Cinquant’anni fa, nel cuore dell’Europa, in Francia, si sviluppò un processo rivoluzionario che tenne in scacco per due mesi le istituzioni borghesi facendo vacillare il regime. Quello che viene ricordato come il Maggio francese fu l’emblema di un anelito di libertà che attraversò tutto il Vecchio Continente, dell’aspirazione a un mondo nuovo e a un sistema diverso. Ma fu anche il simbolo di una rivoluzione che nessuno riteneva possibile in Europa. La sua evocazione, ancora oggi, fa paura ai difensori e agli apologeti del capitalismo, terrorizzati non già dal protagonismo degli studenti — che infatti vengono persino guardati con una certa paternalistica bonomia, e i cui dirigenti di allora sono stati cooptati nel sistema contro cui si scagliavano — ma dall’irruzione di una gigantesca massa di lavoratori che, con i metodi propri della classe operaia, misero in discussione il regime bonapartista ponendo la questione del potere.
Quel processo rivoluzionario fu sconfitto. Ma le vicende che si svilupparono nei mesi di maggio e giugno del 1968 sono ancora oggi da analizzare per apprendere le lezioni che da esse dobbiamo trarre. Per questo, come contributo alla rievocazione e alla commemorazione di quegli eventi, pubblichiamo oggi una ricostruzione dell’intero processo. Nei prossimi giorni, invece, presenteremo ai nostri lettori il resoconto di un protagonista dei fatti che si svolsero all’interno della fabbrica Renault-Billancourt, un operaio che all’epoca militava in una delle organizzazioni trotskiste protagoniste del Maggio francese.
Buona lettura.
La redazione
Una rivoluzione nel cuore dell’Europa
Cinquant’anni dopo. Cosa fu il Maggio francese?
Valerio Torre [*]
Corri compagno, il vecchio mondo è dietro di te!
(Slogan del Maggio 1968)
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e fino al 1968, i Paesi centrali dell’Europa non avevano visto ripresentarsi situazioni rivoluzionarie. Le borghesie europee erano convinte che le rivoluzioni fossero turbolenze del passato, tipiche di epoche storiche trascorse o, tutt’al più, retaggio di Paesi arretrati o esotici, come Cuba. Anche fra i marxisti non c’era molta fiducia che potessero svilupparsi situazioni rivoluzionarie nelle metropoli imperialiste. Spettacolare e inatteso, il Maggio 68 francese dimostrò che rivoluzioni erano ancora possibili nelle fortezze dell’imperialismo contemporaneo.
È abbastanza usuale – soprattutto a “sinistra” (si pensi a uno dei principali dirigenti studenteschi dell’epoca, quel Daniel Cohn-Bendit, passato dall’anarco‑comunismo al seggio da europarlamentare dei Verdi e oggi convinto “europeista” e, come membro dello “Spinelli Group”[1], fautore di una maggiore integrazione, oltre che sostenitore di Emmanuel Macron[2]) – definire il Maggio del 68 come una rivoluzione meramente culturale, che cioè ebbe al proprio centro una trasformazione della cultura e dei costumi della società, e dunque come un “fallimento politico” che andrebbe perciò sotterrato. Dal canto opposto abbiamo conservatori autoritari come l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, che, chiudendo la sua vittoriosa campagna elettorale del 2007, definì il 68 come l’evento all’origine di tutti i mali della società francese, invitando l’elettorato a “liquidarne l’eredità”[3]. In mezzo, l’attuale presidente francese, che aveva fatto trapelare l’intenzione (poi non coltivata) di celebrare ufficialmente e in pompa magna il cinquantennale del Maggio del 68, con l’evidente intenzione di disinnescare il potenziale dirompente di quegli eventi coprendoli con una coltre di “ufficialità”.
Una rivoluzione politica
Noi riteniamo, invece, che il Maggio francese sia stato, sostanzialmente, una rivoluzione politica: una rivoluzione sconfitta, dal momento che – come vedremo – il regime della V Repubblica sopravvisse agli eventi, ma, sicuramente, una rivoluzione che, come tale, aprì la strada a cambiamenti della società attraverso riforme.
Storicamente, infatti, è il conservatorismo delle classi dominanti a ostacolare le riforme e a costituire una delle cause che spingono le masse verso le rivoluzioni. Quando però queste scoppiano, suonano – anche se sconfitte – come un’allerta per quelle stesse classi dominanti, che saranno disposte a fare concessioni per evitare un nuovo “corto circuito” nelle relazioni politico‑sociali. E allora, quando ciò accade, le riforme non sono opera della controrivoluzione, bensì il sottoprodotto della rivoluzione[4].
In questo senso, il Maggio francese sconfitto aprì la strada a riforme e cambiamenti socio‑culturali progressivi non più rinviabili: i diritti della donna come il divorzio, la legalizzazione dell’aborto, la criminalizzazione della violenza domestica, entrarono nell’agenda politica non solo della Francia, ma – più o meno rapidamente – di diversi altri Paesi; i diritti dei giovani, e in particolare degli studenti, vennero ampliati.
