Il tratto davvero incontestabile della rivoluzione è l'irruzione violenta delle masse negli avvenimenti storici (L.D. Trotsky, Storia della rivoluzione russa)

Teoria

La concezione marxista di classe operaia

Operai della Breda di Sesto San Giovanni

«Gran­de è la con­fu­sio­ne sot­to il cie­lo. La situa­zio­ne è eccel­len­te», dice­va un per­so­nag­gio sto­ri­co tan­to lon­ta­no da noi e dai prin­ci­pi teo­ri­ci del mar­xi­smo rivo­lu­zio­na­rio che venia­mo espo­nen­do in que­sto Blog. Ma non è solo per l’enorme distan­za che ci sepa­ra da quel per­so­nag­gio che rite­nia­mo pro­fon­da­men­te sba­glia­ta la fra­se in que­stio­ne. Il fat­to è che la con­fu­sio­ne ren­de in gene­re una situa­zio­ne tutt’altro che eccel­len­te. Quan­do poi la con­fu­sio­ne ha a che fare con la teo­ria, allo­ra la situa­zio­ne è sicu­ra­men­te pessima.
Pren­dia­mo ad esem­pio la cri­si che vive la sini­stra ita­lia­na. Tan­te orga­niz­za­zio­ni han­no nel pro­prio pro­gram­ma il pro­po­si­to di costrui­re o rico­strui­re un par­ti­to che pos­sa rivol­ger­si alla clas­se lavo­ra­tri­ce per orga­niz­zar­la e diri­ger­la ver­so un obiet­ti­vo di tra­sfor­ma­zio­ne di que­sta socie­tà. Tut­ta­via, pro­prio la con­fu­sio­ne teo­ri­ca che le attra­ver­sa lo impe­di­sce: capi­ta, infat­ti, di veder­ne alcu­ne (in par­ti­co­la­re, quel­le rifor­mi­ste) che, per ave­re da anni per­so il con­tat­to con le mas­se ope­ra­ie, si indi­riz­za­no oggi a un indi­stin­to “popo­lo”; altre, inve­ce, che, pur richia­man­do­si ai prin­ci­pi del mar­xi­smo, han­no matu­ra­to una visio­ne estre­ma­men­te restrit­ti­va di clas­se ope­ra­ia, pra­ti­ca­men­te fer­ma all’epoca in cui Engels scri­ve­va sul­la situa­zio­ne in cui ver­sa­va quel­la inglese.
È chia­ro che entram­be que­ste con­ce­zio­ni, deter­mi­nan­do una “gran­de con­fu­sio­ne sot­to il cie­lo”, pro­du­co­no una situa­zio­ne che non è affat­to “eccel­len­te”, ma appun­to pes­si­ma rispet­to a quel pro­po­si­to e a quell’obiettivo.
E allo­ra, pro­prio per­ché l’analisi mar­xi­sta richie­de pre­ci­sio­ne e non cer­to “con­fu­sio­ne”, abbia­mo rite­nu­to oppor­tu­no pub­bli­ca­re qui un rigo­ro­so e appro­fon­di­to sag­gio del­lo stu­dio­so mar­xi­sta Rolan­do Asta­ri­ta sul­la con­ce­zio­ne mar­xi­sta di clas­se operaia.
Ben­ché pub­bli­ca­to in ori­gi­ne nel 2001, il testo non risen­te affat­to del tem­po tra­scor­so. Anzi, alcu­ni dei feno­me­ni ana­liz­za­ti, e che allo­ra era­no solo del­le ten­den­ze, sono sta­ti con­fer­ma­ti nell’attualità. Nel tra­dur­lo in ita­lia­no abbia­mo omes­so sol­tan­to poche par­ti che si rife­ri­sco­no a temi con­giun­tu­ra­li e per lo più lega­ti alla situa­zio­ne poli­ti­ca nell’Argentina dell’epoca a cui risa­le lo scritto.
Buo­na lettura.
La redazione

La concezione marxista di classe operaia


Rolan­do Astarita [*]

(in col­la­bo­ra­zio­ne con David Ato)

Pub­bli­ca­to in Deba­te Mar­xi­sta n. 3, secon­da serie, mag­gio 2001.

 

Nel Mani­fe­sto Comu­ni­sta Marx ed Engels ipo­tiz­za­ro­no che la socie­tà capi­ta­li­sta avreb­be mani­fe­sta­to la ten­den­za a divi­der­si in due gran­di clas­si anta­go­ni­ste, la clas­se capi­ta­li­sta e la clas­se ope­ra­ia; che i set­to­ri infe­rio­ri del­le anti­che clas­si medie sareb­be­ro cadu­te nel­le file del­la clas­se ope­ra­ia, sia per­ché non avreb­be­ro potu­to soste­ne­re la con­cor­ren­za con i gran­di capi­ta­li, sia per­ché le loro abi­li­tà pro­fes­sio­na­li avreb­be­ro per­so valo­re rispet­to ai meto­di avan­za­ti di pro­du­zio­ne; che lo stes­so svi­lup­po dell’industria capi­ta­li­sta avreb­be gene­ra­to una clas­se ope­ra­ia sem­pre più omo­ge­nea, la qua­le, lun­gi dall’elevarsi col pro­gres­so dell’industria, sareb­be sta­ta con­dot­ta alla mise­ria e alla pover­tà[1]. Duran­te il resto del­la loro vita, Marx ed Engels modi­fi­ca­ro­no mol­to poco que­sta visio­ne. For­se, il cam­bio più impor­tan­te è quel­lo rela­zio­na­to alla que­stio­ne del­la mise­ria. Nell’opera suc­ces­si­va al Mani­fe­sto, Marx si rife­ri­rà alla cre­sci­ta del­la mise­ria rela­ti­va – non asso­lu­ta – in quan­to ten­den­za sto­ri­ca; e dell’approfondimento in ter­mi­ni asso­lu­ti del­la mise­ria per le mas­se che sono get­ta­te nel­la disoc­cu­pa­zio­ne, sia per la cre­sci­ta del­la mec­ca­niz­za­zio­ne, sia per le perio­di­che cri­si di sovrac­cu­mu­la­zio­ne[2]. La tesi del­la pola­riz­za­zio­ne cre­scen­te del­la socie­tà in due gran­di clas­si, e dell’omogeneizzazione cre­scen­te del­la clas­se ope­ra­ia, fu soste­nu­ta da Marx ed Engels in tut­ta la loro ope­ra matura.
Nel tem­po tra­scor­so dal­la mor­te di Marx, quest’approccio è sta­to il ber­sa­glio pre­fe­ri­to dei cri­ti­ci del mar­xi­smo. Costo­ro sosten­go­no che, lun­gi dal pola­riz­zar­si, la socie­tà capi­ta­li­sta ha dato luo­go al sor­ge­re di un’estesa clas­se media, che in nes­sun modo può esse­re con­si­de­ra­ta “pro­le­ta­ria”[3]; che, lun­gi dall’omogeneizzarsi, la clas­se ope­ra­ia ha spe­ri­men­ta­to un pro­ces­so di cre­scen­te dif­fe­ren­zia­zio­ne. Inol­tre, negli ulti­mi anni si sostie­ne che, a par­ti­re dai nuo­vi siste­mi di orga­niz­za­zio­ne del lavo­ro, que­sto pro­ces­so di dif­fe­ren­zia­zio­ne si sareb­be inten­si­fi­ca­to, al pun­to che alcu­ni par­la­no di fram­men­ta­zio­ne e seg­men­ta­zio­ne strut­tu­ra­li; ciò por­te­reb­be al com­ple­to annul­la­men­to del­le capa­ci­tà rivo­lu­zio­na­rie del­la clas­se ope­ra­ia. Altri aggiun­go­no che le tec­no­lo­gie infor­ma­ti­che avreb­be­ro fat­to posto a una socie­tà “post‑industriale”, in cui la pro­prie­tà del­la cono­scen­za, e non quel­la dei mez­zi di pro­du­zio­ne, sareb­be il fat­to­re deci­si­vo per defi­ni­re le clas­si sociali.
Da un’altra pro­spet­ti­va, alcu­ni auto­ri aggiun­go­no la que­stio­ne dell’arretramento poli­ti­co del­la clas­se ope­ra­ia e la per­di­ta di una coscien­za sto­ri­ca dei suoi inte­res­si, in quan­to dif­fe­ren­zia­ti dal resto del­le clas­si socia­li. Sosten­go­no che non si può par­la­re di clas­se socia­le se que­sta coscien­za non esi­ste, e che per­tan­to la clas­se ope­ra­ia sareb­be scom­par­sa, di fat­to, non solo a cau­sa dei muta­men­ti socia­li ogget­ti­vi, ma anche a cau­sa del­la svol­ta poli­ti­ca che si è ope­ra­ta negli ulti­mi anni pra­ti­ca­men­te nel mon­do intero.
In con­se­guen­za di que­ste posi­zio­ni – com­bi­na­te in diver­se dosi e for­me – il pro­get­to socia­li­sta avreb­be per­so ragion d’essere.
Non c’è da sor­pren­der­si, dun­que, che negli ulti­mi anni tali que­stio­ni sia­no ripe­tu­ta­men­te appar­se sui media e rap­pre­sen­ti­no un tema scot­tan­te nei dibat­ti­ti del­la sini­stra e del pro­gres­si­smo. Che cosa sia la clas­se media, come deb­ba­no esse­re con­si­de­ra­ti i lavo­ra­to­ri dei “ser­vi­zi”, qua­le dina­mi­ca pre­sen­ti oggi la fram­men­ta­zio­ne del­la clas­se ope­ra­ia indu­stria­le, come si deb­ba carat­te­riz­za­re social­men­te il “lavo­ro in con­to pro­prio”, sono pun­ti noda­li del dibat­ti­to. Per­si­no alcu­ne orga­niz­za­zio­ni del­la sini­stra – in Argen­ti­na, noto­ria­men­te il Mas – han­no rite­nu­to neces­sa­rio abban­do­na­re la defi­ni­zio­ne clas­si­ca di clas­se ope­ra­ia di Marx per adat­tar­si “ai tem­pi moderni”.
In que­sto testo ci pro­po­nia­mo di discu­te­re il tema, par­ten­do da un esa­me del­la posi­zio­ne di Marx sul­la rela­zio­ne di clas­se, per giun­ge­re poi ad affron­ta­re alcu­ni dei pro­ble­mi posti.

