L’Europa di Mattarella o un’Europa socialista?
La crisi politico‑istituzionale e come affrontarla da un versante di classe
Valerio Torre
«Ogni volta che i politicanti borghesi
sbandierano la parola d’ordine dell’europeismo,
dell’unione degli Stati europei, […]
dobbiamo rispondere che non ne verrebbero
a noi i vantaggi, ma alla borghesia»
(Rosa Luxemburg)
L’inedito scontro che si è prodotto con il rifiuto del presidente della repubblica di firmare il decreto di nomina come ministro dell’Economia e Finanze di Paolo Savona, sancendo di fatto l’aborto dell’ipotesi di governo Lega‑M5S [*], ha una veste solo formalmente “istituzionale”, ma costituisce in realtà un vero e proprio scontro “politico”.
Si tratta del conflitto tra la grande borghesia finanziaria e industriale – italiana ed europea – che si esprime nelle cancellerie e nelle istituzioni sovranazionali, e quei settori di media borghesia produttiva e piccola borghesia impoverita e radicalizzata che avevano scelto Matteo Salvini e Luigi Di Maio come loro rappresentanti per affrontare la crisi ancora in atto[1]. Perché è questo il telone di fondo di cui non dobbiamo dimenticare l’esistenza: la crisi economica è tutt’altro che passata, a dispetto della propaganda in cui si favoleggia un giorno sì e l’altro pure della ripresa, che invece è anemica in tutto il continente, e in particolare in Italia. E l’ultima cosa di cui il grande capitale ha bisogno in questo momento è di governi cosiddetti “populisti” o “antieuropeisti”: e cioè di esecutivi che, volendo farsi interpreti degli interessi di quella piccola e media borghesia, inevitabilmente entrano in contrasto con quelli, contrapposti, della grande borghesia, mettendo in discussione, sia pure da un versante “sovranista” e reazionario, i fondamenti dell’architettura istituzionale di quella macchina da guerra che è l’Unione europea e del suo bastione, l’euro.
Col suo tetragono veto, Mattarella ha voluto chiarire che quell’architettura istituzionale non può essere toccata, neanche per un minimo restyling; che non c’è spazio, neppure residuale, per un bilanciamento di quei contrapposti interessi; che le regole della democrazia borghese – e cioè la “libertà” per il proletariato di andare al voto ogni cinque anni per “scegliere” da chi essere sfruttato – valgono solo finché non entrano in contrasto con il dominio del grande capitale.
Ma per i rivoluzionari tutto ciò non costituiva una novità, non c’era bisogno – per comprendere queste verità alfine “disvelate” – di quello che si preannuncia come un autentico “stallo”. Stallo perché, a meno di inimmaginabili (per ora) colpi di scena, il premier neo‑incaricato, Cottarelli, uomo di fiducia dei mercati internazionali, metterà in piedi un governo di minoranza che non potrà far altro che – come lui stesso ha dichiarato – rassegnare subito le dimissioni e portare il Paese alle urne entro pochi mesi. Pochi, ma importanti, perché in questo momento le borghesie italiana ed europee hanno bisogno di guadagnare tempo, non essendo del tutto in grado di imporre la propria agenda.
Le risposte alla crisi
Le reazioni in queste ore sono le più disparate. Sui social si può leggere di tutto, e a sinistra si registrano “cinquanta sfumature di rosso”.
C’è persino chi si accoda alla richiesta di messa in stato d’accusa di Mattarella, avanzata da Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) e, in tandem, da Di Maio col redivivo Di Battista, che cercano di compattare il M5S con lo spirito barricadero e movimentista di quest’ultimo disinnescando le pulsioni centrifughe di alcune frange deluse dalla gestione azzimata del primo.
C’è chi, senza arrivare a tanto, critica il presidente perché col suo veto avrebbe spianato la strada a una futura schiacciante vittoria elettorale del M5S, ma soprattutto di Salvini, che in particolare viene dipinto come un astuto protagonista di tutta la vicenda, come una sorta di regista occulto di un esito da lui pianificato da tempo allo scopo di mettere nell’angolo i grillini e prepararsi l’ingresso trionfale da premier nel governo che uscirà dalle prossime urne.
C’è chi ora confida in una rapida rottura delle basi di Lega e Cinquestelle con i loro gruppi dirigenti, pensando di poter recuperare quelle frange di sinistra che negli anni si sono rivolte a quei due partiti abbandonando i loro partiti d’origine, da cui si erano sentiti traditi a causa delle loro politiche e pratiche riformiste.
C’è chi (Potere al popolo) accusa Mattarella di essersi «reso responsabile di una grave crisi istituzionale», facendo così un feticcio del “corretto funzionamento” delle istituzioni borghesi; e di essersi piegato «ai diktat della Bce e del Fmi», come se il presidente ne fosse finora stato un fiero avversario e non ne fosse invece un fedelissimo interprete. Con lo stesso comunicato, Pap addebita al presidente di aver «portato un attacco diretto alla democrazia ed alla Costituzione del nostro paese», continuando nel proprio triste percorso di ossequio alla “sacralità” della democrazia e della Costituzione dei padroni.
C’è chi, come Giorgio Cremaschi, dimentico del ruolo della borghesia e della finanza italiane, lancia il suo anatema nazionalista e patriottardo contro «il governo e il potere tedesco [che], anche con la loro stampa razzista, si sono mossi contro l’Italia»; e che, sul sempiterno altare della «nostra Costituzione democratica, sociale, antifascista», si duole del fatto che Mattarella abbia «fatto saltare un governo che avrebbe riscosso la fiducia della maggioranza del Parlamento […] messo sotto scacco», così oggettivamente dislocandosi nel campo dei partiti che quell’esecutivo avrebbero sostenuto.