Non solo. Il Maggio francese si sviluppò nel contesto di un’ondata rivoluzionaria internazionale inscritta nel quadro della prima profonda crisi dell’economia capitalista dalla Seconda guerra mondiale, che affondava le sue radici nella recessione scoppiata nel 1966: un’ondata segnata da numerose insurrezioni nei paesi coloniali e dalle gigantesche mobilitazioni contro la criminale guerra scatenata dagli Stati Uniti in Vietnam, dalla resistenza degli afroamericani negli Usa e da una crescita dei movimenti studenteschi in tutti i paesi imperialisti del mondo; e che a sua volta contribuì a sviluppare mobilitazioni in tante parti del mondo, da Rio de Janeiro a Praga, a Città del Messico, a Torino, a Cordoba in Argentina, fino in Giappone, aprendo – per così dire – nuovi fronti di combattimento.
La dinamica aperta dal Maggio del 68 e globalmente intesa, durò fino alla fine degli anni 70 e indusse le borghesie di diversi Paesi del mondo a concedere riforme sotto la spinta della pressione delle masse e per contenerne la portata. Fu così che, non solo migliorarono i salari e in generale le condizioni di lavoro, ma anche la sfera culturale e sociale subì l’influsso positivo di quel movimento: il clima claustrofobico e soffocante degli anni 50 e 60 fu squarciato e trovarono maggiore spazio le rivendicazioni dei settori oppressi e delle minoranze, mentre fasce più ampie della società poterono sperimentare una partecipazione fino ad allora inedita.
Questa situazione si protrasse fino alla fine degli anni 70, quando cominciò la controffensiva del capitale per riprendersi, con gli interessi, quanto aveva dovuto concedere. Ma questa è un’altra storia, che richiede un articolo a parte. Soffermiamoci allora sul Maggio francese.
La novità di un giovane movimento studentesco
Il 68 in Francia vide l’irruzione sulla scena politica di una nuova e giovane generazione giunta alla vita adulta senza essere passata attraverso la tragedia della Seconda guerra mondiale, ma sullo sfondo sociale della crescita economica indotta dal boom degli anni 60 in un regime politico – quello gollista della Quinta Repubblica – basato su un sistema presidenziale di tipo bonapartista tutto sommato stabile.
Questa giovane generazione respirava un clima politico ispirato, più in generale, alla lotta guerrigliera del “Che” Guevara fino alla sua morte nella sfortunata spedizione in Bolivia e alla vittoriosa resistenza del piccolo “Davide” vietnamita contro il “Golia” statunitense; alle numerose insurrezioni nei paesi coloniali, come pure a un incipiente processo di crisi dell’apparato stalinista internazionale; e, più in particolare, alle lotte studentesche sviluppatesi coevamente in Germania e in Italia.
Le contraddizioni aperte dalla scolarizzazione di massa in un’università dominata da un ordinamento fortemente repressivo aprirono la strada all’apparizione di un inatteso fenomeno storico‑sociale: infatti, le trasformazioni nelle società occidentali del dopoguerra, l’esplosione demografica, un’intensa urbanizzazione e l’accentuarsi dell’industrializzazione, determinarono l’allargamento dell’accesso all’istruzione superiore e universitaria favorendo l’ampliamento di una base studentesca dalle origini sociali non borghesi. Il peso sociale degli studenti si accrebbe con l’espansione delle cittadelle universitarie. Contemporaneamente, l’ingresso nel mercato del lavoro di una manodopera più istruita mise maggiormente in sintonia, come vedremo, il movimento studentesco e quello operaio.
Questo complesso di ragioni fece sì che gli studenti iniziassero a percepire la necessità dello scontro con il regime.
Uno dei luoghi comuni, per chi intende approcciarsi allo studio del 68 francese, individua nella lotta degli studenti il “detonatore” dell’intero processo. Ciò è solo parzialmente vero, perché già prima della protesta studentesca il clima era stato surriscaldato dal movimento operaio. Durante tutto il 1967, molte e dure erano state le agitazioni operaie: gli stabilimenti Dassault a Bordeaux; le officine tessili Rhodiacéta a Besançon e nella periferia di Lione, a Vénissieux; cortei e manifestazioni contadine con violenti scontri a Quimper e a Mans; proteste operaie nella stessa regione; sciopero di un mese a gennaio 1968 a Caen nella fabbrica Saviem, estesosi poi alle altre officine della città. E in tutti questi casi, gli studenti si unirono alle lotte degli operai.
E tuttavia, il protagonismo studentesco ha fatto sì che in tanti, anche a sinistra, solo perché i settori d’avanguardia degli studenti del Maggio erano composti in gran numero da figli della borghesia o della piccola borghesia, abbiano, nel migliore dei casi, caratterizzato la rivolta come “piccolo‑borghese”. In realtà, l’ideologia che muoveva gli studenti in opposizione alla società capitalista del consumo di massa, i metodi usati nella lotta, la consapevolezza del posto che avrebbero occupato in una società che non offriva loro altro che un futuro come ingranaggi del capitalismo in un meccanismo produttivo alienante, conferivano a quella lotta un carattere, sia pure confusamente e inconsapevolmente, socialista, rivoluzionario e internazionalista.
