Si sono svolte domenica 20 maggio le elezioni presidenziali in Venezuela, che hanno visto — come c’era da aspettarsi — la riconferma di Nicolás Maduro.
Nei prossimi giorni pubblicheremo un articolo di approfondimento del processo elettorale e delle sue conseguenze. Intanto però, considerando la gravissima crisi sociale che il Paese latinoamericano sta vivendo, presentiamo qui un saggio di Manuel Sutherland, pubblicato sulla rivista Nueva Sociedad, n. 274, marzo-aprile 2018 (ISSN: 0251–3552), che descrive il quadro economico venezuelano, analizzandolo dal punto di vista marxista e facendo giustizia di certe letture che la sinistra riformista internazionale propone, a dispetto della realtà dei fatti.
Ringraziamo l’Autore per averci consentito di pubblicare in italiano il suo testo.
Buona lettura.
La redazione
La rovina del Venezuela non è dovuta al “socialismo” o alla “rivoluzione”
Più che una trasformazione socialista (o sviluppista), l’economia venezuelana ha sperimentato un massiccio trasferimento di reddito in favore del capitale importatore e verso una casta militare‑burocratica che vive a spese delle casse statali mediante la sopravvalutazione del bolívar e le importazioni fraudolente per lucrare sui tassi di cambio agevolati. Il processo bolivariano è stato piuttosto una variante del modello basato sulla rendita del petrolio che era già stato registrato durante il primo governo di Carlos Andrés Pérez (1974–1979). Più che alle classiche rivoluzioni socialiste, il progetto bolivariano assomiglia a un nazional-populismo militarista.
Manuel Sutherland [*]
Solo per poche persone è ormai un segreto che il Venezuela sta vivendo la crisi più profonda della sua storia. Per il quarto anno consecutivo, il Paese registrerà l’inflazione più alta del mondo (stimata intorno al 2.616% per il 2017[1]). Nel gennaio 2018 l’inflazione ha raggiunto il 95% e l’inflazione annualizzata è stata del 4.520% (5.605% per gli alimenti, secondo lo studio di Econometric)[2]. Così, il Paese è entrato a pieno nell’iperinflazione e assiste con stupore che all’aumento di giorno in giorno dei prezzi.
Il Venezuela ha anche un deficit fiscale a due cifre (almeno per il sesto anno consecutivo), il più alto rischio Paese nel mondo, riserve internazionali più basse degli ultimi 20 anni (meno di 9.300 milioni di dollari) e una carenza spaventosa di merci e servizi essenziali (cibo e medicinali). Il valore del dollaro parallelo (che serve a fissare quasi tutti i prezzi nell’economia) è aumentato di oltre il 2.500% nel 2017, il che ha completamente disintegrato il potere d’acquisto della popolazione[3]. In questo disgraziato panorama, il Venezuela costituisce il miglior “argomento” per le destre più reazionarie. In qualsiasi ambito mediatico si approfitta della situazione per spaventare i cittadini con domande come: «Vuoi il socialismo? Vai in Venezuela e guarda la miseria!». «Vuoi un cambiamento? Guarda come un’altra rivoluzione distrugge un paese prospero!». Sofisticati analisti affermano che le politiche socialiste hanno rovinato il Paese e che la soluzione è un rovesciamento in senso ultraliberale della rivoluzione.
In queste righe, vorremmo dimostrare che la politica economica bolivariana è ben lungi dall’essere “socialista” o addirittura “sviluppista”. Ciò che è balza agli occhi è un processo di grave deindustrializzazione a favore di una casta di importatrice‑finanziaria che, con discorsi infiammati e un forte clientelismo popolare, ha accelerato notevolmente la fase depressiva del ciclo economico capitalista di un processo nazionale di accumulazione di capitale basata sull’appropriazione della rendita derivante da idrocarburi.
Il ciclo economico e l’aumento delle materie prime
Il ciclo economico in Venezuela può essere osservato nella sua manifestazione più immediata: le variazioni inter‑annuali del Pil . Il grafico 1 mostra forti distorsioni del ritmo di crescita dell’economia, con energici cicli di espansione e caduta che determinano l’estrema volatilità della produzione, che a sua volta riflette la forte variabilità dei prezzi del petrolio. L’“oro nero” rappresenta circa il 95% delle esportazioni negli anni di auge dei prezzi (2012) e circa il 65% negli anni in cui il prezzo del petrolio è “bassa” (1998)[4], vale a dire, quando la rendita è bassa e gli idrocarburi offrono un profitto simile a quella di una produzione industriale “normale”.