Ancora, c’è chi – Cgil e Anpi in prima fila – si schiera “senza se e senza ma” in difesa del presidente e delle sue decisioni, chiamando addirittura alla “vigilanza democratica”.
Infine, se non abbiamo dimenticato qualcun’altra di queste tante “sfumature”, c’è chi assume una qualche posizione di tipo “campista”, affermando che, se le istituzioni finanziarie europee sono preoccupate da un eventuale governo Salvini‑Di Maio con Savona ministro dell’Economia e delle Finanze; se quest’eventualità le indebolisce, allora bisogna sostenere il piano di uscita dall’euro proposto da un siffatto esecutivo, in omaggio al principio secondo cui non importa se il gatto è bianco o nero, basta che acchiappi il topo.
Di fronte a questo variegato panorama, le voci dei rivoluzionari conseguenti sembrano restare in secondo piano. Riteniamo che sarebbe però un errore lasciare nelle mani della destra reazionaria e nazionalista la bandiera della rottura con l’Ue e l’uscita dall’euro. E un errore ancor più deleterio sarebbe quello di sostenere un piano del genere, elaborato da quella destra.
È per questo che la vicenda che vede protagonisti Mattarella, Salvini, Di Maio e altri, il conseguente corto circuito e la crisi politico‑istituzionale scoppiata in questi giorni, ci offrono il destro per analizzare la situazione in cui ci troviamo ad agire e le possibili soluzioni da un versante di classe.
Il Manifesto di Ventotene
È un dato indiscutibile che le masse popolari del Vecchio Continente abbiano ormai la percezione della pervasività del potere delle istituzioni europee sulle loro vite. E tuttavia, questa percezione – che sfocia in un indistinto “euroscetticismo”, cioè in un crescente ma poco consapevole sentimento popolare di rifiuto verso l’euro e l’Europa – non è affatto chiara. È confusa. Senza una lettura da un versante di classe dà luogo a risposte, nel migliore dei casi, sbagliate e inadeguate; nel peggiore, al ripiegamento in chiave nazionalistica e, attraverso la difesa della “patria” nazionale, al rinvigorimento dell’estrema destra populista, razzista e xenofoba.
Tralasciando questa seconda ipotesi[2], diciamo che parte rilevante della sinistra riformista ha nel proprio programma fondativo la rivendicazione del Manifesto di Ventotene. Si tratta del documento redatto da intellettuali antifascisti confinati sull’isola di Ventotene durante il ventennio mussoliniano (tra cui Altiero Spinelli), e che prefigurava la costruzione di un’Europa federale, dotata su scala continentale di un parlamento e di un governo sovranazionale dotato di poteri reali in materia economica e di politica estera. Questa sinistra, richiamandosi a quel Manifesto, denuncia un preteso sbilanciamento in Europa del potere finanziario a scapito dei poteri del parlamento e rivendica la costruzione di “un’altra Europa”, quella dei popoli, ecologica, sociale, democratica, salvaguardandone però l’attuale architettura istituzionale e monetaria. Ci sarebbe cioè un’Europa cattiva – quella dei banchieri, della Merkel e di Schäuble – e una buona: quella, appunto, del Manifesto di Ventotene, snaturata oggi dalla “perfida finanza”.
Ma chi abbia la pazienza di leggere questo manifesto[3] potrà notare non solo che vi è sviluppata una critica feroce al marxismo (tanto che persino un socialista tutt’altro che rivoluzionario come Sandro Pertini ritirò la firma che in un primo momento aveva dato al documento), ma che rappresenta la base fondativa per la costruzione di uno spazio economico europeo in cui i capitali possano muoversi liberamente: per la costruzione, cioè, di un’economia capitalista in grado di competere su uno scenario più ampio con quella statunitense. Per questo, diversamente da quanto possano pensarne i riformisti odierni, il Manifesto di Ventotene non costituisce affatto il caposaldo della “democratica Europa dei popoli” da loro vagheggiata, ma rappresenta invece proprio l’anima dell’Unione europea che conosciamo noi oggi. L’euro, da che è stato concepito, ha costituito un disegno politico: cioè esattamente quello che abbiamo davanti agli occhi. L’Ue nel progetto delle borghesie continentali non può che fondarsi sull’euro.
Le idee portanti alla base della costruzione dell’Ue
Le borghesie continentali non stanno affatto costruendo l’Europa della pace, della democrazia e dei diritti sociali:
- la c.d. Europa della pace è quella che ha bombardato Belgrado, l’Afghanistan e la Libia. È quella che sta conducendo una lotta senza quartiere contro i migranti che fuggono dai loro Paesi in cerca di una vita migliore, annegandoli nel Mediterraneo. È quella che tollera la costruzione del muro della vergogna con cui l’Ungheria, seguita da qualche altro Paese, blinda le proprie frontiere;
- la c.d. Europa democratica è quella delle misure repressive contro il proletariato giustificate dalla lotta al terrorismo[4];
- la c.d. Europa dei diritti sociali è quella che ha liquidato il welfare, scatenando un’offensiva brutale fatta di precarietà, disoccupazione e miseria per le classi subalterne.
Al contrario della vulgata dominante, l’attuale Ue nacque invece da un accordo che i Paesi imperialisti dell’Europa occidentale raggiunsero per competere per il dominio dei mercati mondiali con i blocchi imperialisti concorrenti, Stati Uniti e Giappone. La ragione di quest’intesa, cioè, stava nella consapevolezza delle borghesie continentali di non essere in grado di disputare i mercati mondiali isolate nei confini dei propri Stati nazionali.