Deter­mi­na­zio­ne poli­ti­ca o socia­le ogget­ti­va di clas­se operaia
Di segui­to adot­te­re­mo un cri­te­rio di deter­mi­na­zio­ne di clas­se ope­ra­ia che pos­sia­mo chia­ma­re “ogget­ti­vo”, o “socia­le”; cioè che la clas­se ope­ra­ia è il pro­dot­to del­lo svi­lup­po del siste­ma capitalistico.
Sia­mo con­sa­pe­vo­li che que­sta scel­ta teo­ri­ca susci­te­rà il rifiu­to di colo­ro che – seguen­do Thomp­son – sosten­go­no che la deter­mi­na­zio­ne del­la clas­se ope­ra­ia ha a che fare con la poli­ti­ca, con la coscien­za e le sue lot­te. Com’è noto, Thomp­son rifiu­ta ciò che defi­ni­sce cate­go­ria “sta­ti­ca” o “socio­lo­gi­ca” nel­la deter­mi­na­zio­ne del­le clas­si socia­li (impa­ren­ta­ta, secon­do lui, «con la teo­ria socio­lo­gi­ca posi­ti­vi­sta») e sostie­ne che «ci sono clas­si per­ché le per­so­ne si sono ripe­tu­ta­men­te com­por­ta­te in modo clas­si­sta»[4]; dato che le clas­si non esi­ste­reb­be­ro indi­pen­den­te­men­te dal­le loro lot­te sto­ri­che, il con­cet­to di lot­ta di clas­se dovreb­be esse­re pre­e­si­sten­te rispet­to a quel­lo di clas­se socia­le[5].
Rite­nia­mo che que­sto cri­te­rio por­ti a con­trad­di­zio­ni logi­che insor­mon­ta­bi­li. Il fat­to è che, secon­do quest’approccio, i capi­ta­li­sti oggi for­me­reb­be­ro una clas­se socia­le, dal momen­to che han­no coscien­za dei loro inte­res­si di clas­se e lot­ta­no per impor­li[6]. Ma d’altro lato, attual­men­te è impos­si­bi­le par­la­re dell’esistenza di una “coscien­za di clas­se ope­ra­ia”, poi­ché in nes­sun Pae­se esi­sto­no par­ti­ti che ne espri­mo­no gli inte­res­si; i lavo­ra­to­ri non vota­no, né sosten­go­no (con le dovu­te ecce­zio­ni) le for­ze che postu­la­no una tra­sfor­ma­zio­ne rivo­lu­zio­na­ria del­la socie­tà; si sono per­se le tra­di­zio­ni – sin­da­ca­li e poli­ti­che – del­la clas­se ope­ra­ia; anche il nume­ro degli scio­pe­ri e con­flit­ti ope­rai è dimi­nui­to siste­ma­ti­ca­men­te negli ulti­mi decen­ni, nono­stan­te l’offensiva sen­za soste del capi­ta­le sul­le con­di­zio­ni lavo­ra­ti­ve. Appli­can­do dun­que il cri­te­rio di Thomp­son, dovrem­mo con­clu­de­re che non esi­ste una clas­se ope­ra­ia. Cioè, esi­ste­reb­be la clas­se capi­ta­li­sta ma non la clas­se ope­ra­ia. Per­tan­to, per chi lavo­ra (si trat­ta di uno stra­to? di un grup­po?) in una rela­zio­ne di sala­ria­to biso­gne­reb­be adot­ta­re un cri­te­rio di deter­mi­na­zio­ne socia­le diver­so da quel­lo uti­liz­za­to per la clas­se capi­ta­li­sta. E que­sta situa­zio­ne teo­ri­ca dovreb­be esse­re soste­nu­ta fin­tan­to­ché la lot­ta ope­ra­ia e la coscien­za socia­li­sta non si ricom­pon­ga­no a livel­lo mon­dia­le, per­met­ten­do così di con­si­de­ra­re gli sfrut­ta­ti una clas­se socia­le. Ma allo­ra, biso­gne­reb­be doman­dar­si anche qua­li livel­li di lot­te o di indi­vi­dui coscien­ti del­la con­trap­po­si­zio­ne di inte­res­si tra la bor­ghe­sia e gli ope­rai sareb­be­ro neces­sa­ri per con­sen­ti­re il pas­sag­gio da un cri­te­rio all’altro sen­za il peri­co­lo di esse­re tac­cia­ti di “ogget­ti­vi­smo”. Dicia­mo di pas­sa­ta che, fino ad allo­ra, biso­gne­reb­be appli­ca­re agli stra­ti infe­rio­ri del­la socie­tà cri­te­ri estrat­ti dall’arsenale del­la socio­lo­gia bor­ghe­se (red­di­to, sta­tus, occupazione).
L’approccio “socia­le” che adot­tia­mo, al con­tra­rio, non incon­tra que­sti pro­ble­mi. Al riguar­do, segna­lia­mo anche che è il cri­te­rio di Marx. Al mar­gi­ne di qual­che pas­sag­gio in cui l’autore de Il Capi­ta­le ha volu­to enfa­tiz­za­re l’importanza del­la coscien­za, dell’organizzazione e del­la lot­ta affin­ché la clas­se abbia esi­sten­za poli­ti­ca, lun­go tut­ta la sua ope­ra ha man­te­nu­to un cri­te­rio ogget­ti­vo a pro­po­si­to di che cos’è la clas­se ope­ra­ia. Già abbia­mo cita­to il Mani­fe­sto comu­ni­sta in cui affer­ma che la clas­se ope­ra­ia è un pro­dot­to del­lo svi­lup­po capi­ta­li­sta. Ne Il Capi­ta­le quest’idea vie­ne confermata:

«Il pro­ces­so di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sti­co, con­si­de­ra­to nel suo nes­so com­ples­si­vo, cioè con­si­de­ra­to come pro­ces­so di ripro­du­zio­ne, non pro­du­ce dun­que solo mer­ce, non pro­du­ce dun­que solo plu­sva­lo­re, ma pro­du­ce e ripro­du­ce il rap­por­to capi­ta­li­sti­co stes­so: da una par­te il capi­ta­li­sta, dall’altra l’operaio sala­ria­to»[7].

E, in un’affermazione ancor più for­te, spie­ga che:

«…, dal pun­to di vista socia­le la clas­se ope­ra­ia, anche al di fuo­ri dell’immediato pro­ces­so lavo­ra­ti­vo, è un acces­so­rio del capi­ta­le quan­to il mor­to stru­men­to di lavo­ro. Per­fi­no il suo con­su­mo indi­vi­dua­le è entro cer­ti limi­ti solo un momen­to di ripro­du­zio­ne del capi­ta­le»[8].

Si osser­vi che la costi­tu­zio­ne del­la clas­se ope­ra­ia in quest’approccio è inti­ma­men­te lega­ta alla dina­mi­ca dell’accumulazione del capi­ta­le, poi­ché il pro­ces­so di ripro­du­zio­ne amplia­ta del capi­ta­le ripro­du­ce in manie­ra amplia­ta le rela­zio­ni di sfrut­ta­men­to e con esso del­la forza‑lavoro sot­to­mes­sa al suo dominio.
In base a ciò, si può dire che mol­te vol­te la sini­stra ha abu­sa­to del ter­mi­ne “sog­get­to socia­le” con rife­ri­men­to alla clas­se ope­ra­ia. La clas­se ope­ra­ia è “sog­get­to” nel­la misu­ra in cui si auto­de­ter­mi­na e agi­sce come clas­se; ma dal pun­to di vista del pro­ces­so sto­ri­co socia­le è anche, fino a un cer­to pun­to, un “ogget­to”, un risul­ta­to dell’accumulazione. […].

Sur­plus, plu­sla­vo­ro e clas­si sociali
Come pri­ma appros­si­ma­zio­ne, si può affer­ma­re, seguen­do Marx, che in ogni tipo di socie­tà di clas­se esi­sto­no due clas­si fon­da­men­ta­li; che le rela­zio­ni di proprietà/possesso costi­tui­sco­no l’asse intor­no al qua­le si for­ma­no que­ste due clas­si; e che que­ste rela­zio­ni auto­riz­za­no una mino­ran­za ad estrar­re un sur­plus, o plu­spro­dot­to, dai pro­dut­to­ri. In ter­mi­ni gene­ra­li defi­nia­mo il sur­plus come la som­ma dei valo­ri d’uso che ecce­do­no la som­ma dei beni con­su­ma­ti dal pro­dut­to­re. Que­sta siste­ma­ti­ca estra­zio­ne di sur­plus defi­ni­sce dun­que una rela­zio­ne di sfrut­ta­men­to; cioè, la nozio­ne di clas­si socia­li con­trap­po­ste è orga­ni­ca­men­te vin­co­la­ta alla tesi per cui una del­le clas­si è sfrut­ta­ta dall’altra.
Ma, ciò det­to, sor­ge la que­stio­ne di cosa deb­ba inten­der­si esat­ta­men­te per “estra­zio­ne” di sur­plus, cioè cos’è lo sfrut­ta­men­to e come si deter­mi­na­no le clas­si a par­ti­re da que­sto. La que­stio­ne non è esen­te da con­tro­ver­sie, per­ché in base a quan­to in pre­ce­den­za det­to si potreb­be defi­ni­re lo sfrut­ta­men­to in due modi:

  1. esi­ste sfrut­ta­men­to per­ché la clas­se pro­prie­ta­ria dei mez­zi di pro­du­zio­ne si appro­pria del sur­plus, non impor­ta qua­le ne sia l’origine;
  2. esi­ste sfrut­ta­men­to per­ché la clas­se pro­prie­ta­ria dei mez­zi di pro­du­zio­ne si appro­pria del sur­plus che con­si­ste in plu­sla­vo­ro.

