Presentiamo oggi ai nostri lettori un pregevole articolo di Kevin Murphy sull’ascesa dello stalinismo all’indomani della Rivoluzione russa del 1917. Il testo esamina le condizioni che favorirono l’affermarsi di un feroce e brutale sistema repressivo che nulla aveva a che vedere con gli ideali dell’Ottobre. In più, ricostruisce il processo della collettivizzazione forzata nelle campagne alla luce di una diversa e feconda analisi del ruolo dei “kulaki”.
Buona lettura.
La redazione
Le origini e il significato dello stalinismo
Kevin Murphy [*]
Quando il secondo congresso dei Soviet fu convocato, il 25 ottobre 1917, 505 dei 670 delegati parteciparono con l’impegno di trasferire “tutto il potere ai soviet”[1]. Rappresentavano circa 402 soviet locali di lavoratori e soldati, che, comprese le famiglie, significavano decine di milioni di persone. Vent’anni dopo, il regime stalinista aveva già incarcerato alcuni milioni di prigionieri politici: Stalin fu personalmente responsabile dell’ordine – basato su quote determinate a priori – di arrestarne alcune centinaia di migliaia. Tra il 1937 e il 1938, il regime aveva giustiziato circa 680.000 persone. Intellettuali anticomunisti, peraltro, hanno fatto la loro carriera accademica cercando di stabilire una continuità tra il 1917 e il 1937, cioè legando all’esistenza della rivoluzione il sistema repressivo stalinista come suo inevitabile risultato. I socialisti hanno sempre respinto quest’affermazione, ma è necessario spiegare la tragedia della Rivoluzione russa e come fu possibile la nascita del regime stalinista.
Con l’apertura degli archivi, non abbiamo più bisogno di speculare sulla portata e la brutalità del regime stalinista. Sono stati conservati verbali dettagliati di arresti, della repressione e delle iniziative popolari contro queste politiche. Vorrei riassumere alcuni degli eventi cruciali e i punti di svolta nello sviluppo dello stalinismo alla luce delle ricerche che si sono valse di questi documenti. Mi piacerebbe inoltre, e fatte le debite proporzioni, riesaminare criticamente le controversie teoriche sulla natura del regime stalinista.
Per cominciare, ricordo che, a causa dell’arretratezza economica della Russia, la strategia bolscevica della rivoluzione era basata sull’aspettativa di una rivolta europea. Nel soviet di Pietrogrado, il 25 ottobre 1917, Lenin sosteneva: «Saremo aiutati dal movimento operaio mondiale che sta cominciando a svilupparsi in Italia, Gran Bretagna e Germania»[2]. Questo punto di vista era condiviso da tutti i bolscevichi e fu ripetuto centinaia di volte, anche da Stalin nel suo Fondamenti del leninismo (1924): «Possiamo vincere e assicurare la vittoria definitiva del socialismo in un solo Paese senza gli sforzi congiunti dei proletari di diversi Paesi avanzati? Certamente no». Sette mesi più tardi, questo argomento sarebbe stato rivisto: «Formalmente, la vittoria della rivoluzione in un Paese solo era considerata impossibile. Ora questo punto di vista non si adatta più ai fatti»[3].
Il pronostico della Rivoluzione russa come l’anello di una catena di rivolte europee non si realizzò. Per un certo periodo, nel 1918, consigli operai sorsero in tutta la cosiddetta Europa centrale. Non è questo il luogo per discutere di queste rivolte, ma per un approccio internazionale della tragedia della Rivoluzione russa è fondamentale ricordare la rivoluzione tedesca del 1918, le occupazioni delle fabbriche in Italia nel 1920, e così via.
Va anche ricordato che i bolscevichi avevano ereditato una catastrofe economica di enormi proporzioni. La triste realtà fu che, invece di un aiuto alla rivoluzione russa da parte dei lavoratori europei, fu la controrivoluzione ad essere sostenuta dalle classi dominanti europee, sia attraverso un intervento militare diretto che grazie ad aiuti agli eserciti bianchi. Sarebbe più giusto definire la devastazione del 1918 e del 1920 non guerra civile, bensì guerra imperialista, poiché senza il sostegno straniero le deboli forze bianche non sarebbero state in grado di costruire un esercito. Quando le forze bianche antisovietiche si avvicinarono a Rostov, nella primavera del 1918, erano essenzialmente un corpo militare professionale ma non un esercito: due terzi dei 3.685 uomini erano ufficiali, di cui 36 generali e 200 colonnelli[4]. Alla fine dell’estate del 1918, oltre 150.000 soldati stranieri si trovavano in Russia offrendo un supporto cruciale alle posizioni bianche su tutto il fronte settentrionale, l’Ucraina e il Caucaso. Le navi container degli alleati rifornivano i bianchi di centinaia di migliaia di fucili, mille pezzi di artiglieria con milioni di colpi di mortaio, settemila mitragliatrici, duecento aeroplani e un centinaio di carri armati. Gran parte di questo sostegno iniziale venne dalla Gran Bretagna e dalla Francia, ma il Segretario di Stato americano Robert Lansing aveva convinto Woodrow Wilson a finanziare segretamente gli eserciti bianchi con decine di milioni di dollari, nel tentativo di insediare un “governo russo stabile” attraverso una “dittatura militare”[5].