Washington sostenne da subito i progetti europeisti, sia per creare un bastione di contrapposizione al blocco orientale filosovietico, sia per realizzare un mercato capitalista unificato su cui riversare le proprie esportazioni. D’altro canto, le borghesie europee, sfiancate da sei anni di una guerra così distruttiva, volevano uscire dal caos economico del dopoguerra evitando la balcanizzazione prodottasi dopo la guerra del ’15‑’18. Tuttavia, i loro settori più coscienti pensarono a un progetto che andasse oltre il cartello doganale sostenuto dagli Usa: cioè, appunto, un competitore multinazionale degli imperialismi statunitense e giapponese per disputare il mercato mondiale.
Il rafforzamento e la trasformazione qualitativa dell’Ue alla base di questo progetto perseguiva e persegue diversi obiettivi:
- il primo sta nel favorire la concentrazione capitalista a livello regionale, con lo sviluppo – sotto l’impulso degli Stati più forti – di settori economici chiave, come l’industria aeronautica o armamentistica, la siderurgia, la petrolchimica, ma anche i servizi e le banche. Ciò non significa che le diverse borghesie puntino a un capitalismo unificato su scala europea attraverso una progressiva fusione tra loro. Esse vogliono invece determinare il processo per la creazione delle condizioni per le concentrazioni capitalistiche, imprescindibili per competere sui mercati conquistandone nuove fette;
- il secondo obiettivo è dato dal coordinamento a livello europeo degli attacchi delle diverse borghesie ai rispettivi proletariati;
- il terzo sta nella facilitazione della penetrazione imperialista nelle zone di influenza dell’Asia, Africa, America Latina e, ora, nell’Est europeo.
In questo senso, l’Ue – come risultante di un processo di integrazione economica senza precedenti – non è uno Stato sovranazionale, ma neanche rappresenta un semplice organo di cooperazione intergovernativa. Rappresenta invece l’alto grado di unificazione economica del continente, riproduce il carattere continentale delle sue forze produttive e delinea la necessità dell’eliminazione delle frontiere e degli Stati nazionali come li conosciamo in Europa. Ma, al contempo, rappresenta anche la negazione di tutto questo, essendo il frutto di un accordo fra borghesie imperialiste che non possono, né vogliono, prescindere dai loro propri Stati nazionali, che costituiscono pur sempre l’elemento decisivo per la difesa dei loro rispettivi capitalismi nel mercato mondiale e per mantenere la lotta di classe entro i limiti di quegli Stati.
In altri termini, nessun imperialismo europeo, finché resta tale, può intendere l’unificazione dell’Europa se non sull’egemonia dei suoi propri interessi nazionali imperialisti e per schiacciare il proletariato.
In questo quadro, l’integrazione economica e produttiva a livello europeo, con l’ingresso di nuovi Stati (come, da ultimo, quelli dell’Europa centrale e dell’est) si fonda sulla diseguaglianza, di cui si nutre e che amplifica in un mutuo processo di rialimentazione: abbiamo cioè, da una parte, una periferia continentale interessata da un processo di specializzazione produttiva di tipo regressivo, come somministratrice di beni a bassa tecnologia e mano d’opera a basso costo; e, dall’altra, un centro industriale concentrato intorno ai Paesi del nord capeggiati dalla Germania. In mezzo, imperialismi decadenti come Italia[5] e Spagna ai quali viene assegnato uno strapuntino in questa catena di valore in cui ognuno degli Stati occupa il suo posto.
L’architettura istituzionale dell’Unione europea
L’architettura istituzionale dell’Ue si fonda:
- su una banca centrale (la Bce) con una moneta (l’euro) comune tra i Paesi della c.d. “eurozona”;
- su un potere di orientamento politico generale (in capo al Consiglio europeo, anche detto Consiglio dei capi di Stato e di governo);
- e su un potere esecutivo e legislativo suddiviso tra un Consiglio dell’Unione europea (formato dai ministri dei singoli governi), una Commissione e un parlamento.
Ma, come al solito, la borghesia si fa le leggi e poi le vanifica a proprio piacimento. Infatti, mentre per trattato spetterebbe alla Commissione e al parlamento il compito di adottare risoluzioni e normative che i singoli ordinamenti nazionali debbono poi recepire, di fatto è il Consiglio europeo, nel bilanciamento istituzionale, quello che ha il peso più rilevante, dato che decide gli orientamenti politici generali a breve termine. Lo conferma un politico non sospettabile di simpatie bolsceviche – l’ex premier Enrico Letta – che in una intervista ha spiegato come sia proprio il Consiglio europeo a detenere il vero potere decisionale, adottando scelte che sono (citiamo testualmente) «l’alfa e l’omega della vita comunitaria»[6].
Perciò, benché detenga sulla carta il potere esecutivo e di proposta legislativa, la Commissione europea in realtà dipende dal Consiglio europeo, poiché sono proprio i capi di Stato e di governo dei diversi Paesi dell’Ue che lo compongono a concertare e realizzare le politiche reazionarie di attacco al proletariato: in questo senso, è pura demagogia – quella della sinistra riformista – considerare la Commissione come la fonte di tutti i mali, quando sono invece i distinti governi (riuniti nel Consiglio europeo) i responsabili delle misure antioperaie e antipopolari.
Come pure è demagogia – sempre da parte della sinistra riformista – considerare che i problemi della costruzione europea risiedano in un preteso “deficit democratico”, e cioè nel predominio di Consiglio e Commissione a scapito del parlamento, sicché basterebbe spostare quest’asse per riformare l’Europa. In realtà, l’integrazione su scala continentale è stata realizzata dall’alto, sulla base di accordi fra governi in rappresentanza delle rispettive borghesie, e la figura del parlamento nell’architettura istituzionale europea è servita solo a conferire all’Ue una patente di fittizia legittimità democratica.