La pri­ma posi­zio­ne è in qual­che modo pre­sen­te negli auto­ri influen­za­ti dall’opera di Sraf­fa, come Joan Robin­son e Pie­ro Gare­gna­ni[9]. La secon­da è quel­la di Marx.
Secon­do l’approccio sraf­fia­no (o neo­ri­car­dia­no), non è neces­sa­rio il rife­ri­men­to al plu­sla­vo­ro per ren­de­re con­to del sur­plus in una socie­tà sfrut­ta­tri­ce; in par­ti­co­la­re, la teo­ria del valo­re lavo­ro non sareb­be neces­sa­ria per met­te­re a nudo lo sfrut­ta­men­to capi­ta­li­sti­co[10]. Gare­gna­ni ha svi­lup­pa­to quest’approccio con qual­che esten­sio­ne. Sostie­ne che non si può dimo­stra­re che l’unica fon­te del sur­plus sia il lavo­ro uma­no, ma che ciò non è essen­zia­le per sta­bi­li­re l’esistenza di sfrut­ta­men­to; ciò che impor­ta, secon­do Gare­gna­ni, è che ci sia sur­plus e che di esso si appro­pri una mino­ran­za, non come né chi lo abbia pro­dot­to. In altri ter­mi­ni, che i pro­dut­to­ri, a qua­lun­que socie­tà appar­ten­ga­no, non pos­sa­no appro­priar­si di tut­to il pro­dot­to. In tal modo, Gare­gna­ni sta­bi­li­sce una nozio­ne gene­ra­le di sfrut­ta­men­to, arti­co­la­ta esclu­si­va­men­te sull’appropriazione del sur­plus, cioè su una rela­zio­ne di distri­bu­zio­ne. La tesi neo­ri­car­dia­na secon­do cui non è neces­sa­ria la teo­ria del valo­re lavo­ro per dimo­stra­re lo sfrut­ta­men­to capi­ta­li­sti­co non è altro che un’applicazione par­ti­co­la­re di que­sta nozio­ne gene­ra­le del­lo sfrut­ta­men­to[11].
Per illu­stra­re l’argomento, pre­sen­tia­mo un esem­pio teo­ri­co. Sup­po­nia­mo un modo di pro­du­zio­ne schia­vi­sta. Sup­po­nia­mo anche che uno schia­vo pro­du­ca 10 uni­tà di fru­men­to in una set­ti­ma­na, di cui ne con­su­ma 8 men­tre 2 for­ma­no il sur­plus, di cui si appro­pria il padro­ne. Sup­po­nia­mo, per sem­pli­fi­ca­re la que­stio­ne che egli impie­ghi solo ter­ra e lavo­ro. Sup­po­nia­mo ora che la pro­dut­ti­vi­tà del lavo­ro aumen­ti del 50% (per esem­pio, a cau­sa di ecce­zio­na­li con­di­zio­ni cli­ma­ti­che favo­re­vo­li). Il nuo­vo pro­dot­to sarà di 15 uni­tà di fru­men­to. Poi­ché il con­su­mo del­lo schia­vo resta di 8, il sur­plus è pas­sa­to da 2 a 7 uni­tà di fru­men­to. Il teo­ri­co sraf­fia­no dirà allo­ra che, dato che l’aumento del sur­plus non è dovu­to all’utilizzo di più lavo­ro, non si può soste­ne­re che que­ste 5 uni­tà “in più” sia­no appro­pria­zio­ne di plu­sla­vo­ro[12].
Vedia­mo la que­stio­ne un pas­so alla vol­ta. In pri­mo luo­go, Gare­gna­ni – così come gli sraf­fia­ni in gene­ra­le – par­te da un fat­to cer­to: che l’aumento del pro­dot­to è dovu­to a un cam­bia­men­to nel­la for­za pro­dut­ti­va sen­za che sia sta­to impie­ga­to più tem­po di lavo­ro. In secon­do luo­go, insi­ste – anche qui, a ragio­ne – sul fat­to che i valo­ri d’uso, i beni mate­ria­li, sono pro­dot­to del lavo­ro uma­no non­ché del­le con­di­zio­ni mate­ria­li del­la pro­du­zio­ne[13].
Ma da que­sti due pun­ti di par­ten­za cor­ret­ti sfo­cia nell’idea sba­glia­ta che l’appropriazione del sur­plus non rap­pre­sen­ta appro­pria­zio­ne del lavo­ro uma­no gra­tui­to. la chia­ve del suo erro­re sta nel dimen­ti­ca­re che se non c’è lavo­ro uma­no non c’è sur­plus. Pren­den­do il suo esem­pio, segna­lia­mo il fat­to ovvio – ma su cui si sor­vo­la spes­so – che la ter­ra di per sé sola non pre­sen­ta il fru­men­to già pron­to per la moli­tu­ra[14]. Se di fron­te all’aumento del­la pro­dut­ti­vi­tà del lavo­ro lo schia­vo potes­se inter­rom­pe­re la sua gior­na­ta nel momen­to in cui sia­no sta­te pro­dot­te le 8 uni­tà di fru­men­to neces­sa­rie per il suo man­te­ni­men­to, il pro­prie­ta­rio reste­reb­be sen­za sur­plus. Tut­to il tem­po di lavo­ro al di sopra di que­sto lavo­ro neces­sa­rio si tra­du­ce in sur­plus, che può esse­re più o meno gran­de, ma che non cam­bia la natu­ra del­la que­stio­ne: il padro­ne vive gra­zie al fat­to che lo schia­vo ha lavo­ra­to più del tem­po di lavo­ro neces­sa­rio. Nel­la misu­ra in cui nel­le socie­tà pre­ca­pi­ta­li­ste si misu­ra­ro­no i tem­pi di lavo­ro – e ogni socie­tà ha dovu­to misu­ra­re e com­pa­ra­re tem­pi di lavo­ro – la que­stio­ne del plu­sla­vo­ro dove­va appa­ri­re in manie­ra lam­pan­te agli occhi dei pro­dut­to­ri; e, nell’esempio che abbia­mo pre­sen­ta­to, l’aumento del­la pro­dut­ti­vi­tà deri­ve­reb­be dall’aumento del plu­sla­vo­ro for­ni­to dal­lo schia­vo (nel­la misu­ra in cui egli con­ti­nui a con­su­ma­re le 8 uni­tà di frumento.
Per que­sto, ben­ché il fru­men­to non assu­ma la for­ma mer­ce né il lavo­ro assu­ma la for­ma rei­fi­ca­ta del valo­re, l’appropriazione del sur­plus è appro­pria­zio­ne del lavo­ro uma­no ecce­den­te.
È inte­res­san­te segna­la­re che Marx cri­ti­cò all’epoca i fisio­cra­ti per­ché que­sti attri­bui­va­no l’esistenza del sur­plus a «un dono del­la natu­ra, [a] una for­za pro­dut­ti­va del­la natu­ra»[15]. Li cri­ti­ca­va non solo per­ché non ave­va­no la con­ce­zio­ne del valore‑lavoro nel­la socie­tà mer­can­ti­le, ma anche per­ché ave­va­no fat­to astra­zio­ne del lavo­ro uma­no come la con­di­zio­ne essen­zia­le e più gene­ra­le per l’esistenza del plu­spro­dot­to in qual­sia­si siste­ma sociale.
Con­tro que­sta posi­zio­ne si potreb­be argo­men­ta­re che anche la ter­ra è una con­di­zio­ne neces­sa­ria per l’esistenza del pro­dot­to; e che dun­que anche la ter­ra è “sfrut­ta­ta” (tro­via­mo svi­lup­pi di que­sto tipo fra i mar­xi­sti ana­li­ti­ci), allo stes­so livel­lo dell’operaio. Ma que­sto signi­fi­ca ripro­dur­re l’errore di Adam Smith, quan­do dis­se che anche il bue gene­ra­va valo­re: impli­ca toglie­re ogni con­no­ta­zio­ne socia­le – e poli­ti­ca – al con­cet­to di sfrut­ta­men­to. Que­sto è con­cre­to, cioè appli­ca­bi­le a una deter­mi­na­ta con­di­zio­ne, a una situa­zio­ne uma­na, socia­le. Allu­de al fat­to che ci sono esse­ri uma­ni che pos­so­no anda­re esen­ti dal lavo­ra­re per vive­re, per­ché ce ne sono altri che sono obbli­ga­ti a lavo­ra­re per loro. Per que­sto moti­vo, man­te­nia­mo l’idea del sur­plus come appro­pria­zio­ne di plu­sla­vo­ro, nel sen­so in cui lo vide Marx anche per le socie­tà precapitaliste:

«Ovun­que una par­te del­la socie­tà pos­seg­ga il mono­po­lio dei mez­zi di pro­du­zio­ne, il lavo­ra­to­re, libe­ro o schia­vo, deve aggiun­ge­re al tem­po di lavo­ro neces­sa­rio al suo sosten­ta­men­to tem­po di lavo­ro ecce­den­te per pro­dur­re i mez­zi di sosten­ta­men­to per il pos­ses­so­re dei mez­zi di pro­du­zio­ne»[16].

A par­ti­re da que­sta nozio­ne di plu­sla­vo­ro deri­va l’idea di un’opposizione anta­go­ni­sti­ca tra le clas­si con­trap­po­ste, basa­ta sul­la pro­du­zio­ne. Per­ciò la nozio­ne di sfrut­ta­men­to in Marx non si spie­ga solo a par­ti­re dal­la con­sta­ta­zio­ne che c’è un sur­plus socia­le al di là di quan­to i pro­dut­to­ri con­su­mi­no per il loro sosten­ta­men­to. In defi­ni­ti­va, que­sta posi­zio­ne può por­tar­ci all’idea del­le clas­si socia­li, ma ori­gi­na­te in diver­se fon­ti di entra­te[17]. Per­ciò non ha ragio­ne Gid­dens quan­do sostie­ne che Marx ave­va respin­to l’idea che le clas­si socia­li doves­se­ro iden­ti­fi­car­si con la fon­te di entra­te per­ché «ciò avreb­be por­ta­to a una plu­ra­li­tà infi­ni­ta di clas­si»[18]. La ragio­ne è più pro­fon­da, dato che ha a che vede­re con l’antagonismo “strut­tu­ra­le” anco­ra­to alla pro­du­zio­ne, che è pro­prio del­la socie­tà di classe.
Di qui anche l’importanza che darà Marx alla for­ma in cui vie­ne estrat­to que­sto plu­sla­vo­ro, for­ma che defi­ni­rà i diver­si modi di pro­du­zio­ne (e le rela­zio­ni di pro­du­zio­ne dominanti):

«Solo la for­ma in cui vie­ne spre­mu­to al pro­dut­to­re imme­dia­to, al lavo­ra­to­re, que­sto plu­sla­vo­ro, distin­gue le for­ma­zio­ni eco­no­mi­che del­la socie­tà; p. es., la socie­tà del­la schia­vi­tù da quel­la del lavo­ro sala­ria­to»[19].