Con il deterioramento delle condizioni di vita e degli approvvigionamenti, i lavoratori di Mosca, Pietrogrado e altri centri si trasferirono nelle campagne in cerca di cibo. Ho documentato, in una mia ricerca, l’impatto della guerra civile tra i lavoratori della fabbrica Falce e Martello di Mosca. Degli oltre 3.000 operai nel 1917, solo 772 erano impiegati a metà giugno 1920 e, a causa della mancanza di combustibile, la fabbrica produsse solo il 2% del metallo realizzato prima della guerra. La produzione industriale in Unione Sovietica alla fine della guerra civile fu di circa un quinto rispetto a prima della guerra[6]. La classe operaia industriale era stata a tal punto devastata – sia numericamente che politicamente – che Lenin arrivò a dichiarare che il proletariato aveva «cessato di esistere in quanto tale»[7]. Per i marxisti dell’epoca, ciò rappresentava a dir poco un dilemma teorico.
In quanto materialisti, i marxisti devono riconoscere che questa catastrofe sociale, economica e politica durata sette anni di guerra e di guerra civile ha reso molto fragili le possibilità di costruire il socialismo. Morirono circa tre milioni di soldati, e, prematuramente, tredici milioni di civili, la maggior parte dei quali durante la carestia e le epidemie di influenza tra il 1921 e il 1923[8].
Politicamente, gli imperativi della guerra civile e la rottura degli altri socialisti con il potere sovietico significò per i bolscevichi, anziché un sistema sovietico pluralistico, dover sostituire alla democrazia del soviet degli operai e dei soldati, il loro stesso dominio. Nel gennaio del 1921, Lenin dichiarò: «Dobbiamo avere il coraggio di affrontare l’amara verità. Il partito è malato», e definì lo Stato che era sopravvissuto alla guerra civile «uno Stato operaio con deformazioni burocratiche»[9].
La portata di questa distorsione burocratica era enorme. Alla fine della guerra civile, lo Stato occupava quasi sei milioni di impiegati, cinque volte il numero di lavoratori dell’industria dell’epoca[10]. Fu grazie a questa burocrazia che Stalin costruì la propria personale dittatura. Il Partito comunista aveva circa 400.000 funzionari, e molti storici oggi concordano sul fatto che a partire dal 1922, come Segretario generale del Comitato centrale, Stalin utilizzò la sua posizione amministrativa a proprio vantaggio. Con uno staff personale di oltre 600 membri nella segreteria del partito, Stalin fu in grado di costruire una fedele rete di controllo all’interno dell’apparato del partito, indicando a tutti i livelli funzionari fidati, eliminando i dissidenti e usando la polizia segreta (Gpu) contro gli avversari politici[11].
Per intendere lo stalinismo è necessaria una comprensione teorica delle aspirazioni che la burocrazia rappresentava. Dai diversi libri che Trotsky scrisse sullo stalinismo e la burocrazia, si può dedurre che egli cambiò posizione molte volte, la sua analisi era dinamica ma a volte contraddittoria. Alcuni dei suoi argomenti sono molto più utili di altri e alcuni si basano su evidenti errori fattuali.
Nel 1930, Trotsky giunse a una conclusione molto utile riguardo allo stalinismo e alla burocrazia: «Stalin non ha creato l’apparato. È stato l’apparato a creare lui»[12]. Questa nozione di stalinismo come rappresentazione delle aspirazioni della burocrazia è piuttosto utile, poiché lo stalinismo aveva una base sociale. Lenin stesso, nel marzo del 1922, percepì la relativa autonomia dello Stato:
«Lo Stato è nelle nostre mani, ma ha forse funzionato a modo nostro, nelle condizioni della nuova politica economica? No … La macchina sfugge dalle mani di chi la guida; si direbbe che qualcuno si sia seduto al volante e guidi questa macchina, che però non va nella direzione voluta, quasi fosse guidato da una mano segreta, illegale, Dio solo sa da chi, forse da uno speculatore o da un capitalista privato o da tutti e due insieme. Il fatto è che la macchina va non nella direzione immaginata da chi siede al volante, anzi talvolta va nella direzione opposta»[13].
Nel 1928, Trotsky cominciò a definire la burocrazia sovietica come un regime bonapartista. In Stato e rivoluzione, Lenin aveva sintetizzato il ruolo dello Stato come uno strumento di sfruttamento della classe oppressa, pur avendo anche citato Engels sulla “eccezione” in «periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché uguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe». Così è stato nel caso del bonapartismo del Primo e del Secondo Impero in Francia, di Bismarck in Germania e, aggiungeva Lenin, di Kerensky nel 1917. Già nel 1928, Trotsky iniziò a descrivere il regime stalinista all’interno di questo quadro teorico, come “kerenskismo al contrario”. Questo modello riassume gran parte del suo pensiero sullo stalinismo, poiché Trotsky si è riferito al bonapartismo sovietico in circa un centinaio di articoli e interviste nei successivi dodici anni. E più tardi avrebbe argomentato che alla fine del 1924 aveva trionfato il Termidoro, cioè che da quel momento in poi il dominio stalinista sul partito era diventato definitivo[14].
Come Moshe Lewin ha dimostrato, benché malato Lenin avrebbe potuto resistere alla politica e all’uso dell’apparato da parte di Stalin[15]. È noto, inoltre, che i delegati bolscevichi del X Congresso del partito, nel marzo 1921, erano stati democraticamente eletti sulla base dell’adesione a una delle tre contrapposte piattaforme, i cui programmi erano stati pubblicati sulla Pravda, e che due frazioni minoritarie avevano presentato le proprie tesi esponendole ampiamente[16]. Nondimeno, l’indicazione di Stalin come segretario generale da parte di Lenin e la linea approvata dal congresso di vietare le frazioni certamente contribuì al rafforzamento delle tendenze burocratiche nell’apparato.