Secondo le miopi sinistre socialdemocratiche è solo nell’attuale fase di sviluppo del capitalismo che la finanza avrebbe preso il sopravvento. E invece, il parlamento europeo è stato sin dal primo momento concepito proprio e solo come un organismo di potere consultivo e codecisionale di rango secondario rispetto al Consiglio e alla Commissione: cioè come un organismo di legittimazione e copertura pseudo‑democratica di decisioni assunte altrove. In questo senso, rappresenta un’appendice delle politiche nazionali, dato che vi siedono i rappresentanti degli interessi nazionali delle diverse borghesie.
Perciò la pretesa dei riformisti di “riformare” e “democratizzare” l’Ue costituisce una vera e propria sciocchezza, oltre ad essere una pericolosa posizione reazionaria.
L’euro
Uno degli strumenti su cui si fonda la dominazione dei distinti capitalismi europei sul proletariato del continente, e in particolare su quelli dei Paesi periferici (come la crisi greca ha mostrato), è la moneta unica.
L’euro è il congegno nelle mani dei poteri economici per schiacciare la classe lavoratrice. Non solo: è il fondamento principale perché le borghesie europee possano attaccare i salari estraendo maggiori quote di plusvalore, contrastando così – soprattutto in una fase come quella attuale di crisi economica – la caduta del saggio di profitto per risultare più competitive sui mercati mondiali.
Da quando, con l’introduzione del sistema della moneta unica a cambi fissi, i singoli Stati aderenti hanno perduto la possibilità di effettuare svalutazioni competitive delle loro precedenti monete nazionali per poter vendere meglio all’estero, non è rimasta che un’opzione (peraltro, quella preferita dai padroni) per migliorare la competitività: attaccare i salari e i diritti lavorativi riducendo così il costo del lavoro e, attraverso un maggiore sfruttamento della classe lavoratrice, aumentare i profitti.
Come abbiamo già visto, l’integrazione economica europea si fonda sulla diseguaglianza tra economie centrali e periferiche. L’Ue non è una “transfer union”, cioè un’unione di trasferimenti di risorse come possono esserlo gli Stati Uniti, in cui al governo centrale spetta la redistribuzione finanziaria verso la periferia. Semmai, l’area euro funziona come una transfer union al contrario: poiché Berlino vede il mondo (ma soprattutto l’Europa) solo come mercati da conquistare grazie all’eccellenza dei propri prodotti, il centro del sistema europeo – cioè quello spazio manifatturiero il cui nucleo è costituito dalla Germania con intorno la macroarea che va dal Baltico alla Mitteleuropa fino all’Italia del Nord – è in surplus commerciale permanente rispetto alla periferia[7]. Questo centro assorbe cioè liquidità dagli europartner, ai quali però prescrive feroci politiche di austerità inducendovi deflazione con relativo incentivo alla svendita di asset strategici (ne abbiamo avuto conferma col terzo Memorandum imposto alla Grecia che ha ceduto gli aeroporti regionali a società tedesche).
Questo processo rafforza la catena produttiva orchestrata dalla Germania, che vede consolidare il suo dominio nel mercato europeo e mondiale di beni industriali ad alta tecnologia, mentre determina la ricollocazione verso il basso di altri Paesi nella gerarchia degli Stati[8].
Olivier Passet, ex economista dell’Osservatorio francese delle congiunture economiche (prestigioso centro di ricerca che fa capo all’altrettanto prestigioso Istituto di studi politici di Parigi, esclusiva università in cui si è formata l’élite politica e amministrativa francese), ha un’opinione molto chiara dell’euro: la moneta unica – secondo Passet – genera austerità permanente, non solo nell’attuale fase di crisi, ma persino in regime economico normale. Proprio perché l’eurozona è rappresentata da un’Europa a due velocità (una “zona di divergenze” la definisce l’economista), il guadagno di competitività globale dell’area centrale condanna ai salari bassi le economie della periferia.
L’austerità – conclude Passet – non è un periodo di transizione che passerà: era «già scritta nei geni dell’Europa». Era, insomma, al centro del progetto dell’euro fin dai suoi albori[9].
E se lo dice un economista borghese, c’è da crederci!
Il debito pubblico
L’altro strumento su cui si fonda il dominio di quella autentica macchina da guerra imperialista contro i lavoratori e i popoli europei dal nome di Unione europea è il debito pubblico.
Non scenderemo qui nei dettagli di questo tema. Ci limiteremo a segnalare che «il debito pubblico è il debito che il settore pubblico di un paese contrae nei confronti di soggetti ad esso esterni (famiglie, imprese, istituzioni finanziarie) … [con] lo scopo di procurare … mezzi di pagamento necessari a finanziare il deficit pubblico, e cioè l’eccesso di spesa pubblica (inclusi gli interessi sul debito) rispetto alle entrate dello stesso settore pubblico»[10]. Il debito pubblico, che è cioè il debito accumulato nel tempo dalle istituzioni della pubblica amministrazione, è dato dalla somma dei deficit, cioè dei disavanzi che si producono negli anni fra entrate e uscite. Nelle uscite vanno ricompresi gli interessi.