Un’idea che ripe­te­rà nel ter­zo libro de Il Capi­ta­le.

La rela­zio­ne capitale/lavoro come rela­zio­ne di domi­nio e coercizione
La teo­ria del valo­re lavo­ro sarà il com­ple­ta­men­to logi­co di que­sta teo­ria del­lo sfrut­ta­men­to, appli­ca­ta alla socie­tà capi­ta­li­sta. Dimo­stran­do che esi­ste una sola fon­te di valo­re, la teo­ria del valo­re e del plu­sva­lo­re di Marx impli­ca che:

  1. l’antagonismo tra capi­ta­le e lavo­ro è incon­ci­lia­bi­le, e che
  2. non lo si può eli­mi­na­re median­te mani­po­la­zio­ni del mer­ca­to, ma solo cam­bian­do le rela­zio­ni di produzione.

Effet­ti­va­men­te, poi­ché il lavo­ro vivo (non ogget­ti­va­to) è l’origine del valo­re, è anche la sua più asso­lu­ta nega­zio­ne, dato che il valo­re è lavo­ro mor­to (ogget­ti­va­to). Per­ciò il lavo­ro, che sostie­ne il capi­ta­le[20], è anche sem­pre “l’altra fac­cia” del capi­ta­le, la sua anti­te­si. Si trat­ta al con­tem­po di una rela­zio­ne di impli­ca­zio­ne e di nega­zio­ne, cioè una rela­zio­ne dia­let­ti­ca. Ne deri­va che la clas­se ope­ra­ia può esse­re defi­ni­ta solo in oppo­si­zio­ne al capi­ta­le[21].
Ma la rela­zio­ne di sfrut­ta­men­to capi­ta­li­sta è una rela­zio­ne eco­no­mi­ca che impli­ca anche una rela­zio­ne di coer­ci­zio­ne e domi­nio. È neces­sa­rio sot­to­li­nea­re quest’aspetto a fron­te dell’enorme con­fu­sio­ne crea­ta sul tema dai “mar­xi­sti” ana­li­ti­ci, per­ché que­sti auto­ri, appro­fon­den­do la rifles­sio­ne nel sol­co aper­to dagli sraf­fia­ni, han­no fini­to per adot­ta­re for­mu­la­zio­ni di tipo neo­clas­si­co – indi­vi­dua­li­smo meto­do­lo­gi­co, scel­te razio­na­li otti­miz­za­tri­ci – e una teo­ria del­lo sfrut­ta­men­to basa­ta sul­lo scam­bio di pro­dut­to­ri dota­ti in modo ine­gua­le di mez­zi di pro­du­zio­ne. L’obiettivo – mol­to chia­ro in Roe­mer e in alcu­ni scrit­ti di Wright – è offri­re una teo­ria del­lo sfrut­ta­men­to spo­glia­ta dei fat­to­ri di lot­ta, coa­zio­ne, domi­nio, che sono pro­pri del­la rela­zio­ne capitale/lavoro[22]. Non c’è da mera­vi­gliar­si che Roe­mer ride­fi­ni­sca lo sfrut­ta­men­to affer­man­do che «una per­so­na o grup­po di per­so­ne è sfrut­ta­to se non ha acces­so alla sua giu­sta par­te­ci­pa­zio­ne … alle atti­vi­tà pro­dut­ti­ve alie­na­bi­li del­la socie­tà»[23].
La dif­fe­ren­za di quest’affermazione con la real­tà del­lo sfrut­ta­men­to e dell’antagonismo di clas­se non può esse­re più gran­de. In pri­mo luo­go, per­ché il capi­ta­li­smo non si sostie­ne su una sem­pli­ce distri­bu­zio­ne dise­gua­le dei mez­zi di pro­du­zio­ne, ben­sì sul­lo spos­ses­sa­men­to asso­lu­to dell’immensa mag­gio­ran­za rispet­to al mono­po­lio dei mez­zi di pro­du­zio­ne da par­te del­la clas­se sfrut­ta­tri­ce[24]. In secon­do luo­go, per­ché gli ele­men­ti di coa­zio­ne, di impul­so a domi­na­re il lavo­ro, sono al cen­tro del­la sto­ria del­la rela­zio­ne capitale/lavoro. Per­ciò, seb­be­ne Marx abbia insi­sti­to sul carat­te­re eco­no­mi­co del­lo sfrut­ta­men­to sot­to il capi­ta­li­smo, non ha anche insi­sti­to sui fat­to­ri di domi­nio e coer­ci­zio­ne ine­ren­ti alla subor­di­na­zio­ne, o sus­sun­zio­ne, del lavo­ro al capi­ta­le. Il capi­ta­le impli­ca il suo domi­nio sul pro­ces­so di lavo­ro. Marx, al riguar­do, è mol­to chiaro:

«All’interno del pro­ces­so di pro­du­zio­ne il capi­ta­le si è svi­lup­pa­to in coman­do sul lavo­ro … Il capi­ta­le si è svi­lup­pa­to … in un rap­por­to di coer­ci­zio­ne, che for­za la clas­se ope­ra­ia a com­pie­re un lavo­ro mag­gio­re di quel­lo richie­sto dall’ambito ristret­to del­le sue neces­si­tà vita­li. E come pro­dut­to­re di labo­rio­si­tà altrui, come pom­pa­to­re di plu­sla­vo­ro e sfrut­ta­to­re di forza‑lavoro, il capi­ta­le supe­ra in ener­gia, dismi­su­ra ed effi­ca­cia tut­ti i siste­mi di pro­du­zio­ne del pas­sa­to fon­da­ti sul lavo­ro for­za­to diret­to»[25].

In Teo­rie sul plu­sva­lo­re si espri­me similmente:

«Il capi­ta­le pro­du­ce valo­re solo con­si­de­ra­to come una rela­zio­ne, impo­nen­do­si coat­ti­va­men­te sul lavo­ro sala­ria­to e obbli­gan­do quest’ultimo ad appor­ta­re plu­sla­vo­ro …»[26].

Ciò deter­mi­na che la rela­zio­ne di sfrut­ta­men­to capi­ta­li­sti­co sia qua­li­ta­ti­va­men­te diver­sa da quel­la che si sta­bi­li­sce tra pro­dut­to­ri quan­do c’è un sem­pli­ce tra­sfe­ri­men­to disu­gua­le. Per que­sto, ben­ché il domi­nio non impli­chi neces­sa­ria­men­te sfrut­ta­men­to, come segna­la a ragio­ne Wright, lo sfrut­ta­men­to impli­ca domi­nio e coer­ci­zio­ne. […].
Enu­me­ria­mo alcu­ne del­le con­se­guen­ze che pos­so­no trar­si da tali questioni.
In pri­mo luo­go, la rela­zio­ne di coer­ci­zio­ne rac­chiu­de in sé la poten­zia­li­tà laten­te del­la lot­ta, del­la resi­sten­za di clas­se, anche quan­do non si mani­fe­sta in lot­ta aperta. […].
In secon­do luo­go, la teo­ria del­lo sfrut­ta­men­to di Marx per­met­te di distin­gue­re la dif­fe­ren­za qua­li­ta­ti­va tra lo sfrut­ta­men­to basa­to sull’estrazione “economico‑coattiva” del plu­sla­vo­ro e un mero tra­sfe­ri­men­to di valo­re nel mer­ca­to dovu­to a dif­fe­ren­ze di pro­dut­ti­vi­tà, risor­se, pote­re nego­zia­le. La com­pren­sio­ne del­la cen­tra­li­tà del­la con­trad­di­zio­ne capitale‑lavoro (che dopo tut­to è il fon­da­men­to di qual­sia­si stra­te­gia socia­li­sta) par­te dal poter dif­fe­ren­zia­re tale que­stio­ne[27].

Scio­pe­ro del­le ope­ra­ie tes­si­li in Val­se­sia (Pie­mon­te), 1914

In ter­zo luo­go, biso­gna segna­la­re che in que­sta discus­sio­ne è coin­vol­ta la nozio­ne stes­sa dell’alternativa socia­li­sta, poi­ché dal­la visio­ne del­lo sfrut­ta­men­to attra­ver­so il mer­ca­to arti­co­la­ta sul­la distri­bu­zio­ne disu­gua­le dei mez­zi di pro­du­zio­ne deri­va la nega­zio­ne del­la clas­se ope­ra­ia come clas­se rivo­lu­zio­na­ria radi­ca­le rispet­to al capi­ta­li­smo. Wright spie­ga con mol­ta fran­chez­za che uno dei moti­vi per respin­ge­re l’analisi di clas­se – e di sfrut­ta­men­to – del mar­xi­smo “tra­di­zio­na­le” sta nel fat­to che quest’ultimo

«… con­si­de­ra impli­ci­ta­men­te il socia­li­smo – socie­tà nel­la qua­le la clas­se ope­ra­ia è la clas­se diri­gen­te – come l’unica alter­na­ti­va pos­si­bi­le al capi­ta­li­smo»[28].

Allo stes­so modo, le tesi sul­lo sfrut­ta­men­to di mer­ca­to han­no por­ta­to acqua al muli­no del nazio­na­li­smo (v. nota 27), con le ovvie con­se­guen­ze in tema di stra­te­gie di allean­ze rifor­mi­ste di clas­se e di disin­ne­sco del­la con­trad­di­zio­ne capitale‑lavoro.