La rottura con le organizzazioni tradizionali
E dunque, un nuovo movimento studentesco scese in piazza nel ’68 e, sorprendentemente, le sue bandiere erano rosse. Tuttavia, ciò che emerse con chiarezza dagli eventi che andremo ad analizzare fu la rottura con le vecchie direzioni burocratiche sindacali e politiche dello stalinismo.
L’autorevolezza ottenuta dal Pcf nella lotta contro l’occupazione nazista era stata “sacrificata” sull’altare della stabilizzazione del regime borghese fra il 45 e il 48: come era accaduto in Italia con Togliatti, il segretario del Pcf, Maurice Thorez, ebbe incarichi nei governi che ricostruirono lo Stato borghese.
Nell’ottica della spartizione del mondo sancita dagli accordi di Yalta, il Pcf non aveva alcuna intenzione di fare una rivoluzione in Francia. La sua tattica attendista di articolazione di alleanze elettorali era alla base della volontà di arrivare sì al potere, ma per via elettorale e nel quadro di un governo di collaborazione di classe con alleati che tranquillizzassero la borghesia. Ecco perché, quando il 3 maggio 1968 iniziarono i disordini all’Università di Nanterre, l’Humanité, organo del Pcf, prese posizione in questo modo: «Alcuni gruppuscoli (anarchici, trotskisti, maoisti, ecc.) generalmente composti da figli della grande borghesia … prendono spunto dalle carenze governative per abbandonarsi a comportamenti volti a impedire il normale funzionamento della facoltà … Questi gruppuscoli si rendono così complici del potere e della sua politica»[5].
Il movimento di massa nato nel Maggio francese, dunque, si sviluppò totalmente al di fuori del controllo delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio, da quelle comuniste a quelle socialdemocratiche. E, quindi, l’elemento che va sottolineato, oltre alla dimensione di massa (basti pensare che dieci milioni furono i lavoratori in sciopero), è quello soggettivo del sorgere di una nuova coscienza critica nelle avanguardie studentesche e operaie che furono protagoniste delle lotte. Nella sinistra nacque la ricerca di varianti politiche eterodosse e alternative allo stalinismo: fu così che una militanza politica che non nutriva fiducia nella sinistra “ufficiale” integrata nello Stato e nella divisione del mondo scaturita dal dopoguerra cominciò ad ingrossare le file degli anarchici, dei maoisti e dei trotskisti. Quella nuova generazione che faceva la sua comparsa sulla scena politica, insomma, non era controllata dalle direzioni politiche tradizionali.
La colossale irruzione della mobilitazione giovanile, popolare e operaia che si verificò in quel Maggio produsse per alcune settimane una profonda spaccatura nelle classi dominanti, che si divisero fra i settori che propugnavano l’uso di una dura repressione e quelli che invece esitavano, e la paralisi del governo e delle istituzioni dello Stato. Determinò anche un dislocamento a sinistra di una parte delle classi medie, che anch’esse si divisero in settori più reazionari (i piccoli proprietari) e gli strati intermedi altamente scolarizzati e salariati.
Iniziano gli scontri
Per protestare contro la chiusura della facoltà di lettere dell’Università di Nanterre e impedire la minaccia di occupazione da parte di un gruppo neofascista, il 3 maggio l’Unione degli studenti (Unef) aveva indetto un’assemblea alla Sorbona, al termine della quale venne occupata l’aula del Consiglio dell’Università. Il rettore chiese l’intervento della polizia, che procedette allo sgombero e a numerosi arresti.
Ma accadde l’imprevisto: una moltitudine di studenti accerchiò i mezzi della polizia protestando vivacemente. Questa sollevazione spontanea costituì l’atto di nascita del Maggio.
La polizia fu sorpresa dall’estensione della protesta e scatenò una violenta reazione. Centinaia furono i feriti, seicento persone vennero arrestate e il giorno successivo la Francia lesse sui giornali i resoconti della violenza poliziesca. Come abbiamo visto, l’Humanité, organo del Pcf, si unì alla stampa di destra nel condannare “gli agitatori irresponsabili”.
Mentre il sindacato dei professori universitari fece appello allo sciopero generale in tutte le università del Paese, alcuni degli studenti arrestati vennero condannati a pene detentive e altri a sanzioni pecuniarie.
Per il 6 maggio l’Unef convocò una manifestazione non autorizzata dal governo nel centro di Parigi occupato dalla polizia. Alle 10 della mattina, quando i manifestanti erano già migliaia, la polizia lanciò il primo assalto con gas lacrimogeni mentre un corteo di ventimila persone sfilava al grido di “liberate i nostri compagni!”. Si eressero le prime barricate che furono difese nei violenti scontri con le forze dell’ordine, durati fino a tarda sera.