Accade, in altri termini, che gli Stati debbano periodicamente ricorrere ai mercati per rifinanziare il proprio debito. E lo fanno emettendo, a garanzia dei prestiti ricevuti, dei titoli con cui alla scadenza viene riconosciuto al prestatore un interesse. Ma ciò li obbliga a contrarre nuovi debiti per pagare appunto quelli in scadenza, in una perversa spirale senza fine in cui sono gli interessi a far lievitare il debito. Intanto, i creditori utilizzano i titoli del debito pubblico come valori circolanti e vendibili ben prima che arrivino a scadenza. In proposito, già Marx spiegava che in realtà «i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti»[11].
Come si vede, già nel XIX secolo Marx era in grado di delineare con estrema chiarezza due degli elementi che ancora oggi noi percepiamo al centro del tema del debito pubblico: i titoli di Stato attraverso cui esso viene rappresentato (le “obbligazioni facilmente trasferibili”) e il ruolo predominante delle banche (che Marx chiamava la “bancocrazia”). Ma la genialità della sua analisi sta nel fatto che Marx aveva compreso che «con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione originaria di questo o di quel popolo»[12].
Come aveva già spiegato ne “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”[13], «l’indebitamento dello Stato era … l’interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito era una nuova occasione di svaligiare il pubblico, che investe i suoi capitali in rendita dello Stato, mediante operazioni di Borsa al cui segreto erano iniziati il governo e la maggioranza della Camera. In generale la situazione instabile del credito pubblico e il possesso dei segreti di Stato offrivano ai banchieri e ai loro affiliati nelle Camere … la possibilità di provocare delle oscillazioni straordinarie improvvise, nel corso dei titoli di Stato; e il risultato costante di queste oscillazioni non poteva essere altro che la rovina di una massa di capitalisti più piccoli e l’arricchimento favolosamente rapido dei giocatori in grande».
La crisi capitalistica scoppiata nel 2007 ha mostrato che, nella sua fase agonica, il capitalismo scarica sulle spalle dei lavoratori il peso delle misure che mette in campo per contrastare la caduta del saggio di profitto. Così, la dominazione imperialista si esprime nel fatto che le classi subalterne sono obbligate a mantenere in vita il capitalismo, non solo e non tanto in epoca di benessere, ma soprattutto oggi, in epoca di crisi. In realtà, proprio l’attuale tappa della crisi è segnata da un crescente parassitismo, reso evidente dall’estrazione di una massa crescente di ricchezza in tutti i Paesi.
Man mano che la crisi avanza e l’investimento nella produzione cessa di essere una buona fonte di profitti per la borghesia, l’indebitamento progressivo dello Stato con il capitale finanziario – che costituisce una gran parte del debito pubblico – tende ad aumentare costantemente, al punto tale che l’attuale debito è impossibile da pagare se non al prezzo di un’intera epoca di profonda miseria per diverse generazioni di lavoratori, dell’annullamento pressoché totale di tutti i diritti sociali conquistati nel tempo e, in definitiva, dello smantellamento progressivo dell’apparato produttivo[14].
Il debito pubblico, insomma, rappresenta il principale strumento – insieme all’euro – di sottomissione dei popoli europei. I tagli dei bilanci statali, eufemisticamente definiti “aggiustamenti strutturali”, non trovano nessuna giustificazione nella crisi economica, né nei deficit, ma costituiscono invece il congegno di espropriazione dei bilanci pubblici per salvare le banche, come proprio la vicenda greca ha indubitabilmente mostrato[15].
Debito pubblico, euro e Unione europea: c’è una sola via d’uscita, rompere con l’Ue
Per contrastare la crisi di indebitamento, dunque, il capitale finanziario applica due misure combinate: l’espropriazione diretta del bilancio pubblico (con lo smantellamento e la privatizzazione dei servizi pubblici e delle pensioni) e l’aumento brutale dello sfruttamento dei lavoratori attraverso l’abbassamento dei salari, l’aumento dei ritmi e della giornata di lavoro, i licenziamenti facili, l’abolizione della contrattazione collettiva. Questo processo, ferocemente portato avanti utilizzando appunto i due strumenti della moneta unica e del debito pubblico nel quadro dell’Ue e delle sue istituzioni, rappresenta l’asse centrale dei piani di saccheggio del capitalismo.
Il debito è uno strumento per ottenere un grado di cambiamento strutturale per cui nulla sarà come prima per i lavoratori dei Paesi europei. Per questo, la lotta per il rifiuto del pagamento del debito deve andare di pari passo con la battaglia per espropriare le banche, fermare e invertire lo smantellamento dei servizi pubblici, abolire le controriforme del lavoro e ripartire il lavoro stesso. Ma queste misure implicano l’uscita dall’euro e la rottura con l’Ue.
L’Ue è, per come l’abbiamo finora esaminata, la piattaforma degli imperialismi centrali europei, egemonizzata dal capitalismo tedesco in associazione (non priva di contraddizioni) con l’imperialismo nordamericano, in cui i capitalismi periferici – come quello italiano – giocano il ruolo subalterno di soci di minoranza. Le condizioni della concorrenza internazionale e della divisione sociale del lavoro nell’Ue fanno sì che la sopravvivenza del decadente capitale finanziario italiano e degli altri capitalismi di secondo o terzo livello, e la loro collocazione nel mercato mondiale, dipendano dalla sua permanenza nell’Ue e nell’euro. Ma il prezzo per questa permanenza è enorme: la prospettiva, che per alcuni Stati come la Grecia si è già concretata, della soggezione tendenzialmente completa agli ordini della Troika, della disoccupazione massiccia e dell’imposizione di un nuovo standard di sfruttamento che non ha nulla da invidiare a quello di Paese semicoloniale.
Proprio perché le soluzioni prospettate da un versante riformista o, peggio ancora, sovranista, da parte di moltissime organizzazioni della sinistra italiana, costituiscono strade senza uscita, la rottura con l’Ue e l’uscita dall’euro sono assolutamente necessarie e debbono rappresentare la bandiera da agitare per i lavoratori. Senza di esse non c’è soluzione alla crisi.