Altra defi­ni­zio­ne recen­te di clas­se operaia
Recen­te­men­te, anche una cor­ren­te del­la sini­stra argen­ti­na, il Mas – che si con­si­de­ra di tra­di­zio­ne mar­xi­sta – ha modi­fi­ca­to in sen­so radi­ca­le la deter­mi­na­zio­ne del con­cet­to di clas­se ope­ra­ia[29]. Negli ulti­mi tem­pi, ha comin­cia­to a defi­ni­re la clas­se ope­ra­ia come quel­la clas­se che è costi­tui­ta da «tut­ti colo­ro che vivo­no del loro lavo­ro». Il cam­bia­men­to è impor­tan­te, poi­ché nel­la cate­go­ria di “colo­ro che vivo­no del pro­prio lavo­ro” si deb­bo­no inclu­de­re i pro­prie­ta­ri di mez­zi di pro­du­zio­ne che non sfrut­ta­no forza‑lavoro. Per­tan­to, ampi set­to­ri di pic­co­li pro­prie­ta­ri pas­sa­no ad esse­re con­si­de­ra­ti – secon­do tale cri­te­rio – com­po­nen­ti del­la clas­se operaia.
A par­ti­re da que­sto cam­bio, si per­de di vista anche la cen­tra­li­tà del­la coercizione/controllo del pro­ces­so di lavo­ro da par­te degli sfrut­ta­to­ri e si can­cel­la­no le dif­fe­ren­ze sostan­zia­li che esi­sto­no tra lo sfrut­ta­men­to, da un lato, e la distri­bu­zio­ne disu­gua­le del sur­plus da par­te dei mec­ca­ni­smi di mer­ca­to, dall’altro. Il fat­to è che, seb­be­ne il pic­co­lo pro­prie­ta­rio, sem­pli­ce pro­dut­to­re di mer­ci, può non vede­re rea­liz­za­to in valo­re il tem­po di lavo­ro che impie­ga nel­la pro­du­zio­ne – e in tal modo rice­ve­re un rica­vo mino­re di quel­lo che sareb­be per­si­no il valo­re “nor­ma­le” del­la sua forza‑lavoro – la sua posi­zio­ne è qua­li­ta­ti­va­men­te diver­sa da quel­la in cui si tro­va l’operaio sala­ria­to. Il cam­bia­men­to del­la sua situa­zio­ne non richie­de, in prin­ci­pio, di eli­mi­na­re la pro­prie­tà pri­va­ta dei mez­zi di pro­du­zio­ne. Se non vede rea­liz­za­to in valo­re il tem­po di lavo­ro impie­ga­to può dar­si che ciò dipen­da dal fat­to che usa una tec­ni­ca arre­tra­ta, o che si scon­tra con con­cor­ren­ti mono­po­li­sti­ci con pote­re di con­trol­lo sul mer­ca­to. In qual­sia­si caso, la sua oppo­si­zio­ne al siste­ma non deve neces­sa­ria­men­te esse­re anta­go­ni­sti­ca. Da qui discen­do­no le vacil­la­zio­ni e le posi­zio­ni ambi­gue dei set­to­ri di pic­co­li pro­prie­ta­ri quan­to al pro­gram­ma di riven­di­ca­zio­ni e cam­bia­men­ti socia­li. È cer­to che i loro inte­res­si pos­so­no coin­ci­de­re con­giun­tu­ral­men­te con quel­li del­la clas­se ope­ra­ia nel­la misu­ra in cui si oppon­go­no al gran­de capi­ta­le. Ciò apre la pos­si­bi­li­tà di allean­ze di clas­se con i sala­ria­ti, ma non deter­mi­na un’identità di clas­se con loro. Per­ciò, nel cor­so di un pro­ces­so di tra­sfor­ma­zio­ne socia­le rivo­lu­zio­na­ria ci sarà un pun­to di infles­sio­ne in cui gli inte­res­si di entram­be le clas­si entre­ran­no in un con­flit­to che in un modo o in un altro dovrà esse­re risol­to[30].
For­se, alcu­ni difen­so­ri del­la nuo­va defi­ni­zio­ne di clas­se ope­ra­ia soster­ran­no che il cam­bio obbe­di­sce alla neces­si­tà di dar con­to del­le enor­mi mas­se di indi­vi­dui che oggi sono sull’orlo del­la pau­pe­riz­za­zio­ne più asso­lu­ta, e che sono lavo­ra­to­ri “in proprio”.
Ma que­sto è un caso diver­so da quel­lo del piccolo‑borghese, sem­pli­ce pro­dut­to­re di mer­ci, “che vive del pro­prio lavo­ro”. I lavo­ra­to­ri “in pro­prio” pau­pe­riz­za­ti sono, nel­la loro stra­gran­de mag­gio­ran­za, lavo­ra­to­ri disoc­cu­pa­ti che soprav­vi­vo­no facen­do lavo­ret­ti, cioè ven­den­do i pro­pri ser­vi­zi: ad esem­pio, come mano­va­li, per le puli­zie, come giar­di­nie­ri. Dal pun­to di vista for­ma­le, appar­ter­reb­be­ro alla pic­co­la bor­ghe­sia (sono pro­prie­ta­ri di scar­si mez­zi di pro­du­zio­ne, auto­de­ter­mi­na­no il pro­prio lavo­ro). Tut­ta­via, per ori­gi­ne, pro­spet­ti­va e dispo­si­zio­ne rea­le di mez­zi di pro­du­zio­ne li con­si­de­ria­mo par­te del­la clas­se ope­ra­ia. Da un lato, per­ché pro­ven­go­no dal­le file ope­ra­ie (licen­zia­ti dal­le fab­bri­che, figli di ope­rai) e, ancor più impor­tan­te, per­ché sono pron­ti a rien­tra­re nel­la rela­zio­ne sala­ria­ta non appe­na in gra­do di tro­va­re un lavo­ro. Dun­que, sono par­te dell’esercito di disoc­cu­pa­ti gene­ra­ti dal capi­ta­li­smo, e come tali appar­ten­go­no alla clas­se ope­ra­ia. Nell’analisi di que­sto feno­me­no, pos­sia­mo per­si­no appli­ca­re il cri­te­rio del “sal­to dal­la quan­ti­tà alla qua­li­tà” (che Marx uti­liz­zò per deter­mi­na­re il pas­sag­gio sto­ri­co dal mae­stro arti­gia­no al capi­ta­li­sta), data la mini­ma dota­zio­ne di mez­zi di pro­du­zio­ne: ad esem­pio, un lavo­ra­to­re che offre i suoi ser­vi­zi di giar­di­nag­gio è pro­prie­ta­rio di mez­zi di pro­du­zio­ne con­si­sten­ti in una fal­cia­tri­ce e alcu­ne for­bi­ci. Una gran­dez­za che non con­sen­te di con­si­de­rar­lo un piccolo‑borghese pro­prie­ta­rio di mez­zi di pro­du­zio­ne. Ben­ché non abbia­mo anco­ra trat­ta­to il caso dei lavo­ra­to­ri del com­mer­cio, pos­sia­mo anche ricom­pren­de­re nell’esempio i pic­co­li ven­di­to­ri ambu­lan­ti: ad esem­pio, il pro­prie­ta­rio di una cesta uti­liz­za­ta per ven­de­re cioc­co­la­ti­ni sui tre­ni non può esse­re con­si­de­ra­to un “piccolo‑borghese pro­prie­ta­rio di mez­zi di scam­bio” (cioè, del­la cesta).