Il giorno successivo, la convocazione di una nuova manifestazione da parte dell’Unef e del sindacato dei professori universitari raccolse ancora una volta decine di migliaia di partecipanti, circa cinquantamila. Non si trattava più solo di studenti, c’era l’adesione di ampi settori popolari. Il corteo sfilò di fronte al parlamento al grido “il potere è nelle strade!” e terminò all’Arco di Trionfo, dove i manifestanti intonarono l’Internazionale. Quando i dirigenti dell’Unef invitarono a sciogliere il corteo, migliaia di manifestanti si rifiutarono ed eressero barricate, scontrandosi con la polizia fino alle tre di notte. Intanto, a partire dal 9 maggio le mobilitazioni si estesero ad altre città della Francia: Nantes, Rennes, Strasburgo e Tolosa. A Lione e Digione settori operai si unirono alle manifestazioni studentesche. Per il 10 maggio venne convocata un’altra manifestazione a Parigi, che si rivelerà poi quella decisiva nello sviluppo che ebbe il Maggio francese.
Alla mattina, il corteo degli studenti dei licei e delle scuole superiori vide la partecipazione di oltre cinquemila persone. Nel tardo pomeriggio, un’altra manifestazione ne raccolse oltre trentamila. I cordoni di polizia impedirono al corteo di dirigersi verso la Sorbona e i quartieri borghesi della capitale. I manifestanti decisero di occupare il Quartiere Latino, difendendolo con le barricate. In quest’occasione, De Gaulle commise un atto di superbia, scatenando contro gli occupanti il corpo della Crs, la famigerata polizia antisommossa francese, che si abbandonò a violenze inaudite: l’idea era di stroncare una volta per tutte le mobilitazioni prima che diventassero incontrollabili.
Agli scontri con i corpi armati, oltre ai militanti di diverse organizzazioni politiche, parteciparono centinaia di giovani senza nessuna appartenenza politica e abitanti del quartiere che lasciarono le proprie case per aiutare a costruire le barricate. Decine di automobili vennero date alle fiamme per resistere alle cariche della polizia, costretta più e più volte a retrocedere sotto il fuoco di bottiglie molotov e pietre. L’ultima barricata verrà distrutta solo alle 5:30 della mattina successiva. Tutta la Francia fu informata in tempo reale sullo svolgimento della battaglia campale notturna grazie alle radio che la trasmettevano dal vivo.
Lo sviluppo degli eventi e la spinta dei settori operai più giovani che cominciavano a manifestare solidarietà verso il movimento costrinsero le burocrazie politiche e sindacali a cambiare l’atteggiamento di condanna tenuto fino ad allora: così, la Cgt, il sindacato legato al Pcf, decise di proclamare, insieme ad altre organizzazioni sindacali, uno sciopero generale per il 13 maggio. Naturalmente, l’obiettivo non era quello di approfondire la crisi, bensì di governare la dinamica della situazione in atto.
Intanto, nonostante il tentativo del governo di alleggerire la pressione decretando il ritiro della polizia dalla Sorbona, la riapertura dell’Università e la revisione delle sentenze di condanna degli studenti arrestati nei disordini, il livello dello scontro continuava ad alzarsi: la Sorbona si proclamò autonoma, mentre vennero occupati alcuni locali di una sede distaccata.
Sciopero generale e occupazione delle fabbriche
Il giorno dello sciopero generale un corteo di un milione di persone sfilò per le strade di Parigi, e altre centinaia di migliaia in altre città del Paese, in solidarietà con gli studenti e contro il governo.
Fu l’annuncio di un’ondata ancor più grande, quella dello sciopero a tempo indeterminato, ma purtroppo un’ondata senza direzione, senza una proposta concreta di soluzione politica per la crisi. Per quanto il potere gollista fosse messo in discussione, De Gaulle stesso si sentiva tranquillo al punto di partire, il giorno dopo, per un viaggio ufficiale in Romania.
Ma le fascine che si erano andate accumulando nel corso dei giorni a un certo punto presero fuoco. Il pomeriggio dello stesso 14 maggio gli operai della Sud‑Aviation di Nantes, una fabbrica statale con duemila ottocento lavoratori, decisero di occupare l’opificio sequestrando la direzione: sullo stabilimento venne issata la bandiera rossa.
Il giorno dopo, mentre l’organo del Pcf, l’Humanité, cercava di minimizzare l’avvenimento dedicandogli poche righe, più di quattromila operai della Renault di Cléon, alla periferia di Rouen, seguirono l’esempio dei loro compagni della Sud‑Aviation occupando la fabbrica e sequestrandone i dirigenti. Contemporaneamente, furono occupati diversi licei e persino il teatro Odeon, dinanzi al quale venne posto un grande cartello con lo slogan “Quando il parlamento diventa un teatro borghese, tutti i teatri borghesi devono diventare un parlamento!”.