Il grafico 1 mostra anche che i cicli recessivi nell’economia cominciano a succedersi a partire dagli anni 80. I primi anni di questo periodo hanno evidenziato la forte influenza della cosiddetta “crisi del debito” che ha soffocato molti Paesi e si è manifestata con un forte calo degli indici dei prezzi delle materie prime. Nel primo anno del periodo bolivariano, il Pil mostrava un forte calo attribuito al basso prezzo del petrolio (circa 9 dollari al barile) e, forse, all’incertezza spiegata dall’avvento di un nuovo governo che prometteva grandi cambiamenti. Successivamente, i prezzi del petrolio moderati si intrecciano con un colpo di Stato che rovesciò per quasi due giorni, l’11 aprile 2002, l’allora presidente Hugo Chávez. Il colpo di Stato fu accompagnato da una massiccia serrata padronale che vide l’adesione di quasi tutti gli imprenditori locali. Il Pil eccezionalmente basso per il 2003 fu dovuto più a fattori extra‑economici (di fatto politici) che a ragioni di natura economica. Ciò portò a un forte salto nella crescita nel 2004 (18%), che sembrava più un rimbalzo dell’economia.
Il grafico 1 rivela anche che l’economia nel periodo 2005–2008 crebbe a tassi molto elevati (circa l’8% su base annua), sospinta da un favoloso boom delle entrate petrolifere che ha moltiplicato le entrate delle esportazioni per più di tre volte. Il “periodo d’oro” dell’economia coincide con il momento in cui il movimento politico bolivariano si mostra più aggressivo, inizia a parlare di “socialismo del XXI secolo” (2005), lancia piani di integrazione commerciale (l’Alleanza bolivariana per i Popoli della Nostra America, la c.d. Alba) e intraprende un processo di nazionalizzazione di alcune grandi aziende industriali e di servizi, in settori quali il cemento, l’acciaio, le telecomunicazioni, il settore bancario e minerario. Ma il brusco calo dei prezzi del petrolio alla fine del 2008 e per tutto il 2009, che rifletteva i colpi della crisi globale del 2007‑2008, stroncò sul nascere ambizioni politiche più alte. Nel 2011 si registrò una ripresa nel percorso di crescita economica derivante da un ulteriore aumento dei prezzi del petrolio, passato da 35 dollari al barile (2009) a 120 dollari tra il 2011 e il 2013. Ma nel 2014–2015 il prezzo del petrolio iniziò a scendere. Solo il ritmo aumentato su base annua della spesa pubblica e l’ipertrofia delle importazioni fanno sì che i prezzi del petrolio cinque o sei volte più alti di quelli osservati all’inizio degli anni 2000 ora appaiano “bassi”. In questi ultimi anni comincia la contrazione delle importazioni e il calo nella fornitura di beni e di servizi, e diventano visibili i risultati di un processo di deindustrializzazione che, in favore di una foga importatrice, è giunto a sovvenzionare (con la sopravvalutazione del tasso di cambio) il 99,9% delle importazioni di prodotti come latte liquido, cemento o benzina, oltre ai lavoratori (cinesi) per costruire case.
L’espansione della rendita è durata per un tempo eccezionalmente lungo e in essa si sono approfonditi i mali che le improvvise esplosioni nelle entrate petrolifere hanno comportato. L’industria e l’agricoltura sono diminuite, falciate da un tasso di cambio grossolanamente sopravvalutato[5]. Le importazioni erano estremamente a buon mercato, tanto da scoraggiare qualsiasi sforzo produttivo industriale o agricolo. Questa politica non ha nulla a che fare con il “socialismo reale”, né con lo sviluppo di forze produttive proclamato da Karl Marx. Stato e uomini d’affari si sono gettati a capofitto nel compito di esportare le entrate petrolifere sulla base di importazioni accresciute e fortemente sovvenzionate, la fuga di capitali salì alle stelle e l’indebitamento estero si ingigantì a tassi di interesse onerosi (per esportare la futura rendita).
In che modo la rendita petrolifera si è liquefatta nelle importazioni
La carenza di beni di prima necessità è stata anche il risultato di una vigorosa esportazione di capitali che ha ridotto la capacità di investimento produttivo, grazie a un’enorme sopravvalutazione della moneta. Questa politica monetaria non è altro che un inaudito trasferimento di rendita petrolifere dallo Stato “socialista” agli importatori, che ricevono molti più dollari di quelli che dovrebbero acquisire per i bolívar che erogano. Ciò significa che ogni volta che il governo ha venduto 10 dollari, stava regalando loro (almeno) 9,5 dollari. Questo lucroso trasferimento di rendita al settore privato è l’affare più costoso e dannoso per la nazione che si possa immaginare. Ma peggio ancora è stato il fatto che le presunte merci acquistate con questi dollari “regalati” hanno in gran parte rappresentato un’enorme frode, poiché la maggior parte di quei beni non è mai entrata nel Paese.