Clas­si medie, un chia­ri­men­to metodologico
Come abbia­mo det­to nell’introduzione, una del­le cri­ti­che più comu­ni a Marx sostie­ne che la pola­riz­za­zio­ne socia­le da lui pre­vi­sta non si è veri­fi­ca­ta, per­ché duran­te il XX seco­lo è cre­sciu­ta la “nuo­va clas­se media”, com­po­sta da impie­ga­ti stipendiati.
Anche que­sta tesi è sta­ta con­di­vi­sa da buo­na par­te del­la sini­stra. Già ai tem­pi del­la Secon­da Inter­na­zio­na­le, Bern­stein soste­ne­va che i nuo­vi set­to­ri sala­ria­ti costi­tui­va­no una “clas­se media”, la cui cre­sci­ta evi­den­zia­va che il capi­ta­li­smo ten­de­va al livel­la­men­to socia­le. Kau­tsky con­di­vi­de­va l’analisi, ben­ché con­tra­stas­se le con­clu­sio­ni poli­ti­che di Bern­stein. Mol­ti anni dopo, Tro­tsky rite­ne­va neces­sa­rio segna­la­re che la ten­den­za alla pola­riz­za­zio­ne ipo­tiz­za­ta da Marx ed Engels nel Mani­fe­sto comu­ni­sta non si era veri­fi­ca­ta[31]. Nel dopo­guer­ra, mol­ti teo­ri­ci del­la sini­stra nor­da­me­ri­ca­na ed euro­pea ipo­tiz­za­ro­no che la cre­sci­ta del­le clas­si medie, com­bi­na­ta con “l’imborghesimento” del­la clas­se ope­ra­ia, annul­la­va le pos­si­bi­li­tà che potes­se rea­liz­zar­si una rivo­lu­zio­ne nel seno del capi­ta­li­smo avan­za­to[32]. Si è per­si­no argo­men­ta­to che in qual­che modo Marx avreb­be ret­ti­fi­ca­to, nel­la sua ope­ra matu­ra, le idee espo­ste nel Mani­fe­sto comu­ni­sta. Così, Gid­dens, nei suoi scrit­ti sul­le clas­si di ini­zio anni 70, ricor­da il pas­sag­gio di Teo­rie sul plu­sva­lo­re, in cui Marx cri­ti­ca Ricar­do per­ché que­sti dimen­ti­ca­va di «evi­den­zia­re la quan­ti­tà in costan­te cre­sci­ta del­la clas­se media», e con­si­de­ra una “ovvie­tà” il fat­to che il ceto impie­ga­ti­zio non appar­ten­ga alla clas­se ope­ra­ia. Oggi, que­sta con­vin­zio­ne è ancor più radi­ca­ta in mol­ti set­to­ri, a par­ti­re dal­la cre­sci­ta del­le atti­vi­tà infor­ma­ti­che e del­la comunicazione.
Ebbe­ne, noi pen­sia­mo l’opposto rispet­to all’idea domi­nan­te. Per­ciò affron­tia­mo il pro­ble­ma tenen­do con­to dei cri­te­ri che abbia­mo discus­so per la con­ce­zio­ne di clas­se ope­ra­ia. A que­sto pro­po­si­to, è neces­sa­rio pre­ci­sa­re alcu­ne que­stio­ni di tipo meto­do­lo­gi­co che si rife­ri­sco­no sostan­zial­men­te al modo in cui nel mar­xi­smo si van­no “costruen­do” i con­cet­ti. Se non si com­pren­de tale pun­to, si può cade­re nell’idea che in Marx esi­sta una spe­cie di con­cet­to “astrat­to” – o pura­men­te teo­ri­co – di clas­se ope­ra­ia, defi­ni­to appros­si­ma­ti­va­men­te così come abbia­mo fat­to fino­ra, e un “sal­to” che può esse­re defi­ni­to il ter­re­no empi­ri­co, o storico‑sociale con­cre­to, in cui l’astrattezza tro­ve­reb­be poca appli­ca­zio­ne. Gur­vitch o Gid­dens, che ragio­na­no così, sosten­go­no che nel­le sue ope­re sto­ri­che Marx abbia dovu­to abban­do­na­re lo sche­ma “astrat­to” per ana­liz­za­re quel­lo “con­cre­to”. Que­sta scon­nes­sio­ne fini­sce per far sì che la deter­mi­na­zio­ne di base, fon­da­men­ta­le, dal­la qua­le si par­ti­va, si per­da sul­la stra­da che pro­ce­de ver­so la “real­tà” del­la socie­tà contemporanea […].
Ma, in real­tà, non esi­ste un simi­le “sal­to” tra l’analisi del­la rela­zio­ne fon­da­men­ta­le e l’analisi con­cre­ta nel­la teo­ria di Marx, ben­sì un pro­gres­si­vo avan­za­men­to dal­le nozio­ni più sem­pli­ci e astrat­te a quel­le più con­cre­te. L’importante è non per­de­re in quest’avanzamento la nozio­ne di base, ma arric­chir­la. Si trat­ta di com­pren­de­re il con­cre­to, non nel sen­so di “pal­pa­bi­le” (come gene­ral­men­te si pen­sa), ma nel sen­so di una mag­gio­re ric­chez­za di deter­mi­na­zio­ni. Se la rela­zio­ne di pro­prie­tà capi­ta­li­sta, con­trap­po­sta alla pro­prie­tà “libe­ra” del­la forza‑lavoro, e l’estrazione coat­ti­va – che da ciò deri­va – di plu­sva­lo­re dal pro­dut­to­re, rap­pre­sen­ta­no il fon­da­men­to del­le due clas­si anta­go­ni­sti­che, nell’analisi più com­ples­sa non si deve per­de­re di vista que­sta rela­zio­ne. E, al con­tem­po, tener con­to che essa non esau­ri­sce la que­stio­ne, così come la com­pren­sio­ne del­la pro­du­zio­ne di plu­sva­lo­re non esau­ri­sce il con­cet­to di capi­ta­le. Nel­la misu­ra in cui si avan­za nell’analisi, è impre­scin­di­bi­le intro­dur­re nuo­ve deter­mi­na­zio­ni, media­zio­ni che per­met­te­ran­no di con­net­te­re il nucleo del­la rela­zio­ne di sfrut­ta­men­to con la con­for­ma­zio­ne gene­ra­le del­la clas­se operaia.

La moder­na “clas­se media”
In pri­mo luo­go, occor­re con­sta­ta­re che esi­ste un rela­ti­vo accor­do tra gli auto­ri sul fat­to che un aspet­to del­la teo­ria svi­lup­pa­ta da Marx si è veri­fi­ca­ta, e con­ti­nua a veri­fi­car­si: gli stra­ti infe­rio­ri e ampi set­to­ri di pic­co­li pro­prie­ta­ri sono scom­par­si, o han­no ridot­to la loro capa­ci­tà di soprav­vi­ven­za, sia nei Pae­si capi­ta­li­sti arre­tra­ti che in quel­li avan­za­ti; e il pro­ces­so con­ti­nua. Su que­sto pun­to sem­bra esser­ci un accor­do abba­stan­za gene­ra­liz­za­to, per­fi­no tra i cri­ti­ci di Marx. Un caso emble­ma­ti­co è l’indebitamento seco­la­re dell’antica ed este­sa clas­se di pic­co­li pro­prie­ta­ri degli Sta­ti Uni­ti, il Pae­se che all’epoca – metà del XIX seco­lo – è sta­to pro­ba­bil­men­te il para­di­so del­le pos­si­bi­li­tà del pic­co­lo pro­dut­to­re[33].
Se da qual­che par­te si vole­va vede­re agi­re “a pie­no regi­me” la leg­ge del­la con­cor­ren­za e del­la con­cen­tra­zio­ne del capi­ta­le trat­ta­ta da Marx, ebbe­ne que­sto luo­go è rap­pre­sen­ta­to dagli Sta­ti Uni­ti. Un altro chia­ro esem­pio del­la ten­den­za che ope­ra a livel­lo mon­dia­le è dato dall’Argentina, con la rapi­da scom­par­sa di miglia­ia di pic­co­li eser­ci­zi com­mer­cia­li e nego­zi, spaz­za­ti via dai gran­di cen­tri commerciali.
In secon­do luo­go, va chia­ri­to che nel­la deter­mi­na­zio­ne di clas­se socia­le la que­stio­ne cir­ca la natu­ra manua­le o intel­let­tua­le di un lavo­ra­to­re non è deci­si­va. Weber, ad esem­pio, ha dif­fe­ren­zia­to – nel sen­so di clas­si dif­fe­ren­ti – i lavo­ra­to­ri manua­li dai lavo­ra­to­ri non pro­prie­ta­ri e non manua­li. Poi­ché inol­tre soste­ne­va che la mag­gio­ran­za dei set­to­ri dell’antica pic­co­la bor­ghe­sia che per­do­no la loro pro­prie­tà tran­si­ta­no in quest’ultimo set­to­re, è natu­ra­le che con­clu­des­se che la pola­riz­za­zio­ne pre­vi­sta da Marx non si fos­se verificata.
Marx col­lo­ca­va i lavo­ra­to­ri non manua­li – che non occu­pas­se­ro inca­ri­chi di coman­do del capi­ta­le – nel­la clas­se ope­ra­ia, indi­pen­den­te­men­te dall’ammontare del red­di­to o dal pre­sti­gio del­la pro­fes­sio­ne. Marx par­la­va di «una clas­se ope­ra­ia supe­rio­re», cioè degli inge­gne­ri, mec­ca­ni­ci, ecc., che si muo­ve «al di fuo­ri del­la sfe­ra degli ope­rai di fab­bri­ca ed è sol­tan­to aggre­ga­ta ad essi». Il con­cet­to di “aggre­ga­zio­ne” non sta a signi­fi­ca­re una cer­ta qual vacil­la­zio­ne teo­ri­ca per poter inclu­de­re que­sti lavo­ra­to­ri nel­la clas­se ope­ra­ia; tut­ta­via, qua­si con­ti­nuan­do chia­ri­sce che si trat­ta di una «divi­sio­ne del lavo­ro pura­men­te tec­ni­ca», cioè non una divi­sio­ne di clas­se socia­le. Ciò è dovu­to al fat­to che que­sti lavo­ra­to­ri sono pro­dut­ti­vi, nel sen­so che pro­du­co­no valo­re e plu­sva­lo­re, dato che con­tri­bui­sco­no alla modi­fi­ca­zio­ne del valo­re d’uso.

Impie­ga­ti

Si potreb­be soste­ne­re che mol­ti di que­sti lavo­ra­to­ri non sono sot­to­mes­si alla coa­zio­ne capi­ta­li­sta che, come abbia­mo visto, è carat­te­ri­sti­ca del­la rela­zio­ne capitale/lavoro. Que­sto è un argo­men­to di peso. Impie­gan­do la ter­mi­no­lo­gia di Marx, mol­ti di que­sti set­to­ri non sono sot­to­mes­si real­men­te al capi­ta­le, cioè quest’ultimo anco­ra non deter­mi­na com­ple­ta­men­te i suoi modi di lavo­ro. A que­sto riguar­do, si intro­du­ce una dif­fe­ren­zia­zio­ne rispet­to all’operaio sot­to­mes­so real­men­te, per­ché da una par­te essi appar­ten­go­no alla clas­se ope­ra­ia – ven­do­no cioè la loro forza‑lavoro, sono sala­ria­ti del capi­ta­le, pro­du­co­no plu­sva­lo­re – ma dall’altra anco­ra non si inte­gra­no pie­na­men­te, per­ché le loro con­di­zio­ni lavo­ra­ti­ve con­ser­va­no una dif­fe­ren­za. La dia­let­ti­ca ser­ve per acco­glie­re nell’assimilazione que­sti due aspet­ti fino a un cer­to pun­to con­tra­dit­to­ri e per cer­ca­re di deter­mi­na­re qua­le di essi pre­val­ga. Sot­to quest’aspetto, ciò che è deci­si­vo è la dina­mi­ca di que­sti set­to­ri. Nel trat­ta­re alcu­ni di que­sti casi com­ples­si, Marx adot­ta que­sto approc­cio. Ad esem­pio, scrive:

«[…] lo scrit­to­re che offre a un libra­io lavo­ro come in fab­bri­ca è un lavo­ra­to­re pro­dut­ti­vo. […] il let­te­ra­to pro­le­ta­rio di Lip­sia che pro­du­ce libri … per inca­ri­co del suo libra­io è pros­si­mo a esse­re un lavo­ra­to­re pro­dut­ti­vo, in quan­to la sua pro­du­zio­ne è sot­to­mes­sa al capi­ta­le e non vie­ne svol­ta se non per valo­riz­zar­lo»[34].