L’indomani, le occupazioni si moltiplicarono: decine di fabbriche in tutto il Paese vennero occupate, compresa la Renault di Flins (undicimila lavoratori) e quella di Billancourt, alla periferia di Parigi, uno stabilimento con trentacinquemila dipendenti. I comitati studenteschi andarono nelle fabbriche occupate per entrare in contatto con quelli operai, mentre le burocrazie sindacali tentavano inutilmente di impedire l’incontro.
Da questo momento in poi, il Paese fu bloccato, con dieci milioni di lavoratori in sciopero, decine e decine di università, scuole e fabbriche (ben centoventidue!) occupate, e – quel che è più rilevante – un’importante saldatura fra la classe operaia e la gioventù. Gli scioperi e le occupazioni si estesero alla Sncf (le ferrovie dello Stato francesi) e alle aziende dei trasporti della regione di Parigi, alla Air France e alle imprese metallurgiche, all’emittente nazionale Ortf, i cui giornalisti incrociarono le braccia contro l’imposizione governativa di … non dare notizie sugli scioperi e le occupazioni di fabbriche. La paralisi economica si accentuò con il blocco delle Poste e telecomunicazioni, e lo sciopero dei settori chimico, tessile e delle imprese Peugeot, Michelin, Citroën, della funzione pubblica, delle banche, delle assicurazioni e dei grandi magazzini. Vennero occupate le sedi dell’Ordine dei medici e di quello degli architetti. Stessa sorte subì la Scuola di Belle Arti ad opera degli studenti e dei pittori che la trasformarono in un centro per la produzione di migliaia di poster di appoggio al movimento. I calciatori professionisti occuparono la sede della Federazione calcistica. Iniziarono a scarseggiare i carburanti e le derrate alimentari.
Certo, il governo godeva ancora dell’appoggio di settori di classe media e, soprattutto, poteva contare sull’esercito. Ma dei 168.000 soldati, ben 120.000 erano di leva e alcuni settori manifestavano una certa simpatia per gli scioperanti. L’unico nucleo duro degli apparati repressivi di cui l’esecutivo poteva fidarsi erano i terribili Crs e i gendarmi, corpi educati alle idee fasciste e reazionarie; ma una cosa era scatenarli contro studenti disarmati e un’altra lanciarli contro una massa enorme di lavoratori organizzati. Per questo, il governo restò totalmente paralizzato.
Iniziarono le manovre delle burocrazie sindacali e politiche per tentare di trovare una soluzione negoziata alla crisi: i sindacati Cgt e Cfdt stilarono una piattaforma rivendicativa in cinque punti. Ma l’onda di proteste non accennava a placarsi: il 24 maggio una nuova notte di barricate e scontri, mentre fu appiccato il fuoco alla Borsa. Scontri anche a Bordeaux, Strasburgo, Nantes e Tolosa.
Dagli accordi di Grenelle alle prime contraddizioni del movimento
Intanto, il 25 maggio, presso il ministero del Lavoro situato in Rue de Grenelle, partirono i negoziati fra sindacati, padronato e governo che durarono due giorni.
Terminato l’incontro e raggiunta un’intesa che di fatto non accoglieva le reali rivendicazioni dei lavoratori, ma concedeva soltanto un aumento dei salari del 10%, il 27 maggio i dirigenti sindacali si presentarono alla Renault di Billancourt chiedendo agli operai di approvare quelli che furono chiamati “gli accordi di Grenelle”. Ma la loro spocchiosa sicurezza di ottenere il via libera dei lavoratori si infranse contro l’unanime volontà dell’assemblea che respinse l’accordo al grido di “Ne signez pas!” (“Non firmate!”). La scena si ripeté – fra la sorpresa delle burocrazie sindacali – in tutte le fabbriche occupate, che votarono per la prosecuzione dello sciopero.
Il Pcf, che si era opposto allo sciopero e aveva attaccato violentemente il movimento studentesco, decise di articolare su due versanti una strategia per disarmare l’ormai incontrollabile protesta: su quello sindacale, difendendo a spada tratta, attraverso la Cgt, l’accordo salariale e sostenendo la necessità che la trattativa dovesse avvenire settore per settore e azienda per azienda (ciò con l’evidente scopo di dividere il movimento operaio); sul versante politico, approfittando dell’ambiguità della rivendicazione “governo popolare” avanzata dalle assemblee nelle fabbriche occupate e appropriandosene per piegarla alle proprie esigenze attraverso la ben diversa parola d’ordine “governo popolare e di unione democratica a partecipazione comunista”. Era fin troppo chiara l’intenzione di arenare sugli scogli delle elezioni l’aspirazione delle masse a un altro governo e un’altra società.
E fu esattamente per questa ragione che la Cgt convocò per il 29 maggio una manifestazione – alla quale parteciparono ottocentomila persone – in cui venne rilanciata appunto questa rivendicazione.