Ma da sole non potranno risolvere nulla se non accompagnate dalle misure anticapitalistiche di base, necessarie per difendere il Paese dal boicottaggio estero:
- rifiuto del pagamento del debito, salvo il riconoscimento dei titoli posseduti dai piccoli risparmiatori;
- esproprio delle banche;
- nazionalizzazione di imprese e settori industriali strategici sotto controllo dei lavoratori;
- apertura dei libri contabili e abolizione del segreto commerciale;
- riconversione della produzione nel quadro di un piano economico centralizzato al servizio delle necessità più pressanti della popolazione relativamente all’alimentazione, alla sanità, ai trasporti, all’energia, all’abitazione;
- monopolio del commercio estero e controllo dei movimenti di capitale con la creazione di un’unica banca nazionale posta sotto il controllo dei lavoratori;
- riorganizzazione dell’economia riaprendo le imprese chiuse ed espropriando le terre in mano al latifondo affidandole alla gestione diretta di operai e contadini, ripartendo il lavoro esistente tra tutti i lavoratori;
- uscita dalla Nato e ritiro delle truppe impegnate in missioni all’estero; scioglimento dei corpi repressivi dello Stato e armamento del proletariato;
e, quel che è più importante, organizzando la solidarietà e la lotta unita con i lavoratori e le masse popolari del Sud e di tutta Europa. Perché senza distruggere tutti insieme l’Ue e costruire al suo posto un’Europa socialista dei lavoratori e dei popoli nessun Paese da solo potrà salvarsi.
Si tratta, a ben vedere, di un sistema di rivendicazioni transitorie che però pone la questione del potere, poiché non è nel quadro del capitalismo che i lavoratori troveranno la soluzione ai propri problemi. E la questione del potere rimanda all’unificazione dell’Europa dei lavoratori.
La prospettiva degli Stati uniti socialisti d’Europa
Il tema dell’unificazione del continente europeo ha rappresentato un fertile terreno di discussione da parte di rivoluzionari come Rosa Luxemburg, Lenin e Trotsky.
In un testo del 1911[16], Rosa Luxemburg ha spiegato molto approfonditamente che quella dell’unione dei Paesi europei (nel senso che ad essa attribuiscono le borghesie continentali) costituisce «un aborto imperialista», un’idea superata, sia in senso economico che politico. Ed è così non solo perché «all’interno dell’Europa si verificano tra i diversi Stati lotte concorrenziali e violenti antagonismi [che] continueranno a verificarsi fino a che quegli Stati esisteranno», ma anche perché «l’Europa è solo un anello dell’intricata catena di relazioni e contraddizioni internazionali» e «non costituisce un’unità economica speciale nell’economia mondiale più di quanto non la costituiscano l’Asia o l’America». Sicché, «ogni volta che i politicanti borghesi sbandierano la parola d’ordine dell’europeismo, dell’unione degli Stati europei, […] dobbiamo rispondere che non ne verrebbero a noi i vantaggi, ma alla borghesia»[17].
Nel 1915 Lenin, dal canto suo[18], ha specificato che «gli Stati uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari. […] In regime capitalistico, gli Stati uniti d’Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie. […] [Un] accordo fra i capitalisti europei […] soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie usurpate»[19].
È necessario, tuttavia, precisare che il profondo ripudio dei rivoluzionari per la caricatura di unità europea sotto l’imperialismo non sfocia affatto nella difesa della “patria” nazionale. Seguendo gli insegnamenti di Rosa Luxemburg, Lenin e Trotsky, deve perciò essere rivendicata la nascita degli Stati uniti socialisti d’Europa. L’intransigente difesa della rottura con l’Ue e dell’uscita dall’euro non deve confondersi minimamente con la difesa dello Stato nazionale: solo il proletariato può davvero unificare l’Europa nell’unione libera e volontaria degli Stati socialisti d’Europa.
E nel 1923 fu proprio Trotsky, a porre più di altri, con chiarezza, efficacia e forza questo problema, affinando e mettendo a fuoco con grande precisione la questione dell’unificazione dell’Europa. Non quella dei banchieri che conosciamo oggi, ma quella socialista dei lavoratori e dei popoli: «… Oggi, per l’Europa, si tratta di uscire dal vicolo cieco. Bisogna indicare una via d’uscita agli operai e ai contadini dell’Europa dilaniata e rovinata … Da questo punto di vista, la parola d’ordine degli ‘Stati Uniti d’Europa’ si colloca sullo stesso piano storico di quella del ‘governo operaio‑contadino’: è una parola d’ordine transitoria, che indica uno sbocco, una prospettiva di salvezza e, di conseguenza, è in grado di spingere le masse lavoratrici sulla strada della rivoluzione … Più le masse riprenderanno rapidamente fiducia nelle proprie forze e si raggrupperanno strettamente sotto la parola d’ordine delle repubbliche operaie e contadine d’Europa, più rapidamente si realizzerà lo sviluppo della rivoluzione in Europa … Gli ‘Stati Uniti d’Europa’ sono una parola d’ordine che, da tutti i punti di vista, corrisponde a quella di ‘governo operaio’ … Senza questa parola d’ordine … i problemi fondamentali dell’Europa resteranno in sospeso … Agli operai … che non sono comunisti, agli operai in generale e, in primo luogo, agli operai socialdemocratici che temono le conseguenze economiche della lotta per il governo operaio; agli operai … di tutta Europa, timorosi che l’instaurazione del regime operaio porti all’isolamento e alla decadenza economica dei loro Paesi, diciamo: un’Europa, anche se temporaneamente isolata …, non solo si manterrà, ma si solleverà e si rafforzerà … Gli ‘Stati Uniti d’Europa’ sono una prospettiva puramente rivoluzionaria, la prossima tappa della nostra prospettiva rivoluzionaria generale … una grande tappa storica, la prima di quelle che dobbiamo superare»[20].