In che modo i marxisti devono valutare i primordi del regime sovietico e le sue “distorsioni burocratiche”, per usare le parole di Lenin? Sebbene la caratterizzazione di Lenin sia accurata, essa appare insufficiente per descrivere il sistema, spesso contraddittorio e in evoluzione, degli anni 20. Suggerirei di utilizzare il modello bonapartista di Trotsky nell’analisi dell’avvento dello stalinismo, ma con un’importante critica. Il modello bonapartista descrive l’autonomia relativa dello Stato che oscilla tra le classi in conflitto acuto. Trotsky ha sostenuto che lo Stato oscillava tra gli interessi della classe operaia, il che è parzialmente vero, e la pressione dei “kulaki”, i contadini ricchi, la qual cosa non è corretta. Nei suoi ultimi scritti, Trotsky abbandonò i riferimenti ai kulaki e cominciò ad enfatizzare lo Stato in sé come una classe in combattimento[17].
Per quanto questa affermazione sia stata fatta in ritardo, offre un modello per guardare alle differenti pressioni sociali e alla base di sostegno a Stalin durante la Nep (la Nuova Politica Economica nel periodo tra il 1921 e il 1928). In effetti, un modello bonapartista riveduto fornisce un quadro teorico per la comprensione dello sviluppo dello stalinismo e delle tendenze in lotta fra loro all’interno dell’apparato durante la maggior parte degli anni 20. Però, debbo sottolineare come Trotsky si sia sbagliato sulle classi contendenti, dato che la burocrazia stessa era una delle classi contendenti, piuttosto che i “kulaki”.
Il principio stalinista del 1924, “il socialismo in un paese solo”, era un appello alla stabilità all’interno dell’apparato. Mentre Stalin andava costruendo la sua fedele macchina all’interno dell’apparato, era anche un sostenitore della Nep e delle politiche sindacali introdotte da Lenin. Politiche che in seguito sarebbero entrate in collisione con gli interessi dello Stato. Nonostante la catastrofe economica della guerra civile, lo Stato sovietico aveva avviato una serie di politiche durante la Nep che erano espressamente a favore dei lavoratori e molto lontane dalle relazioni industriali capitaliste. Al X congresso del partito nel marzo del 1921, la posizione sindacale di Lenin enfatizzò la persuasione a scapito della coercizione. Il Codice del Lavoro del novembre 1922 stabiliva che i salari sarebbero stati negoziati attraverso accordi collettivi di contrattazione tra le amministrazioni delle industrie e i sindacati, in cui i lavoratori avrebbero avuto voce in capitolo e il diritto di ratificare i contratti. Le Commissioni di Arbitrato delle Vertenze (Rkk), composte da amministratori e lavoratori, si sarebbero occupate di vertenze non contrattuali; la giornata lavorativa sarebbe stata limitata a 8 ore (6 ore per i giovani); lo straordinario sarebbe stato compensato in misura pari al 150% dell’orario normale; le donne avrebbero ricevuto un congedo di maternità retribuito equivalente a sedici settimane[18].
Lo storico E.H. Carr ha definito questo periodo come un “difficile compromesso”, il che appare un’idea utile se associata al modello bonapartista per descrivere un contesto di “tregua” temporanea di classe. Centrale in questo impegno era la garanzia da parte dello Stato del regolare aumento delle retribuzioni dei lavoratori in modo che nel 1926 questi diventassero salari reali, approssimativamente pari a quelli del 1914, prima della guerra, quando la giornata lavorativa era ancora di otto ore, e non di dieci[19]. Gli scioperi nel periodo della Nep vennero risolti con la persuasione e l’arbitrato piuttosto che con la repressione. Regolari rapporti mensili inviati a Stalin tra il 1922 e il 1928 indicavano che soltanto in cinque situazioni i lavoratori erano stati arrestati durante gli scioperi e che il 45% di tutti gli scioperi era stato risolto con la concessione ai lavoratori di alcune delle loro richieste[20]. Evidenze di questi rapporti confutano la tesi della reiterata repressione così largamente ripresa dalla storiografia sovietica del lavoro.
Nella fabbrica Falce e Martello, il sindacato dei metalmeccanici e lo Zhenotdel – l’organizzazione delle donne – avevano a cuore i problemi dei lavoratori all’inizio della Nep, ma molto meno a partire dal 1928. Il sindacato dei metalmeccanici si scontrò sistematicamente contro l’amministrazione su assunzioni, orario di lavoro, categorie salariali e problematiche varie dello stabilimento, al punto che, nel 1925, la fabbrica rivendicò che fossero i rappresentanti sindacali – e non già gli amministratori – a detenere il reale controllo nelle officine[21].
I sindacati potevano anche devolvere le vertenze ad un “arbitrato”. L’arbitrato era utile solo se gli operai ritenevano che ci sarebbe stata una ragionevole possibilità di vittoria. Nel 1924, la Commissione di Arbitrato delle Vertenze nella fabbrica Falce e Martello gestì casi che coinvolgevano più di 13.000 lavoratori (tre volte le dimensioni della forza lavoro in fabbrica) e il 65% delle controversie si risolse a favore dei lavoratori[22]. Queste procedure arbitrali di vertenze sul lavoro si svolsero allo stesso modo in tutta l’Unione Sovietica. Negli ultimi tre anni della Nep più di 8.000 casi, che coinvolgevano sette milioni di lavoratori, furono risolti attraverso l’arbitrato[23].