Come si vede, il quadro era mutato: le crepe e le contraddizioni che si erano aperte nel movimento di lotta grazie all’opera di pompieraggio delle burocrazie e alla mancanza di un’influente direzione rivoluzionaria diedero la spinta al regime gollista, fino ad allora sotto scacco, per riprendere l’offensiva e iniziare a reagire. De Gaulle organizzò in gran segreto un viaggio lampo in Germania, a Baden Baden – dove, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, erano di stanza le truppe francesi di occupazione agli ordini del generale Jacques Massu – per assicurarsi il loro intervento in caso di bisogno. Perfino i membri del suo entourage furono tenuti all’oscuro del viaggio e del suo scopo.
In proposito, uno storico e giornalista francese, Henri‑Christian Giraud, ha documentato in un libro pubblicato alcuni anni fa e intitolato L’Accord secret de Baden‑Baden, comment de Gaulle et les Soviétiques ont mis fin à Mai 68[6], che nel corso del viaggio segreto in Germania De Gaulle avrebbe ricevuto il via libera dal Cremlino – a condizione di rispettare il patto che lo legava all’Unione Sovietica dalla fine della guerra – per agire a sua discrezione, anche utilizzando le forze armate, mentre i dirigenti sovietici si sarebbero incaricati di ordinare al Pcf di far rientrare ad ogni costo la protesta nei ranghi[7].
Dopo la paralisi De Gaulle riprende l’iniziativa. Il riflusso
Il 30 maggio, rientrato in Francia, De Gaulle organizzò una manifestazione nazionale a sostegno del regime: circa un milione di persone sfilò sugli Champs-Elysées. È una costante storica: quando in una crisi rivoluzionaria la classe operaia tentenna, la media e la piccola borghesia conservatrice si riorganizzano e passano alla controffensiva.
Lo stesso giorno, De Gaulle annunciò alla radio lo scioglimento del parlamento e l’indizione di nuove elezioni. Al centro del suo discorso la minacciosa alternativa “O me o il caos”. E il Pcf, che non vedeva l’ora di riportare quel “caos” sui binari istituzionali delle elezioni, scelse, appunto, … De Gaulle, nel senso che decise che lo sbocco elettorale era l’unica strada per risolvere la crisi.
Lo provano le dichiarazioni di Robert Ballanger, presidente del gruppo comunista in parlamento: «Calmi e fiduciosi nella loro forza, i lavoratori continueranno a difendere le rivendicazioni per le quali sono in sciopero. Essi parteciperanno dunque con ancora più energia e fiducia alla campagna elettorale per battere il potere gollista». Il senso era chiaro: lo sciopero doveva essere puramente rivendicativo, nessuna parola d’ordine politica doveva essere avanzata nella preparazione delle elezioni volute da De Gaulle. E lo ribadì l’Humanité del 31 maggio: «Il partito comunista andrà a queste elezioni esponendo il suo programma di progresso e pace nell’indipendenza nazionale e la sua politica di unione di tutte le forze democratiche».
Le classi dominanti comprendevano bene l’impegno degli stalinisti del Pcf e della loro burocrazia sindacale a mantenere lo status quo e, felicitandosene, lo espressero a chiare lettere. Raymond Aron, notissimo intellettuale e editorialista conservatore, scrisse su Le Figaro del 4 giugno in un articolo significativamente intitolato “Dopo la tempesta”: «In nessun momento il partito comunista e la Cgt hanno incitato alla sommossa, … non hanno voluto abbattere il potere gollista … Subito dopo il discorso del presidente, [il Pcf] ha disinnescato la bomba acconsentendo ad elezioni che ha ben poche speranze di vincere».
Dunque, davanti al potere gollista si aprì un’autostrada e iniziarono parallelamente repressione poliziesca e riflusso del movimento, nonostante altre manifestazioni al grido “Élections, trahison!” (“Elezioni, tradimento!”). Il 5 giugno riprese il lavoro dei minatori, dei dipendenti statali e siderurgici; il 6 tornarono al lavoro i ferrovieri, mentre il 7 la polizia antisommossa sgomberò con la forza e occupò militarmente la Renault di Flins: si verificarono violenti scontri che si ripeterono il 10 quando i poliziotti uccisero un giovane studente facendolo annegare nella Senna. Altri scontri l’11 giugno davanti alle officine della Peugeot a Sochaux, in cui vennero uccisi due operai. Violente manifestazioni a Parigi e in altre città, ma il giorno successivo ripresero i corsi nei licei, mentre il governo mise fuori legge per decreto tutte le organizzazioni dell’estrema sinistra.
I funerali di Pierre Beylot e Henri Blanchet, i due operai della Peugeot a Sochaux assassinati dalla polizia
A partire dal 14 giugno, lentamente riprese il lavoro nella maggior parte delle imprese e fabbriche occupate. Gli ultimi bastioni a cadere furono due degli emblemi del Maggio: il 17 giugno venne sgombrata la Sorbona e nei sette giorni successivi tornarono al lavoro tutte le fabbriche automobilistiche, le ultime ad abbandonare la lotta.
Le elezioni del 23 e 30 giugno consegnarono la vittoria a De Gaulle e ai suoi alleati della destra. La classe operaia rifiutò di votare il Pcf, che infatti perse ben 600.000 voti. Il grande movimento che aveva tenuto in scacco il potere borghese era completamente smobilitato.