Nel grafico 2, si vede più in dettaglio che l’enorme boom delle esportazioni del Venezuela, facilitato dal moltiplicarsi per oltre dieci del prezzo del petrolio, è stato accompagnato da un insaziabile boom delle importazioni. Queste, che nel 2003 toccavano a mala pena i 14 miliardi di dollari (valore Cif), raggiunsero nel 2012 gli 80 miliardi[6]; e, benché il 70% di esse era presumibilmente orientata verso investimenti produttivi, ciò non si è tradotto in un corrispondente aumento della produzione. L’aumento del 457% delle importazioni (valore Cif) per il periodo 2003‑2012 mostra che il ritmo delle importazioni è stato chiaramente gonfiato e senza nessuna prospettiva di risparmio rispetto a un possibile declino del ciclo economico derivato da un atteso calo dei prezzi del petrolio. In effetti, l’aumento delle esportazioni per lo stesso periodo è stato del 257%, molto inferiore all’aumento delle importazioni.
Se si osservano i termini di scambio applicati alle esportazioni non petrolifere venezuelane, si si può verificare che il prezzo pagato per ogni chilogrammo esportato di merci è aumentato solo dell’11% (1998–2014), il che non giustifica un incremento così forte nei prezzi delle importazioni[7]. Lungi dal favorire l’industria nazionale – statale o privata – il governo si è affannato a soddisfare esigenze diverse a forza di importazioni massicce. Ad esempio, il settore pubblico ha aumentato del 1.033% le importazioni tra il 2003 e il 2013, con aumenti annuali che hanno raggiunto il 51% (2007), piuttosto che investire nella creazione di proprie imprese.
Le frodi nelle importazioni
Le importazioni fraudolente sono una parte importante dell’esportazione delle rendite petrolifere. In un altro lavoro abbiamo spiegato quel meccanismo[8]. Qui faremo solo un riassunto incentrato su un elemento essenziale: la carne. L’aumento delle importazioni (valore Fob) delle carni per il periodo compreso tra il 2003 (inizio del controllo dei cambi) e il 2013 è stato del 17.810%. Sì, oltre il 17.000%. La “cosa sorprendente” è che il consumo nazionale medio di carne è diminuito del 22% per lo stesso periodo, come abbiamo già spiegato in un lavoro dedicato esclusivamente all’importazione di prodotti a base di carne[9]. Dall’importazione di soli 10 milioni di dollari all’anno, si è passati a importare più di 1.700 milioni di dollari. Per non dire che da mesi regolarmente non si trova la carne nei supermercati[10]. Come se non bastasse, si può vedere che tra il 1998 e il 2013 l’aumento dell’importazione (valore Fob) di animali vivi è stato del 2.280%. Nello stesso anno, il valore Fob delle esportazioni di animali vivi è sceso del 99,78% (solo 4.300 dollari)[11]. Sono note le denunce di importazioni di “favolose” macchine falciatrici del valore di 12.000 dollari e marchingegni per lavorare pollame per 2 milioni di dollari: quando la gendarmeria doganale controllò il container, trovò solo attrezzi arrugginiti[12]. La rinomata società di consulenza Ecoanalítica ha stimato che dal 2003 al 2012, 69.500 milioni di dollari sono stati rubati tramite importazioni fraudolente. Gli esportatori della zona franca di Panama hanno “fatturato” 1,4 miliardi di dollari in spedizioni in Venezuela; tuttavia, i funzionari panamensi dicono che di tale importo, 937 milioni erano fraudolenti: le società fatturavano prodotti inesistenti. In altri casi documentati, una società che ha importato macchine per l’agricoltura dichiarò il costo di una macchina per trebbiare il grano in 477.750 dollari, quando invece il suo vero prezzo era di 2.900 dollari[13].