Le riunioni quindicinali delle donne costituivano lo spazio in cui le donne della fabbrica Falce e Martello potevano discutere su salari, assistenza all’infanzia, benefici per la salute, amministratori violenti. Potevano anche chiedere il sostegno sia del partito che del sindacato dei metalmeccanici e attendersi una risposta positiva. La partecipazione volontaria di oltre la metà delle lavoratrici a questi incontri illustra bene il modo in cui esse apprezzavano quello spazio. Dal 1927, tuttavia, quando il partito cominciò a dare la priorità alla produttività rispetto a tutte le altre questioni, le donne persero interesse e semplicemente smisero di partecipare a questi incontri[24].
Nel suo eccellente studio, The Birth of Stalinism (La nascita dello stalinismo), lo storico ceco Michael Reiman fornisce un fondamentale argomento sulle origini del sistema stalinista. Mentre Stalin aveva il controllo dell’apparato statale nei primi anni 20, le sue successive politiche sociali repressive furono una reazione alla profonda crisi sociale che segnò la fase finale della Nep. Molti fattori combinati contribuirono a questa crisi. Innanzitutto, il raccolto del 1927 fu così scarso che, all’inizio del 1928, fu introdotto il razionamento del cibo. Il raccolto del 1928 fu ancora peggiore. Alla crisi nelle campagne si aggiunse una crisi nel settore industriale. Se da un lato l’economia sovietica era tornata dal 1927 ai livelli prebellici, i macchinari cominciarono a guastarsi e non c’erano più fondi per un’ulteriore espansione industriale. Iperinflazione, mancanza di cibo e la crescente disoccupazione portarono a diffusi processi di disordini urbani. Reiman ha dimostrato che lo stalinismo, più che un piano ben congegnato, fu una risposta “estrema” dello Stato a questa crisi. Ciò comportava la requisizione forzata del grano dei contadini, preludio alla collettivizzazione forzata che sarebbe seguita[25].
Questa crisi della Nep nella sua fase finale è importante per comprendere le politiche sociali dello stalinismo. Mentre è chiaro fin dall’inizio che Stalin aspirava ad essere un dittatore, non è stato trovato nulla negli archivi del Politburo o nei verbali delle riunioni del comitato centrale che fornisse la prova che lo stalinismo era stato progettato o concepito come sistema sociale prima del 1928. Le politiche draconiane dello stalinismo furono una risposta a questa profonda crisi sociale.
La fabbrica Falce e Martello, nel 1928, illustra la risposta a questa crisi. Gli operai erano molto più critici verso l’organizzazione del partito, il sindacato dei metalmeccanici, i comitati di fabbrica e la sezione femminile. Un quadro dirigente femminile di lungo corso del comitato di fabbrica domandò: «Ma il partito è un istituto correzionale? Perché si accettano tutti i tipi della peggiore specie e vengono confermati quelli che commettono azioni riprovevoli?». Un’altra dichiarò: «Io non entrerò nel partito perché i comunisti sono disonesti e ladri». Quando un membro del Comitato Centrale, Mikoyan, parlò in fabbrica, ricevette una lunga lista di domande e dichiarazioni ostili, tra cui una secondo cui «L’amministratore è un saccheggiatore», e un’altra con cui veniva così rimproverato: «Compagno oratore, in ogni riunione tutti noi ci sentiamo dire da te che in questa città ci sono kulaki … se esaminerai gli abitanti e poi le loro proprietà, i dati ti dimostreranno chi è un kulak sulla base delle proprietà»[26].
La regressione del sindacato dei metalmeccanici fece sì che gli operai fossero più critici nei suoi confronti. «Il comitato di fabbrica ha perso … la sua autorità» a causa dei bassi salari. «Il prezzo dei generi alimentari aumenta e i salari no, vivere è diventato difficile per i lavoratori». Un altro operaio affermò che «i membri del comitato di fabbrica si schierano con la direzione e hanno timore di difendere con fermezza gli interessi dei lavoratori». Gli operai criticavano anche la commissione per le vertenze, poiché la maggior parte dei conflitti erano stati decisi a favore dell’amministrazione. A febbraio, le donne dell’officina di produzione dei bulloni organizzarono uno sciopero e misero sotto accusa il comitato di fabbrica e l’amministrazione per l’atteggiamento di chiusura che li portava ad ignorare le loro richieste. In occasione della Giornata internazionale della donna nel 1928, un gruppo di donne fece irruzione durante le celebrazioni e, «urlando come delle ossesse», interruppe il discorso degli oratori maschi, per poi essere allontanato con la forza[27].
Significativamente, l’Opposizione unificata intercettò la rabbia di molti lavoratori nel 1928, anche più di un anno prima, quando fu espulsa. Un rapporto inviato a Trotsky nell’ottobre del 1928 mostra che i trotskisti erano molto attivi in parecchie città ucraine, tra cui Kharkov, Kiev, Ekaterinoslav, Odessa e nella regione mineraria del Donbass, dove un anno prima non avevano alcun supporto. A Krasnoiarsk avevano membri nelle tre più grandi fabbriche. A Ekaterinoslav l’Opposizione di sinistra aumentò da 100 a 220 militanti, di cui il 99% era costituito da operai. I trotskisti fecero progressi anche nella cintura industriale della Russia centrale, tra cui Mosca, Leningrado, Tula, Ivanovo e Saratov, e nel Caucaso a Tbilisi e Baku[28].
Il primo piano quinquennale, avviato retroattivamente nell’ultimo trimestre del 1928, rappresentò un punto di svolta nella storia sovietica. I complessi dibattiti economici durante la Nep si concentrarono sull’accumulazione di sufficiente capitale a partire dall’aumento delle tasse per i contadini che apparivano più ricchi. La brutale collettivizzazione e industrializzazione di Stalin non fu nient’altro che un’offensiva a tutto campo sia contro la classe operaia che contro i contadini, affinché entrambi pagassero per l’industrializzazione.