Le lezioni del Maggio: la questione del potere
Quali lezioni possiamo trarre dagli eventi che abbiamo sinteticamente descritto nel loro tumultuoso succedersi?
Innanzitutto, come abbiamo già detto, il Maggio francese fu, sostanzialmente, una rivoluzione politica, cioè un processo di ribellione popolare e operaia sviluppatosi in rottura con le vecchie direzioni burocratiche sindacali e politiche dello stalinismo e, quindi, totalmente al di fuori del controllo delle organizzazioni tradizionali comuniste e socialdemocratiche del movimento operaio. Quando la lotta di classe si fece spazio irrompendo nella dinamica di massa attraverso la breccia aperta dalle proteste studentesche, vennero oscurate le tesi (anche allora in voga) che rinnegavano la centralità operaia e secondo cui la classe lavoratrice era stata del tutto integrata nel sistema capitalistico e si era “imborghesita”. Rapidamente, quello che pareva un conflitto tra gli studenti e le istituzioni si trasformò in una situazione rivoluzionaria. Il Paese cadde nella paralisi, la borghesia si divise, il governo era impotente e i sindacati avevano perso il controllo sui lavoratori. Ci fu realmente la possibilità per la classe operaia di rovesciare nell’immediato il governo, e in prospettiva il regime capitalista. Si trattò, tuttavia, di una rivoluzione che fu sconfitta dal combinato disposto del potente freno della burocrazia sindacale e politica fondata sull’enorme peso dell’apparato stalinista, da un lato; e, dall’altro, della mancanza di una conseguente direzione rivoluzionaria con influenza di massa nel movimento operaio.
Si è molto parlato del Maggio 68 come di un processo “spontaneo” e si è posto l’accento sull’aspetto della spontaneità per deprivare quel processo della violenta carica anticapitalista che ebbe. In realtà, il movimento studentesco, che in parte fu, come abbiamo detto, il detonatore della dinamica, fu anche, nel suo insieme, sensibile a un certo “spontaneismo”, oltre che attraversato da idee anarchiche e “terzomondiste” per le quali la classe operaia era “corrotta” dal sistema borghese e il nemico era “la società consumista” più che il capitalismo: ciò fece sì che molti degli studenti non fossero affatto inclini a perseguire le rivendicazioni economiche che pur sempre costituivano parte della piattaforma operaia, e invece focalizzassero la loro azione sulla “contestazione”, la “dissacrazione”, la “lotta contro l’autorità”.
Ciò che invece era tutt’altro che spontaneo era l’attività di quelli che venivano spregiativamente definiti “gruppuscoli”, soprattutto i trotskisti, che dopo anni di propaganda rivoluzionaria, di mobilitazioni e lotte sostenute, portarono la “spontaneità” del movimento studentesco a un livello di maturità politica notevole. E fu proprio questa maturità politica a manifestarsi “spontaneamente” la notte del 3 maggio e nelle settimane successive.
Nondimeno, pur riconoscendo al movimento studentesco un ruolo di enorme importanza nello sviluppo del processo rivoluzionario[8], va riaffermato con forza che fu il protagonismo della classe operaia a mettere in crisi il regime[9]: fu la paralisi dell’economia capitalistica l’elemento determinante che fece barcollare il sistema. Certo, quello che studenti e operai francesi – intesi come un unico movimento – sapevano era che volevano rovesciare De Gaulle[10], non c’era sul tavolo un autentico piano per rovesciare il sistema e imporre un governo operaio. Ma la questione del potere fu realmente posta dalla potente azione dei lavoratori: un’azione che assestò un violento colpo alla dominazione borghese sulla società, che fu sul punto di crollare.
E tuttavia, alla questione del potere si rifiutarono di rispondere i dirigenti ufficiali del movimento operaio, che fecero di tutto, dopo aver calunniato l’avanguardia studentesca[11], per separarla e isolarla dalla classe operaia che essi controllavano, con l’obiettivo di sterilizzare così e controllare la pulsione di lotta di questa. Fu per tale motivo che il regime vacillò soltanto, ma non cadde, salvato dalla burocrazia sindacale e politica composta da quei dirigenti. Il protagonismo studentesco, e soprattutto operaio, non bastò. Quel che mancò fu, appunto, un partito rivoluzionario con influenza di massa che potesse dirigere l’intero movimento contrastando l’azione di freno del Pcf e della Cgt; mancarono insomma le condizioni soggettive della rivoluzione[12].
Com’è noto, le condizioni oggettive della rivoluzione non le determiniamo noi; ma quelle soggettive, cioè la costruzione di partiti rivoluzionari con influenza di massa, sì: quelle ricadono sulle nostre ancora deboli braccia. Eppure, proprio perché il Vecchio Continente è adesso il centro della crisi capitalistica, dobbiamo oggi, nonostante questa debolezza, adempiere in tutta Europa a questo compito storico: quello della costruzione di un partito rivoluzionario e di un’Internazionale rivoluzionaria. Un compito necessario perché una nuova rivoluzione sia possibile in questo continente. E che, riprendendo e amplificando la carica del Maggio francese, sia oggi, a differenza di allora, finalmente vittoriosa.