Un’estrema sintesi riguardo a politiche economiche lontane dal socialismo
Molto brevemente, si potrebbe affermare che:
1. le nazionalizzazioni sono state, in generale, affari redditizi per la borghesia locale. Nella stragrande maggioranza dei casi, lo Stato ha pagato molto per società tecnicamente obsolete. Un esempio significativo è dato dalla nazionalizzazione del Banco de Venezuela: per il 51% delle azioni acquistate, lo Stato ha pagato 1.050 milioni di dollari, benché la banca fosse stata acquisita dal Gruppo Santander (93% del capitale) per meno di 300 milioni di dollari;
2. la tanto necessaria “riforma fiscale” rimane in sospeso. Secondo la Commissione economica per l’America latina e i Caraibi (Cepal), i Paesi che hanno registrato i maggiori incrementi dal 1990 nel loro reddito fiscale medio rispetto al Pil sono stati la Bolivia (20,6 punti percentuali) e l’Argentina (18,8), mentre il Venezuela ha registrato un calo di 4,5 punti percentuali[14].
3. Meno “socialista” è stata la frammentazione del capitale in dozzine di istituzioni finanziarie scarsamente capitalizzate e dalla notevole inefficienza. Il frazionamento della banca statale è stato accompagnato da una politica creditizia a basso costo, che si scontra con l’idea delirante della “guerra economica”. Diciamo questo perché se il governo afferma che gli imprenditori sabotano l’economia producendo di meno, vendendo prodotti costosi e nascondendo i loro prodotti, è assurdo e contraddittorio che poi li finanzi con crediti milionari a un tasso di interesse negativo. Come giustificare il munifico regalo a coloro che presumibilmente realizzano la “guerra economica”?
Ci sono molti esempi di questi “regali” (oltre al tasso di cambio preferenziale). Recentemente, il vicepresidente Tareck El Aissami ha spiegato: «L’obiettivo è di iniettare nel settore privato 10.000 miliardi di bolívares in prestiti nel primo semestre del 2018, il che rappresenterà quasi un terzo del bilancio nazionale»[15]. Inoltre, lo Stato presta dollari alla borghesia: per esempio, Nestlé ha ricevuto un prestito di 9 milioni di dollari e Ron Santa Teresa, 4 milioni[16]. Di recente, Maduro ha approvato alla chiusura dell’Expo Venezuela Potencia un altro credito di 25 milioni di dollari a diverse imprese venezuelane;
4. il Pil industriale ha registrato un significativo incremento (2004–2008), per poi decrescere a livelli inferiori a quelli del 1997, situazione preoccupante che potrebbe essere considerata paradossale prima vista, dal momento che negli anni di crescita elevati (2004‑2008) l’importazione di macchinari e attrezzature industriali (formazione lorda di capitale fisso) è aumentata di cinque volte. Un processo di industrializzazione statale massiccia e su larga scala è alla base di ogni governo che si vanta di essere sviluppista o socialista, ma in Venezuela è stato fatto l’opposto.
Molte delle serie ufficiali di dati sulla produzione industriale fisica disponibili (febbraio 2018) terminano nel 2011. Se analizziamo la produzione di automobili con dati recenti, possiamo vedere che l’arretramento è stato straordinario. Tra il 2007 e il 2015, questa produzione è crollata di un impressionante 89%; la cifra per il 2015 è quasi al basso livello registrato nel 1962, quando l’industria automobilistica era formalmente nata e vennero assemblati 10.000 veicoli. Dal 2007, anno in cui sono state assemblate 172.418 unità, l’industria automobilistica è crollata: nel 2015 ha raggiunto il peggior livello in 53 anni e ha assemblato solo 18.300 unità[17]. Secondo Cámara Automotriz Venezuela e la Federazione delle industrie di autoricambi del Venezuela, l’assemblaggio di veicoli di montaggio è crollato fino a 2.694 unità, l’83% in meno rispetto agli stessi undici mesi del 2015[18].
Stipendi, impoverimento e prospettive
In sintesi, si è visto che non si tratta del fallimento delle misure economiche che troviamo nei testi di Marx o partorite dalla Rivoluzione russa. In alcuni elementi specifici, è stato osservato che la politica economica bolivariana non ha nulla a che fare con un cambiamento rivoluzionario anticapitalista, né con una metamorfosi dei rapporti sociali di produzione. Il processo bolivariano è stato piuttosto una variante delle politiche economiche derivanti dal modello basato sulla rendita del petrolio, già sperimentato nel primo governo di Carlos Andrés Pérez (1974‑1979). La componente ideologica e alcuni discorsi di stampo antimperialista e anticapitalista confondono la maggioranza degli analisti, che studiano i discorsi dei presidenti invece delle loro politiche specifiche.