La collettivizzazione spinse milioni di ex contadini a trasferirsi nelle città. Lo storico dell’economia Alec Nove osserva che l’offensiva stalinista contro la classe operaia e i contadini portò «al più pesante abbassamento del tenore di vita che si conosca nella storia documentata in tempo di pace», una regressione che comportò «la fame e la miseria di massa»[29]. Nelle fabbriche, i sindacati vennero trasformati in organi di produttività dello Stato, le ore di lavoro furono estese a 60 alla settimana, il dissenso aperto messo a tacere. La polizia politica, l’Ogpu, così registrava i sentimenti dei lavoratori di Mosca:
«I nostri politici dilettanti hanno portato il Paese alla miseria estrema».
«Dicono che la situazione materiale dei lavoratori stia migliorando. Sì, migliorata con pane secco e acqua, a volte verze. Siete tutti parassiti, parassiti peggiori dei burocrati e degli arrivisti zaristi. Questo è lo Stato che avete dato ai lavoratori. Siamo affamati, e non possiamo lavorare fino a quando non ci darete pane, carne, case e vestiti».
«Preferivo la guerra perché sono stanco di questo regime. Non c’è carne; non c’è pane; non c’è niente. Facciamo la fila per tutto. È un peccato che io non abbia più nulla nel mio villaggio, perché me ne sarei andato e sarei tornato lì».
«Geni, che si fottano. Tutto quello che sanno fare è mendicare e chiedere soldi».
«Fanculo a tutti. Che tipo di potere sovietico è questo se mia moglie deve fare sei ore di fila per un pezzo di pane?».
«Spero che vi porti via il diavolo. Tutto ciò che dite è una bugia. Una volta al mese ci date patate marce e nemmeno un po’ di zuppa per le famiglie. Potessimo vivere almeno un giorno come prima: tutto ciò di cui avevamo bisogno era disponibile. L’unica cosa che sanno fare oggi è rubare ai contadini, distruggere le chiese e gettare persone in prigioni. Bastardi, banditi».[30]
Questi pochi esempi della fabbrica Falce e Martello e degli operai delle fabbriche vicine si ripetono in migliaia di rapporti redatti dalla Gpu per Stalin, il quale era consapevole della miseria e del malcontento nelle campagne e nelle fabbriche[31]. Nondimeno, pochi casi di resistenza organizzata vennero registrati nelle fabbriche.
L’unica eccezione si verificò nel centro dell’industria tessile nella regione di Ivanovo, come dimostra lo studio di Jeffrey Rossman, Worker Resistance to Stalinism (Resistenza operaia allo stalinismo). Ivanovo è stata il teatro di alcuni dei più grandi scioperi durante il primo piano quinquennale, e la rivolta di Virchuga nell’aprile del 1932 può essere definita un’insurrezione locale. Circa 15.000 lavoratori tessili si sollevarono contro la fame causata del razionamento e organizzarono un comitato di sciopero, scontrandosi con la polizia con pietre e bastoni. Gli operai di Virchuga attaccarono i palazzi del potere, compresi gli uffici sia del partito che della polizia politica, malmenando e minacciando di morte i funzionari statali. I ribelli occuparono il centro cittadino, con i dirigenti dello sciopero che dichiaravano: «Non abbiamo distrutto il soviet, ma l’Ogpu (la polizia politica), la polizia civile e il comitato distrettuale del partito»[32].
In un telegramma a Kalinin, membro del Comitato centrale, un dirigente locale del partito riferiva: «In seguito alla riduzione delle razioni alimentari, una massa di 15.000 operai ha lasciato le fabbriche e ha cessato il lavoro cinque giorni fa. Gli scontri fra i lavoratori e la polizia e gli organi dell’Ogpu sono stati sanguinosi … Gli operai vogliono che tre rappresentanti del Comitato Esecutivo dei Soviet vengano immediatamente sul posto per risolvere il conflitto». Ci sono riscontri del fatto che contadini armati di asce e zappe si siano sollevati in segno di solidarietà, attaccando il soviet del villaggio per «dare loro una lezione». È significativa la circostanza che il membro del Comitato centrale, Kaganovich, personaggio particolarmente spietato, abbia risposto non già con la repressione, ma concedendo ai lavoratori un aumento delle razioni alimentari[33].
E dunque, come considerare la differenza tra la latente avversione dei lavoratori verso le politiche staliniste nella maggior parte dell’Unione Sovietica e invece il comportamento degli operai di Ivanovo, che decisero di passare all’azione militante? Rossman sottolinea che le dure condizioni dei lavoratori tessili schiacciarono questi ultimi molto più che in altre industrie. Inoltre, la più alta percentuale di donne nelle officine portò a un maggior numero di scioperi – dal momento che le donne erano maggiormente gravate dalla carenza di cibo e dai carichi di lavoro, e poiché «erano più libere, rispetto agli uomini, di impegnarsi in atti di protesta» senza essere licenziate o arrestate – il che era vero anche per le rivolte contadine[34]. A ciò può essere aggiunto un terzo fattore: gli operai di Ivanovo erano i lavoratori più militanti durante la Nep, il patto sociale non aveva mai preso piede. Questa tradizione di militanza, così come le reti dell’opposizione, continuò durante la Nep e giocò un ruolo importante nelle azioni di sciopero durante il primo Piano quinquennale.