Note
[1] Aggregazione che si richiama agli ideali di Altiero Spinelli e che vanta il supporto di quelle che vengono definite «personalità eccelse della politica europea, tra le quali … Mario Monti e Romano Prodi» (sic!), (The Spinelli Group).
[2] “Cohn‑Bendit, Castro, July… Ces anciens de mai 68 qui marchent avec Macron”, Challenge(s), 22/3/2018, (https://bit.ly/2LVuOyZ).
[3] Apparentemente, le due posizioni sono divergenti, ma di fatto c’è assoluta convergenza di giudizio fra l’ex anarchico, leader delle proteste studentesche di allora e oggi fedele servitore dell’Europa capitalista, e il piccolo neogollista ammalato di manie bonapartiste, benché caduto in disgrazia.
[4] V. Arcary, “Maio de 68: a última onda revolucionaria que atingiu o centro do capitalismo”, Acta Scientiarum, UEM, vol. 30, n. 2, p. 203 e s.
[5] Riportato da Le Nouvel Observateur, “Affrontements du 3 mai: la gauche est divisée”, 5 maggio 1968, (https://bit.ly/2Jd5Kls). In un articolo pubblicato due giorni prima, il 3 maggio, su L’Humanité, Georges Marchais – che sarebbe in seguito diventato segretario generale del Pcf – aveva definito gli studenti protagonisti di quei disordini dei «falsi rivoluzionari da smascherare».
[6] “L’accordo segreto di Baden‑Baden, come De Gaulle e i sovietici hanno posto fine al Maggio 68”.
[7] Nel libro di Giraud viene ricostruito il simmetrico viaggio del comandante in capo delle truppe sovietiche di stanza in Germania Orientale, maresciallo Kochevoï, che il giorno prima dell’arrivo di De Gaulle aveva avuto un lungo incontro col comandante delle forze francesi in Germania Ovest, generale Massu: a riprova dei contatti costanti tra il Cremlino e l’Eliseo e di una strategia concordata.
[8] In particolare, l’“incontro” tra gli studenti e il giovane proletariato di fabbrica fu decisivo perché si producesse quella saldatura tra i due settori di quello che sarebbe poi stato un movimento unificato. Fu, infatti, grazie all’azione politica delle avanguardie politiche degli studenti davanti ai luoghi di lavoro che si creò quel clima di solidarietà diffusa verso di loro in seno al movimento operaio, come testimoniano le manifestazioni congiunte di Lione e Digione del 6 maggio. Tuttavia, non va dimenticato che, al di là di quelle piccole avanguardie politicizzate, l’insieme del movimento studentesco era influenzato in grande misura dall’ideologia di quella corrente denominata New Left, cui si ispiravano i principali dirigenti giovanili del movimento, che predicavano – e praticavano – la “estetica della sovversione”. La stessa “battaglia notturna” del Quartiere Latino, di cui abbiamo detto nel testo e che aveva come obiettivo la rioccupazione della Sorbona, fu una prova avventurista e senza alcuna prospettiva: le forze dell’apparato repressivo dello Stato, armate fino ai denti, erano soverchianti rispetto a giovani che potevano solo costruire precarie barricate incapaci di resistere al feroce assalto dei famigerati Crs. Il mattino dopo, a Cohn‑Bendit non restò che fare appello alle organizzazioni del movimento operaio perché scendessero in piazza contro la repressione. E fu così che centinaia di migliaia di lavoratori – consapevoli che, se il movimento studentesco fosse stato schiacciato, l’offensiva dello Stato si sarebbe poi rivolta contro di loro – fecero irruzione con i metodi propri della classe operaia nella protesta popolare e studentesca dandole un’impronta classista.
[9] Insomma, può ben dirsi che, benché certamente ispirata dal movimento studentesco, l’entrata in scena dei lavoratori aveva la sua propria (e ben differente) dinamica (C. Harman, The fire last time: 1968 and after, Bookmarks 1998).
[10] Una delle parole d’ordine che risuonava nelle strade, infatti, era “Dix ans, ça suffit!” (“Dieci anni bastano!”): in un chiaro riferimento alla durata decennale del governo De Gaulle.
[11] Come abbiamo visto sopra, nel testo, e in nota 5.
[12] I Comitati d’azione, che si erano formati nel vivo del processo, non furono in grado di supplire alla mancanza di un autentico soggetto rivoluzionario: molto spesso, le loro assemblee si traducevano in interminabili discussioni che non partorivano la decisione che il momento necessitava. Inoltre, la loro estensione non era diffusa in maniera omogenea in tutti i luoghi di lavoro in sciopero, ma solo in una parte minoritaria. Mancava infine la loro centralizzazione.
[*] Con il contributo della redazione del Collettivo Assalto al cielo