Sebbene il governo bolivariano abbia espanso la spesa sociale, nazionalizzato imprese, sviluppato politiche di trasferimenti diretti ai più poveri e concesso enormi sussidi ai servizi pubblici, la sua politica economica in altro non si è centrata se non nella continuazione radicalmente parassitaria dell’appropriazione della rendita petrolifera e del suo sperpero, con l’aggravarsi del consolidamento delle politiche di “controllo” che hanno solo accelerato i processi di distruzione dell’agricoltura, dell’industria e del commercio a favore dell’arricchimento del capitale importatore‑finanziario e dell’ingrasso di una casta militare‑burocratica ipercorrotta che saccheggia a piene mani la nazione, fino a impoverirla a livelli mai visti prima a queste latitudini.
L’ultimo grafico presentato rivela il risultato diretto della politica di saccheggio della rendita attraverso la sopravvalutazione della moneta, l’emissione di moneta inorganica (il governo ha aumentato la base monetaria di oltre il 2.500.000% tra il 1999 e il 2018) come politica utile per sostenere una spesa pubblica utilizzata in modo clientelare e anarchico. Il grafico 3 riflette il calo dell’83% tra il 2006 e il 2017 del salario minimo mensile (stipendio più tessera annonaria) pagato alla classe lavoratrice. La sinistra mondiale non deve tacere le sue critiche, né avanzare in maniera forzata stravaganti e nostalgiche difese al fine di “non confondersi con la destra” in un’analisi rigorosa del processo nazionale di accumulazione del capitale in Venezuela. La sinistra deve criticare i “progressismi” con la stessa sagacia e acutezza che applica a regimi apertamente antioperai e di destra. Non deve ignorare la centralità dei problemi che si verificano in questi Paesi, ma deve collaborare senza esitare con proposte flessibili: e ciò lo si può fare attraverso l’analisi oggettiva e la critica con metodo dialettico, non con le scomuniche. Se il Titanic affondò, non si deve negare il fatto concreto del naufragio in nome della solidarietà e dell’antimperialismo.
(Traduzione di Ernesto Russo)
Note
[1] “AN: Inflación acumulada de 2017 cerró en 2.616%”, El Nacional , 8/1/2018.
[2] Andreína Vargas: “Econométrica: la inflación de enero alcanzó el 95,3%”, El Tiempo, 1/2/2018.
[3] M. Sutherland: “El desastre monetario en Venezuela, billetes de Bs. 100, inflación y una alternativa”, in Alemcifo , 22/2/2017.
[4] Informazioni statistiche, Banca Centrale del Venezuela (Bcv), disponibili su www.bcv.org.ve/c2/indicadores.asp.
[5] Juan Kornblihtt: “El creciente peso del Estado en el comercio exterior venezolano como expresión de la contracción de la renta petrolera y la agudización de la disputa por la misma”, Ceics, 2015, inedito; M. Sutherland: “Venezuela sin fondo … y sin alternativas”, edizione digitale Nueva Sociedad, 2/2017, disponibile su www.nuso.org.
[6] Commercio estero, Istituto nazionale di statistica (INE), 2014.
[7] Ibidem.
[8] M. Sutherland: “La enorme escasez de medicinas y la gran estafa en su importación: Farmafraude”, Aporrea, 11/3/2015.
[9] M. Sutherland: “Aumento del 21.693,21% en la importación de carne, caída del consumo y escasez de la misma”, Aporrea, 28/8/2014.
[10] Martha Mejías: “Advierten escasez de carne consecuencia de los bajos precios que fijó la Sundde”, El Venezolano News, 2/22/2015.
[11] M. Sutherland: “Aumento del 21.693,21% en la importación de carne, caída del consumo y escasez de la misma”, cit.
[12] William Newman e Patricia Torres: “Importadores malversan millones en Venezuela y hunden la economía”, The New York Times, 5/5/2015.
[13] Ibidem.
[14] Rocío Montes: “La presión fiscal en América Latina sigue lejos de la media de la Ocde”, El País, 3/10/2015.
[15] “(Video) Empresarios reciben hoy de manos del gobierno 3,7 billones de bolívares en crédito”, Punto de Corte (https://tinyurl.com/y9u32vss).
[16] “Estas son las nuevas empresas que recibieron millonarios créditos del Gobierno”, Notitotal, 23/3/2017.
[17] Kon Zapata e Roberto Deniz: “La industria automotriz de Venezuela retrocede a cotas de 1962”, América Económica, 26/1/2016.
[18] Favenpa: “Boletín Estadístico No 57/2016. Resumen de ventas de vehículos. Octubre 2016”, 11/8/2016.
[*] Manuel Sutherland è Direttore del Centro di Ricerca e Formazione operaia (CIFO)