Costruire il partito rivoluzionario nel tempo della crisi del sistema
Come abbiamo visto all’inizio di questo scritto, tra le varie posizioni che si sono manifestate a proposito della crisi determinata dal veto di Mattarella, che ha portato all’aborto dell’ipotesi di governo Di Maio‑Salvini, ce n’è una che ci pare particolarmente insidiosa nella sua apparente radicalità. Si dice, in altri termini: le istituzioni sovranazionali europee sono terrorizzate da quell’ipotesi – che sullo sfondo parrebbe contenere l’uscita dall’euro – sicché manifestano così la loro debolezza; dobbiamo approfittare di questa debolezza sostenendo questo piano per assestare loro un colpo che potrebbe essere determinante. Abbiamo definito “campista” questa posizione.
Vogliamo essere chiari: l’Unione europea – così come il capitalismo – non morirà di morte naturale. Dovrà essere un evento esterno a favorire questo processo, approfittando della profonda crisi in cui essa si dibatte. E se i lavoratori non sfrutteranno ogni occasione favorevole resteranno essi stessi schiacciati dalle convulsioni in cui le borghesie europee si dibattono per cercare di salvare la propria “creatura” e se stesse.
È vero. È in atto una forte contraddizione all’interno del campo borghese nella direzione che abbiamo descritto all’inizio di questo testo; e se questa contraddizione riverbera i suoi effetti sul capitale europeo ciò vuol dire che potenzialmente tale contrasto è il chiaro sintomo di una debolezza della borghesia continentale nelle sue varie articolazioni, indice a sua volta di una forte crisi politica dello stesso progetto dell’integrazione capitalistica europea che si sta dipanando nel quadro della terribile crisi economica del 2007‑2008 ancora in atto.
Ora, occorre considerare che il momento della crisi è quello di maggiore vulnerabilità del capitalismo, dal momento che, per uscirne, la borghesia ha come unica ricetta un aumento dello sfruttamento del proletariato: e ciò può aumentare l’intensità della lotta di classe. Ma se ciò non accade e il capitale riesce a scaricare i costi della crisi sulle classi subalterne, il sistema guadagna tempo per ristrutturarsi. Occorre anche considerare che, poiché la crisi si sviluppa internazionalmente, cresce pure il livello delle dispute intercapitalistiche.
Nel crogiolo dell’odierna situazione europea tutte queste tendenze determinate dalla crisi economica, contraddittorie tra sé, si stanno sempre più esacerbando riflettendosi su una grave crisi politica, di cui è impensabile per i rivoluzionari non approfittare. Però non si tratta qui di stare nel campo di una delle forze borghesi in disputa, ma di utilizzare le contraddizioni esistenti contribuendo ad acuirle[21].
Il problema della sinistra rivoluzionaria nell’Italia di oggi è che deve ricostruire pressoché da zero il proprio campo di intervento: per entrare sì in quelle contraddizioni interborghesi, ma con piena indipendenza di classe per poter mettere in piedi una potente risposta di massa.
Il tempo non gioca certamente a nostro favore, ma, come abbiamo accennato, senz’altro a favore delle classi dominanti. Perché il tempo è tutto in politica. Se il sistema riesce a ristrutturarsi, può farlo solo aumentando lo sfruttamento sulle classi subalterne: e ciò, dialetticamente, rappresenta un elemento di uscita dalla crisi, ma pure un ulteriore tassello della prossima crisi, poiché potenzialmente in grado di esacerbare la lotta di classe.
E allora, nel tempo che ci è concesso, il nostro compito è estremamente difficile. Ma deve basarsi, se vorremo svolgerlo utilmente per la classe lavoratrice, su un’analisi corretta della situazione complessiva, sia nazionale che internazionale, e dei rapporti di forza che si delineano sullo sfondo.
In questo quadro, la costruzione di un soggetto rivoluzionario con influenza di massa, intorno alla piattaforma programmatica che abbiamo più sopra delineato, deve costituire il nostro obiettivo.
[*] Dopo la pubblicazione di quest’articolo, l’impasse è stata tuttavia superata e il governo “giallo-verde” Lega-Cinque Stelle si è alfine insediato.
Note
[1] Ciò non significa che tra i voti che il 4 marzo sono confluiti nei loro due partiti non vi fossero quelli di una certa parte dei lavoratori e, in genere, di appartenenti alle fasce sociali più deboli: ne abbiamo parlato nell’articolo “Il voto del 4 marzo: analisi e bilancio”.
[2] Che è poi quella in cui “nuotano” forze come la Lega che nel tempo hanno guadagnato peso, come appare oggi ai nostri occhi.
[3] Scaricabile, tra le altre, dalla pagina web http://tinyurl.com/gtrj2qc.
[4] È quello che abbiamo potuto ad esempio verificare in Francia, dove lo stato d’eccezione promulgato dalle leggi antiterrorismo varate dopo gli attentati del 13 novembre 2015 è stato utilizzato per reprimere le manifestazioni di protesta, a partire da quelle contro l’approvazione della legge El Khomri, cioè l’equivalente del nostrano Jobs act (http://tinyurl.com/gtlelr3).
[5] Benché l’Italia rappresenti pur sempre la terza economia dell’Ue e la settima potenza imperialista del mondo.