La resistenza allo stalinismo fu molto più diffusa nelle zone rurali, dove le contadine guidavano la rivolta contro la collettivizzazione forzata. Il lavoro di Lynne Viola, Peasant Rebels Under Stalin (Contadini ribelli sotto Stalin), documenta il livello di ribellione nelle campagne. I rapporti della polizia politica ufficiale (Ogpu) registrano 13.754 rivolte contadine che coinvolgevano due milioni e mezzo di contadini, molte delle quali interessavano interi villaggi, e non erano rivolte dei kulaki. Centosettantasei episodi ebbero carattere di massa, con la partecipazione di migliaia di contadini nel saccheggio del soviet locale. Quasi la metà delle ribellioni, 6.528, ebbe luogo nel marzo del 1930, al culmine della collettivizzazione[35].
L’Ogpu riferì che 3.700 dei disordini di massa avevano coinvolto quasi esclusivamente donne, e negli altri episodi le donne costituivano la maggioranza o parte significativa della rivolta. La polizia politica si lamentava del fatto che «l’eccessiva indulgenza delle istituzioni punitive nei confronti delle donne ha contribuito a diffondere l’opinione che le donne non vadano sanzionate». In una delle rivolte, l’Ogpu riferì che una donna avrebbe detto «non abbiamo paura di nessuno, siamo già andate all’Ogpu e non hanno fatto nulla né lo faranno». In un’altra occasione, le donne proibirono agli uomini di partecipare affermando «questa è una questione di noi contadine, non è affar vostro»[36].
L’argomentazione secondo cui la collettivizzazione fu uno scontro fra lo Stato dei soviet e i contadini ricchi, i “kulaki”, è ora completamente confutata. Il libro di Moshe Lewin sulla collettivizzazione ha dimostrato che “kulaki” era uno slogan propagandistico piuttosto che un termine economico, spesso usato per definire i contadini medi e anche quelli poveri, che significava collettivizzazione intesa come utilizzo di mezzi violenti «contro interi settori di larghe masse contadine». Come sosteneva un dirigente della Federazione socialista russa, «se non abbiamo kulaki, avremo bisogno di procurarcene designandoli»[37]. Uno studio dei rapporti della polizia segreta di Stalin mostra che nel 1924 questa ancora simpatizzava con la situazione dei contadini, ma rapporti via via più ostili dimostrano che la polizia segreta aveva perso fiducia nella propria stessa propaganda, che il termine “kulaki” era diventata sinonimo di “contadini”[38]. Riunioni nei villaggi spesso individuavano vedove, anziani e anche individui a casaccio per soddisfare la quota del 5% di “dekulakizzazione” della polizia segreta[39].
Anche le statistiche sovietiche, che cercavano di trasformare la resistenza alla collettivizzazione nel capro espiatorio dei “kulaki”, riconobbero che la maggior parte dei contadini coinvolti nei tumulti nel 1930 apparteneva al settore medio o povero degli agricoltori[40]. Solo nel 1931, 1.800.392 persone furono esiliate come “kulaki”[41]. Tanto grandi sono i numeri che i testi ufficiali della storia dell’Unione Sovietica parlano oggi della collettivizzazione come di una “guerra contro i contadini” da parte di Stalin. Il bilancio totale dei morti di questa guerra, compresa la collettivizzazione, la dekulakizzazione, la fame e i decessi di contadini mentre venivano deportati o durante la prigionia nel gulag, supera ampiamente i sei milioni, compresa anche la metà dei 700.000 prigionieri politici giustiziati tra il 1937 e il 1938[42].
Dobbiamo riconoscere che l’analisi di Trotsky sulla collettivizzazione e sui kulaki era gravemente carente. Nell’aprile del 1929, Trotsky era molto esplicito sul ruolo dei kulaki nella sua analisi: «Il problema del Termidoro e del bonapartismo è in ultima analisi il problema dei kulaki»[43]. Trotsky avrebbe usato il termine “kulaki” centinaia di volte nei primi anni 1930. Un altro problema sta anche nel fatto che Trotsky abbia accettato la caratterizzazione stalinista della collettivizzazione come fenomeno volontario. Nel febbraio del 1930, sostenne:
«Le porte del mercato erano chiuse. I contadini rimasero terrorizzati dinanzi ad esse per un po‘, e poi si precipitarono attraverso l’unica porta aperta, quella della collettivizzazione. La stessa direzione non si mostrò meno sorpresa dall’improvvisa corsa dei contadini verso i Kolchoz quanto questi lo furono dalla liquidazione della Nep»[44].
Inoltre, Trotsky continuò a caratterizzare le spietate politiche antioperaie come una svolta a “sinistra”: «Il periodo tra il 1928 e il 1931 – se lasciamo da parte le vacillazioni e le battute d’arresto – rappresenta un tentativo da parte della burocrazia di adattarsi al proletariato»[45]. Come lo storico russo Alexey Gusev ha dimostrato, perfino dopo la loro espulsione i trotskisti in Russia caratterizzavano se stessi come leale opposizione a Stalin, sostenevano gli scioperi economici, ma si opponevano categoricamente a scioperi politici che avessero potuto minacciare il regime[46]. Nonostante l’ampio sostegno della classe operaia, l’opposizione trotskista legò le proprie stesse mani a causa di analisi sbagliate in base alle quali lo stalinismo era visto come una posizione centrista. Peggio ancora, essi si dislocarono nel campo dello Stato durante la brutale guerra di Stalin contro i contadini sovietici.
