopo una controversia legale lunga ed estenuante, di Mimmo Mignano e degli altri 4 operai combattivi “storici” di Pomigliano; con l’instaurazione di un regime di fabbrica 4.0 che recepisce lo stato dell’arte dell’organizzazione del lavoro e dell’irreggimentazione più rigida degli operai, che respirano un’aria da carcere.
Alla probabile ondata di tentativi di peggioramento del regime di fabbrica, di estensione di cassa integrazione e altre misure fatte a detrimento degli operai e della fiscalità generale, di licenziamenti/ristrutturazioni/delocalizzazione, bisogna arrivare iniziando a preparare da subito un piano, una strategia da contrapporre a quella degli azionisti Fca e di Manley. Mai come in questo caso, nell’arco di tre anni può aprirsi una partita fondamentale della lotta di classe in Italia, in uno scenario di mancata lotta generalizzata e di passività sindacale diffusa, di straziante debolezza, quasi inesistenza politica del movimento operaio in quanto tale.
Questa partita sarà sicuramente persa se gli operai del gruppo Fca e del suo indotto, i militanti sindacali, politici, di movimento della sinistra operaia e degli strati oppressi non la giocheranno. Se invece accetteranno di giocarla sino in fondo, con gli strumenti che la lotta richiede, potranno avanzare verso vittorie e risultati concreti, fossero anche solo in termini di organizzazione, di accumulo di esperienza di lotta e di coscienza politica in rottura con la dittatura dei capitalisti e col loro tallone di ferro nelle fabbriche.