[6] “Come Germania comanda”, Limes, n. 7/2015, pp. 139 e ss.
[7] Basti pensare che nel 2014 la Germania ha venduto all’estero il 45% del suo Pil, di cui il 57% all’interno dell’Ue (Dario Fabbri, “Geopolitica e grammatica: perché la Germania non può essere America”, Limes n. 7/2015, p. 118.) Le vendite all’estero della Germania nel 2015 sono state di 1.196 miliardi di euro, per cui l’avanzo commerciale tedesco è stato di 248 miliardi di euro (+6,4% sul 2014) e di 252,9 miliardi di euro nel 2016 (+1,2%). È assolutamente interessante, poi, rifarsi alla ricostruzione di The Economist, “The good and bad in Germany’s economic model are strongly linked”, 8/7/2017, secondo cui dietro al surplus tedesco c’è anche un accordo di decenni tra imprese e sindacati a favore di una compressione dei salari al fine di rendere più competitive le industrie esportatrici (https://tinyurl.com/y8bfysv5).
[8] «La Germania insiste nel perseguire una leadership che nessuno le chiede. L’ossessione per l’attivo commerciale danneggia le altre economie europee e semina ostilità̀»: così, Heribert Dieter, “I tabù di Berlino fanno male all’Europa”, Limes, n. 4/2018.
[9] “Comment l’euro va continuer à provoquer l’austérité”, http://tinyurl.com/nkglz5a.
[10] R. Ciccone, “Sulla natura e sugli effetti del debito pubblico”, in Oltre l’austerità, Micromega, 2012, pp. 79 e ss.
[11] K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, 1994, Libro I, sez. VII, cap. 24, p. 817.
[12] Karl Marx, op. cit., p. 818 (l’evidenziazione è nel testo originale).
[13] Cap. I, “La disfatta del giugno del 1848”.
[14] A marzo 2018 il debito pubblico italiano ha segnato un nuovo, poco invidiabile record: oltre 2.302 miliardi di euro (per chi fosse “affezionato” alla lira, si tratta dell’iperbolica cifra di più di quattro milioni seicentomila miliardi di vecchie lire!).
[15] Un studio svolto nel 2016 dall’European School of Management and Tecnhology, che ha sede a Berlino, ha rivelato che ben il 95% dei prestiti alla Grecia (pari a oltre 210 dei 220 miliardi di euro all’epoca concessi) è andato a finire nelle casse delle banche europee, mentre solo 9,7 miliardi sono entrati nelle casse dello Stato ellenico (http://tinyurl.com/zzehrdz).
[16] “Utopías pacifistas”, Obras escogidas, Editorial Antídoto, pp. 151‑152.
[17] Traduzione nostra. Sulla sezione italiana del Marxists Internet Archive si può trovare una brutta traduzione dall’inglese del testo di Rosa Luxemburg (http://tinyurl.com/jm58uon).
[18] V.I. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati uniti d’Europa, Opere, Edizioni Lotta comunista, vol. 21, pp. 312‑313.
[19] In una nota della redazione del Sotsial‑Demokrat sempre del 1915, anch’essa intitolata “Sulla parola d’ordine degli Stati uniti d’Europa” (e sempre pubblicata in V.I. Lenin, op. cit., p. 315), è ancor meglio chiarito che «la parola d’ordine degli “Stati uniti d’Europa” è errata sul piano economico. O è una rivendicazione irrealizzabile in regime capitalistico, poiché presuppone uno sviluppo armonico dell’economia mondiale mentre le colonie, le sfere d’influenza, ecc. sono divise fra diversi paesi. O è una parola d’ordine reazionaria, che significa un’alleanza temporanea delle grandi potenze d’Europa per una più efficace oppressione delle colonie e per la rapina del Giappone e dell’America, che si sviluppano più rapidamente». Quali doti di analisi e di preveggenza – sia pure con i dovuti aggiustamenti – oltre un secolo prima della realtà che stiamo oggi commentando!
[20] L. Trotsky, “Sull’opportunità della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”, in Europa e America, Celuc Libri, Milano, 1980, pp. 101 e ss.
[21] Del resto, Lenin lo aveva acutamente scritto: «Condurre la guerra per rovesciare la borghesia internazionale, guerra cento volte più difficile, lunga e intricata della più accanita delle guerre abituali tra gli Stati, e rinunciare in anticipo a manovrare, a sfruttare i contrasti (pur temporanei) tra i nemici, …, non è cosa infinitamente ridicola? […]. Si può vincere un nemico più potente soltanto con la massima tensione delle forze e all’immancabile condizione di utilizzare nel modo più diligente, accurato, cauto e abile ogni benché minima “incrinatura” tra i nemici, ogni contrasto di interessi tra la borghesia dei diversi Paesi, tra i vari gruppi e le varie specie di borghesia all’interno di ogni singolo Paese, […]. Chi non ha capito questo non ha capito un’acca né del marxismo né del moderno socialismo scientifico in generale. Chi non ha dimostrato nella pratica, per un periodo di tempo abbastanza lungo e in situazioni politiche abbastanza diverse, di saper applicare in concreto questa verità non ha ancora imparato ad aiutare la classe rivoluzionaria nella sua lotta di emancipazione di tutta l’umanità lavoratrice dagli sfruttatori» (V.I. Lenin, L’«estremismo» malattia infantile del comunismo, Opere, vol. 31, pp. 59‑60.). Ma è chiaro che Lenin non propugnava l’adesione a uno dei “campi” borghesi per poter sfruttare quelle “incrinature”: la bussola deve essere sempre l’indipendenza di classe e la piena autonomia dallo Stato e dai suoi governi.