Possiamo oggi valutare la portata della repressione stalinista attraverso i dati registrati dalla polizia politica. Nel 1926, il numero totale dei prigionieri nella Federazione socialista russa fu di circa 110.000, 11.000 dei quali erano prigionieri politici[47]. Il numero dei condannati e incarcerati per reati politici tra il 1922 e il 1926 fu tra i 2.000 e gli 8.000 all’anno. Questo numero aumentò a circa 13.000 nel 1928, raddoppiò l’anno seguente, per arrivare a 114.000 nel 1930[48]. Tra il 1934 e il 1940, 3.750.000 persone furono inviate ai campi di prigionia. Negli anni di forte repressione del 1937‑1938, 1.600.000 persone vennero condannate e quasi la metà, 680.000, giustiziate[49].
Questi numeri non rendono appieno ciò che realmente fu lo stalinismo. Il destino di Isaac Rubin, un economista menscevico e autore di A History of Economic Thought (Una storia del pensiero economico) illustra la brutalità del sistema. Nel gennaio del 1931, Rubin fu messo di fronte a un prigioniero e gli fu detto che, se non avesse confessato di essere un membro di un’organizzazione menscevica controrivoluzionaria, quel prigioniero sarebbe stato ucciso. Rubin rifiutò e il prigioniero fu giustiziato davanti ai suoi occhi. La cosa fu ripetuta la notte seguente. Dopo il secondo omicidio, Rubin negoziò una “confessione” con i suoi inquisitori, che insisterono affinché egli ammettesse che anche il suo maestro, David Riazanov, era membro di una cospirazione menscevica segreta. Rubin fu completamente distrutto come persona e infine giustiziato nel 1937[50]. Simili brutali violenze possono essere riscontrate ai danni di tutte le antiche tendenze di opposizione esistenti fuori e dentro il partito comunista, compresa l’esecuzione di tutti gli appartenenti all’opposizione trotskista nel gulag di Vorkuta nel 1937[51].
L’infame ordine 00447 del Politburo dell’agosto del 1937 riguardava «vecchi kulaki, criminali e altri elementi antisovietici». Ciò che colpisce di quest’ordine è l’avere stabilito in anticipo una quota di più di 250.000 persone da arrestare, di cui 73.000 avrebbero dovuto essere fucilati[52]. Per fare un esempio, Stalin inviò Lazar Kaganovich a Ivanovo. In tre giorni, in quella che divenne nota come “tempesta nera”, Kaganovic accusò tutti i membri della direzione del partito locale di essere “nemici del popolo” e diede l’ordine di esecuzione di 1.500 persone[53]. Solo alla fine del 1938 Stalin “spense” la macchina delle esecuzioni.
Qual era la logica di questa follia? Nel 1930 Stalin certamente era impegnato in una rapida industrializzazione e apparentemente credeva che i problemi strutturali davvero fossero causati da persone che non si impegnavano nel progetto e ne bloccavano l’attuazione. Alla fine del 1938, apparve chiaro che la sua strategia complessiva sulla repressione era controproducente per il raggiungimento degli obiettivi. Ma dobbiamo chiarire la natura del terrore di massa: non c’era nessuna trama controrivoluzionaria, né spie o agenti stranieri. Si trattava di una manovra incentrata sullo Stato e orchestrata dall’alto con conseguenze brutali.
Qual era dunque la motivazione per una rapida industrializzazione, per far sì che sia gli operai che i contadini ne pagassero le conseguenze? Il discorso di Stalin agli amministratori industriali nel febbraio del 1931 offre un’ipotesi:
«A volte mi chiedono se non sia possibile rallentare in qualche modo il tempo, per controllare la manovra … Diminuire il tempo significherebbe rimanere indietro. E chi rimane indietro viene sconfitto. Ma noi non vogliamo essere sconfitti. No, noi rifiutiamo la sconfitta! Una caratteristica della storia della vecchia Russia sta nelle continue sconfitte che essa ha subito a causa del suo ritardo. Fu sconfitta dai Khan mongoli. Fu sconfitta dai governatori turchi. Fu sconfitta dai signori feudali svedesi … Tutti l’hanno sconfitta a causa della sua arretratezza, arretratezza militare, arretratezza culturale, arretratezza politica, arretratezza industriale, arretratezza agricola … Siamo indietro di cinquanta o cento anni rispetto ai Paesi avanzati. Dobbiamo recuperare questa distanza nei prossimi dieci anni. O lo facciamo o saremo distrutti»[54].
Stalin stava parlando qui non come socialista ma come leader di una classe dirigente che aveva chiaramente rotto con gli ideali della Rivoluzione del 1917. L’impatto delle politiche dello Stato sulla vita delle masse lavoratrici non contava più ormai.
Per guadagnare una nuova generazione di attivisti al socialismo dobbiamo dire a chiare lettere che gli attacchi di Stalin contro gli operai e i contadini sovietici non avevano nulla a che fare con il socialismo e rappresentavano una rottura completa con le idee ugualitarie del 1917.
[*] Kevin Murphy insegna Storia Russa alla University of Massachusetts di Boston. Il suo libro Revolution and Counterrevolution: Class Struggle in a Moscow Metal Factory ha vinto nel 2005 il Deutscher Memorial Prize.
Note
[1] Alexander Rabinowitch, The Bolsheviks Come to Power (New York, 1976), 291, 304. Solo due delegati votarono contro e dodici si astennero. I menscevichi di destra e i socialisti rivoluzionari avevano già lasciato il congresso.
[2] Lenin, Collected Works (Mosca 1972), vol. 26, p. 240.
[3] Donny Gluckstein, The Tragedy of Bukharin (London, 1993), p. 120.
[4] Bruce Lincoln, Red Victory (New York 1989), p. 89.
[5] David Foglesong, America’s Secret War Against Bolshevism, 1917–1920 (Chapel Hill, 1995), pp. 87, 104.
[6] Kevin Murphy, Revolution and Counterrevolution: Class Struggle in a Moscow Metal Factory (Berghahn Books, 2005), pp. 63–67.
[7] Tony Cliff, Lenin, vol. 3, The Revolution Besieged, (London, 1975), p. 115.
[8] R.W. Davies, Soviet Economic Development from Lenin to Khrushchev (Cambridge 1998), p. 22.
[9] V.I. Lenin, Collected Works, (Moscow 1965), vol. 32, p. 43.
[10] Tony Cliff, Lenin: Revolution Besieged (London 1973), p. 158.
[11] Stephen Kotkin, Stalin (New York, 214), pp. 422‑424.
[12] Leon Trotsky, Notebooks, 1930, cit. in Kotkin, Stalin, p. 424.
[13] V.I. Lenin, Collected Works, (Moscow 1965), vol. 33, p. 279.
[14] Tom Twiss, Trotsky and the Problem of Soviet Bureaucracy (London 2104).
[15] Moshe Lewin, Lenin’s Last Struggle (London, 1975).
[16] Desiaty syzed rossiiskoi kommunisticheskoi partii. Stenograficheski otchot (Moscow, 1921).
[17] Twiss, Trotsky and the Problem of The Soviet Bureaucracy, pp. 367–439.
[18] Murphy, Revolution and Counterrevolution, p. 83.
[19] R.W. Davies, The Industrialization of the Soviet Union 3: The Soviet Economy in Turmoil, 1929 (London, 1980), pp. 10‑11.
[20] Kevin Murphy, “Strikes During the Early Soviet Period, 1922 to 1932”, in A Dream Deferred edited by Donald Filtzer, Wendy Goldman, Gijs Kessler, Simon Pirani (Bern, 2008), p. 181.
[21] Murphy, Revolution and Counterrevolution, pp. 92‑95.
[22] Murphy, Revolution and Counterrevolution, p. 93.
[23] E.H. Carr, Foundations of the Planned Economy 1926–1929 (London, 1969), vol. 1, pp. 600‑601.
[24] Murphy, Revolution and Counterrevolution, pp. 124‑125.
[25] Michael Reiman, The Birth of Stalinism (Indiana, 1986) pp. 8, 41‑43, 115‑122.
[26] Murphy, Revolution and Counterrevolution, pp. 140‑152.
[27] Murphy, Revolution and Counterrevolution, pp. 107‑108, 112, 134.
[28] Tony Cliff, Trotsky: The Darker the Night (London, 1993), p. 167.
[29] Alec Nove, An Economic History of the U.S.S.R. (New York, 1989), p. 199.
[30] Murphy, Revolution and Counterrevolution, 197, pp. 205, 207, 214–215.
[31] “Sovershenno sekretno”: Lubianka–Staliny o polozhenii v strane (1922–1934 gg.) (Moscow, 1992–2004).
[32] Jeffrey Rossman, Workers Resistance Under Stalin (Cambridge 2005), pp. 207–231.
[33] Jeffrey Rossman, Workers Resistance Under Stalin (Cambridge 2005), pp. 207–231.
[34] Rossman, Workers Resistance, pp. 231–237.
[35] Lynne Viola, Peasant Rebels Under Stalin (Oxford, 1996), pp. 142, 238.
[36] Lynne Viola, V.P. Danilov, N.A. Ivnitskii, Denis Kozlov editors, The War Against the Peasantry 1927–1930 (New Haven, 2005), pp. 349‑350.
[37] Moshe Lewin, Russian Peasants and Soviet Power: A Study of Collectivization (New York, 1975), pp. 77, 491.
[38] Hugh Hudson, “The Kulakization of the Peasantry: The OGPU and the End of Faith in Peasant Reconciliation, 1924‑27”, Jahrbücher für Geschichte Osteuropas, vol. 1, 2012.
[39] Orlando Figes, The Whisperers, Private Life in Stalin’s Russia (New York, 2007), p. 87.
[40] Viola, Peasant Rebels, p. 143.
[41] Oleg Khlevniuk, The History of the Gulag (New Haven 2004), p. 11.
[42] Ronald Suny, The Soviet Experiment (Oxford, 2011), pp. 235–250.
[43] Leon Trotsky, Writings, 1929 (New York 1975), p. 113.
[44] Leon Trotsky, Writings, 1930 (New York 1975), p. 111.
[45] Leon Trotsky, Writings, 1931 (New York 1975), p. 215.
[46] Alexei Gusev, “The Bolshevik Leninists Opposition and the Working Class”, in Filtzer, A Dream Deferred, pp. 162‑163.
[47] John Scherer and Michael Jakobson “Collectivization of Agriculture and the Soviet Prison Camp System’” in Europe‑Asia Studies, vol. 45, n. 3, 1993, p. 553.
[48] Arch Getty and Oleg Naumov, The Road to Terror (New Haven, 1999), p. 552.
[49] Khlevniuk, The History of the Gulag, (New Haven, 2004), pp. 304‑305.
[50] Roy Medvedev, Let History Judge (New York, 1989), pp. 279‑284.
[51] Tariq Ali (editor), The Stalinist Legacy (London, 1984), p. 178.
[52] Oleg Khlevniuk, The History of the Gulag, pp. 145‑146.
[53] Medvedev, Let History Judge, p. 347.
[54] J. V. Stalin, Problems of Leninism (Moscow, 1953), pp. 454‑458.
(Traduzione di Isa Pepe e Valerio Torre)