Nel­lo stes­so pas­sag­gio si rife­ri­sce subi­to dopo al can­tan­te e all’insegnante di scuo­la che lavo­ra­no per il capi­ta­li­sta, e li con­si­de­ra lavo­ra­to­ri pro­dut­ti­vi, ma aggiun­ge che «la mag­gior par­te di que­sti lavo­ra­to­ri, dal pun­to di vista for­ma­le, si sot­to­met­te solo for­mal­men­te al capi­ta­le: essi appar­ten­go­no alle for­me di tran­si­zio­ne»[35]. Si osser­vi il “let­te­ra­to pro­le­ta­rio”, pros­si­mo ad esse­re un lavo­ra­to­re pro­dut­ti­vo: la sua pro­du­zio­ne (non la moda­li­tà del suo lavo­ro) è sot­to­mes­sa al capi­ta­le e vie­ne svol­ta per valo­riz­zar­lo. Non è dun­que un pic­co­lo pro­prie­ta­rio che ven­de la sua mer­ce – il libro – come fareb­be un pro­dut­to­re indi­pen­den­te, ma è qual­cu­no che “va ver­so” la pro­le­ta­riz­za­zio­ne, non ver­so la sua sta­bi­liz­za­zio­ne in una nuo­va clas­se piccolo‑borghese. È una “for­ma di tran­si­zio­ne”, come era a quell’epoca quel­la dell’insegnante.
Que­sto cri­te­rio ser­ve per stu­dia­re casi dell’attualità, di pro­fes­sio­ni­sti con istru­zio­ne uni­ver­si­ta­ria sot­to­mes­si in manie­ra cre­scen­te al capi­ta­le. Le doman­de per­ti­nen­ti sono: si sono sta­bi­liz­za­ti in una for­ma indi­pen­den­te? Han­no sem­pre più l’opzione di sta­bi­liz­zar­si come pro­fes­sio­ni­sti indi­pen­den­ti? Esi­ste una ten­den­za all’ascesa dei loro red­di­ti, sì da pote­re smet­te­re di dipen­de­re dal­la ven­di­ta del­la loro forza‑lavoro?
Nei decen­ni suc­ces­si­vi alla secon­da Guer­ra mon­dia­le era com­pren­si­bi­le che si pen­sas­se che v’era una ten­den­za a una cre­scen­te dif­fe­ren­zia­zio­ne di que­sti set­to­ri sala­ria­ti rispet­to al lavo­ra­to­re manua­le dell’industria. In un perio­do di pro­spe­ri­tà gene­ra­le del capi­ta­li­smo, e di rela­ti­va for­za del­la clas­se ope­ra­ia, i set­to­ri qua­li­fi­ca­ti che si tra­sfor­ma­va­no in sala­ria­ti lo face­va­no in con­di­zio­ni mol­to favo­re­vo­li per la ven­di­ta del­la loro forza‑lavoro. Ma già negli anni 70 il lavo­ro intro­dut­ti­vo di Bra­ver­man dimo­stra­va che buo­na par­te degli impie­ga­ti era­no sot­to­mes­si in manie­ra cre­scen­te alle con­di­zio­ni impo­ste dal capi­ta­le. Da allo­ra, la ten­den­za si è accen­tua­ta per­ché com­pren­de sem­pre più pro­fes­sio­ni­sti alta­men­te qualificati.
Pren­dia­mo il caso degli inge­gne­ri, mate­ma­ti­ci, pro­gram­ma­to­ri e altro per­so­na­le spe­cia­liz­za­to in infor­ma­ti­ca. La gran par­te di loro lavo­ra per impre­se capi­ta­li­sti­che, pro­du­cen­do pro­gram­mi per com­pu­ter. Per­tan­to, sono lavo­ra­to­ri pro­dut­ti­vi: le mer­ci sono i pro­gram­mi che han­no valo­re d’uso e valo­re (lavo­ro di inda­gi­ne ed ela­bo­ra­zio­ne del pro­gram­ma). Ben­ché alcu­ni pio­nie­ri abbia­no avu­to suc­ces­so nel ren­der­si indi­pen­den­ti sta­bi­liz­zan­do­si in con­to pro­prio, nel­la misu­ra in cui si esten­de la pre­pa­ra­zio­ne di nuo­va mano­do­pe­ra e que­sta “si stan­dar­diz­za”, i tem­pi di pro­du­zio­ne indi­vi­dua­li si con­fron­ta­no sul mer­ca­to – attra­ver­so i valo­ri dei pro­dot­ti – e deb­bo­no adat­tar­si ai tem­pi di lavo­ro social­men­te neces­sa­ri impe­ran­ti nell’industria. Il siste­ma di istru­zio­ne capi­ta­li­sta pro­du­ce inge­gne­ri e tec­ni­ci, si con­fron­ta­no i lavo­ri, cre­sce l’offerta di mano­do­pe­ra qua­li­fi­ca­ta e la pres­sio­ne del capi­ta­le, e per­tan­to le con­di­zio­ni lavo­ra­ti­ve si omo­ge­neiz­za­no “ver­so il bas­so”. Que­sta è la dina­mi­ca nei posti in cui stan­no con­cen­tran­do­si mas­se di que­sti lavo­ra­to­ri: ad esem­pio, in India, Irlan­da e anche la miti­ca Sili­con Val­ley negli Usa.
Un altro caso tipi­co e d’attualità di per­so­na­le qua­li­fi­ca­to riguar­da i lavo­ra­to­ri dedi­ca­ti all’assistenza ai clien­ti, cioè per com­pi­ti di ser­vi­ce, ripa­ra­zio­ni, con­su­len­za, che lavo­ra­no in una rela­zio­ne capi­ta­li­sta. Per apprez­za­re la gran­dez­za che può rag­giun­ge­re que­sta for­za lavo­ro in alcu­ne impre­se, segna­lia­mo che solo l’IBM ha cir­ca 130.000 tec­ni­ci qua­li­fi­ca­ti e inge­gne­ri dedi­ca­ti a que­sti com­pi­ti. Anche que­sti sono lavo­ra­to­ri pro­dut­ti­vi nel vero sen­so del­la paro­la, sot­to­po­sti a con­di­zio­ni di cre­scen­te sot­to­mis­sio­ne dal capi­ta­le. Lo stes­so può dir­si del­la pre­sta­zio­ne di ser­vi­zi attra­ver­so la rete tele­fo­ni­ca o Inter­net, che è cre­sciu­ta espo­nen­zial­men­te negli Sta­ti Uni­ti e in Euro­pa (solo in Euro­pa, agli ini­zi del 1999, c’era più di un milio­ne di sala­ria­ti in que­sto set­to­re). In que­ste man­sio­ni abbon­da­no gli inge­gne­ri, lau­rea­ti in ammi­ni­stra­zio­ne e simi­li, sot­to­po­sti a inten­si rit­mi e con­di­zio­ni di pro­dut­ti­vi­tà “for­di­ste”. Mol­ti rea­liz­za­no com­pi­ti mono­to­ni e ripe­ti­ti­vi, per paghe che non supe­ra­no gli 800/1.000 dol­la­ri men­si­li; que­sti luo­ghi di lavo­ro sono moder­ne “swea­tshops”[36], con impie­ga­ti lega­ti a un com­pu­ter o una linea tele­fo­ni­ca. Si trat­ta di sala­ri che, in ter­mi­ni rela­ti­vi, sono equi­pa­ra­ti a quel­li che alcu­ni anni fa gua­da­gna­va­no i tor­ni­to­ri e i mec­ca­ni­ci manu­ten­to­ri nel­le impre­se; e mai nes­su­no ha soste­nu­to che que­sti non appar­te­nes­se­ro alla clas­se operaia.
Pren­dia­mo il caso del­le miglia­ia di bio­lo­gi, mate­ma­ti­ci, chi­mi­ci, fisi­ci, socio­lo­gi, sto­ri­ci, antro­po­lo­gi, asse­gna­ti alla ricer­ca. Sem­pre più spes­so, i lavo­ri di un’ampia mag­gio­ran­za di essi si ridu­co­no a man­sio­ni ruti­na­rie, par­zia­liz­za­te, che non per­met­to­no di dispie­ga­re ini­zia­ti­ve, né svi­lup­pa­re le capa­ci­tà; le loro “ricer­che” sono par­te di pro­gram­mi che essi non domi­na­no, che ven­go­no for­mu­la­ti dal­le sfe­re di dire­zio­ne del capi­ta­le o del­lo Sta­to. Come nei casi pre­ce­den­ti, nean­che le loro remu­ne­ra­zio­ni si distin­guo­no qua­li­ta­ti­va­men­te da quel­le di mol­ti lavoratori.
Così pure, sono assog­get­ta­ti sem­pre più al capi­ta­le docen­ti e mol­ti ope­ra­to­ri del­la sani­tà, per lo meno nel­la misu­ra in cui le con­di­zio­ni mate­ria­li di que­sti lavo­ri lo per­met­ta­no. Ci sono medi­ci, ad esem­pio, ai qua­li le cli­ni­che impon­go­no di assi­ste­re una deter­mi­na­ta quan­ti­tà media ora­ria di pazien­ti; rea­liz­za­no lavo­ri ultra par­zia­liz­za­ti, in cui per­do­no altre com­pe­ten­ze, rela­zio­na­te con una pra­ti­ca oli­sti­ca, che era una carat­te­ri­sti­ca del pro­fes­sio­ni­sta indi­pen­den­te (ben­ché que­sti fos­se uno spe­cia­li­sta). D’altro can­to, mol­ti docen­ti oggi inse­gna­no “a cot­ti­mo” per impre­se capi­ta­li­sti­che, pro­du­cen­do una mer­ce che si chia­ma “istru­zio­ne”. Sono lavo­ra­to­ri pro­dut­ti­vi, che ven­do­no la pro­pria for­za lavo­ro (e non han­no altra pos­si­bi­li­tà), rice­vo­no un sala­rio mino­re di mol­ti lavo­ra­to­ri manua­li per lo meno in mol­ti Pae­si dipen­den­ti – e nel­la loro azio­ne sin­da­ca­le han­no dovu­to avvi­ci­nar­si al tipo di azio­ne del resto dei lavoratori.
Natu­ral­men­te, è ancor più chia­ro, se si vuo­le, il caso dei lavo­ra­to­ri dei “ser­vi­zi” che alcu­ni auto­ri pure han­no col­lo­ca­to nel­la moder­na “clas­se media”[37]. Biso­gna ricor­da­re anco­ra una vol­ta che il carat­te­re pro­dut­ti­vo del lavo­ro non è dato dal con­te­nu­to mate­ria­le di ciò che si pro­du­ce, ma dal­la pro­du­zio­ne di plusvalore:

«… que­ste defi­ni­zio­ni [lavo­ro pro­dut­ti­vo e impro­dut­ti­vo] non deri­va­no dal­le carat­te­ri­sti­che mate­ria­li del lavo­ro, (né dal­la natu­ra del suo pro­dot­to, né dal carat­te­re spe­cia­le del lavo­ro come lavo­ro con­cre­to), ma dal­la for­ma socia­le defi­ni­ta, dal­le rela­zio­ni socia­li del pro­dut­to­re in cui egli rea­liz­za il suo lavo­ro. Un atto­re, ad esem­pio, per­fi­no un pagliac­cio, secon­do que­sta defi­ni­zio­ne, è un lavo­ra­to­re pro­dut­ti­vo se lavo­ra al ser­vi­zio di un capi­ta­li­sta (un impre­sa­rio) a cui devol­ve più lavo­ro di quan­to da lui rice­va sot­to for­ma di sala­rio; men­tre un sar­to che lavo­ri a domi­ci­lio, recan­do­si a casa del capi­ta­li­sta e ram­men­dan­do­gli i pan­ta­lo­ni, pro­du­ce un sem­pli­ce valo­re d’uso, sic­ché è un lavo­ra­to­re impro­dut­ti­vo»[38].

Così, i lavo­ra­to­ri del tra­spor­to, del­lo stoc­cag­gio, del­la puli­zia, dell’insegnamento, cura del­la salu­te, pre­pa­ra­zio­ne di ali­men­ti, sono pro­dut­ti­vi nel­la misu­ra in cui lavo­ra­no per impre­se capi­ta­li­ste e que­ste ven­do­no i loro “ser­vi­zi” come mer­ci. I rit­mi di lavo­ro in una cate­na Mc Donalds sono tan­to “for­di­sti” – ben­ché vi si pro­du­ca­no ham­bur­ger e pata­ti­ne frit­te – quan­to in una cate­na di mon­tag­gio in una fab­bri­ca di auto­mo­bi­li. La stra­gran­de mag­gio­ran­za di que­sti lavo­ra­to­ri “sod­di­sfa” dun­que i cri­te­ri fon­da­men­ta­li che defi­ni­sco­no la clas­se ope­ra­ia: ven­do­no la loro for­za lavo­ro, sono assog­get­ta­ti alla rela­zio­ne capi­ta­li­sta in tut­to ciò che riguar­da le con­di­zio­ni di lavo­ro, per­si­no sop­por­tan­do le con­di­zio­ni di pre­ca­riz­za­zio­ne lavo­ra­ti­va che subi­sce oggi il resto del­la clas­se operaia.

Lavo­ra­to­ri impro­dut­ti­vi sala­ria­ti dal capitale
Però il capi­ta­le non solo sfrut­ta colo­ro che pro­du­co­no plu­sva­lo­re, ma anche colo­ro che, sen­za pro­dur­ne, svol­go­no lavo­ri impre­scin­di­bi­li affin­ché pos­sa pro­dur­se­ne. Ci rife­ria­mo, in par­ti­co­la­re, agli impie­ga­ti nel­la sfe­ra del­la cir­co­la­zio­ne del­le mer­ci, del­la con­ta­bi­li­tà e del movi­men­to del denaro.
Intro­du­cia­mo qui una nuo­va deter­mi­na­zio­ne. Si trat­ta dei lavo­ri che si rela­zio­na­no non con la pro­du­zio­ne di valo­ri d’uso, ma con la for­ma socia­le in cui si pro­du­ce e si rea­liz­za il plu­sva­lo­re: cioè, con le for­me mer­ci e denaro.

Impie­ga­ti di isti­tu­ti di credito

La cate­go­ria di lavo­ro impro­dut­ti­vo si appli­ca, per lo meno, a due situa­zio­ni sot­to il capi­ta­li­smo. Da un lato, a quei lavo­ra­to­ri che sono paga­ti con ren­di­te, cioè che non sono sot­to­mes­si in una rela­zio­ne capi­ta­li­sti­ca. Dall’altro, a quel­li che, pur essen­do sot­to­mes­si in una rela­zio­ne capi­ta­li­sti­ca, non pro­du­co­no plu­sva­lo­re. La distin­zio­ne è impor­tan­te per­ché mol­ti ana­li­sti che segna­la­no che non si sareb­be veri­fi­ca­ta la pre­vi­sio­ne di Marx per quan­to attie­ne alla sem­pli­fi­ca­zio­ne pola­riz­za­ta del­le clas­si socia­li, dimen­ti­ca­no l’eliminazione pro­gres­si­va dei lavo­ra­to­ri impro­dut­ti­vi con­si­de­ra­ti nel pri­mo sen­so. Ne Il Capi­ta­le Marx fa rife­ri­men­to al cen­si­men­to del­la popo­la­zio­ne dell’Inghilterra e del Gal­les del 1861, secon­do cui, su un tota­le di 20 milio­ni di abi­tan­ti, 1,2 milio­ni era­no impie­ga­ti in ser­vi­zi dome­sti­ci; a quell’epoca, tut­to il per­so­na­le impie­ga­to nel­le minie­re di car­bo­ne e metal­li non arri­va­va a 600.000, e tut­to il per­so­na­le ope­ra­io impie­ga­to nel­le indu­strie di coto­ne, lana, fibre pet­ti­na­te, lino, cana­pa, seta, iuta e nel­la cal­zet­te­ria e mer­let­te­ria mec­ca­ni­ca supe­ra­va di poco i 640.000[39]. L’importanza rela­ti­va di que­sti lavo­ra­to­ri impro­dut­ti­vi sem­bra esse­re dimi­nui­ta in tut­ti i Pae­si in cui si è media­men­te svi­lup­pa­to il siste­ma capi­ta­li­sta, come già con­sta­ta­va Bot­to­mo­re nel lavo­ro citato.
Se si inclu­do­no nel­la clas­se dei capi­ta­li­sti gli impren­di­to­ri com­mer­cia­li o i ban­chie­ri (ben­ché le atti­vi­tà in cui essi impie­ga­no i loro capi­ta­li non sia­no fon­te diret­ta di plu­sva­lo­re), non c’è ragio­ne per non con­si­de­ra­re par­te del­la clas­se ope­ra­ia quei lavo­ra­to­ri impro­dut­ti­vi sot­to­mes­si alla rela­zio­ne capi­ta­li­sti­ca. Per­ciò, nono­stan­te nel XIX seco­lo gli impie­ga­ti del com­mer­cio e del­le ban­che non fos­se­ro anco­ra com­ple­ta­men­te sot­to­mes­si al capi­ta­le in rela­zio­ne alle loro con­di­zio­ni di lavo­ro, Marx non esi­tò a con­si­de­rar­li par­te del­la clas­se operaia:

«Da un lato un … lavo­ra­to­re com­mer­cia­le è un sala­ria­to come qual­sia­si altro. Innan­zi­tut­to in quan­to il lavo­ro vie­ne com­pe­ra­to dal capi­ta­le varia­bi­le del com­mer­cian­te, non dal dena­ro spe­so come red­di­to […]. In secon­do luo­go in quan­to il valo­re del­la sua forza‑lavoro […] è deter­mi­na­to come per tut­ti gli altri lavo­ra­to­ri sala­ria­ti […] Fra lui e l’operaio diret­ta­men­te impie­ga­to dal capi­ta­le indu­stria­le vi deve esse­re la stes­sa dif­fe­ren­za che sus­si­ste fra il capi­ta­li­sta indu­stria­le e il com­mer­cian­te»[40].

Ben­ché in que­sta deter­mi­na­zio­ne non ven­ga con­si­de­ra­to l’ammontare del­la remu­ne­ra­zio­ne dei lavo­ra­to­ri, è fuor di dub­bio che la mag­gio­ran­za di que­sti lavo­ra­to­ri ha visto un livel­la­men­to del­le pro­prie retri­bu­zio­ni con quel­le del resto del­la clas­se ope­ra­ia indu­stria­le; e in mol­ti casi è abba­stan­za al di sot­to di que­sta. A tale riguar­do, la ten­den­za alla pro­le­ta­riz­za­zio­ne appa­re chia­ra[41]. Se nel XIX seco­lo anco­ra era pos­si­bi­le con­fon­de­re gli impie­ga­ti con i “set­to­ri medi”[42], oggi­gior­no que­sto non è più pos­si­bi­le. Oggi, essi non han­no altra alter­na­ti­va se non offri­re la pro­pria forza‑lavoro; il loro lavo­ro è stan­dar­diz­za­to e vale sem­pre più come sem­pli­ce “spe­sa di forza‑lavoro”. Ben­ché non pro­du­ca­no valo­re, per­met­to­no al capi­ta­le di rispar­mia­re spe­se neces­sa­rie per l’appropriazione del plu­sva­lo­re. Di qui, la ten­den­za per­ma­nen­te del capi­ta­le com­mer­cia­le o ban­ca­rio ad abbas­sa­re il prez­zo del­la forza‑lavoro di que­sti impie­ga­ti per avan­za­re ver­so il declas­sa­men­to del­la mano­do­pe­ra. L’introduzione dell’automazione in ban­ca è un esem­pio di come si pun­ti a sot­to­met­te­re il lavo­ro di indi­vi­dui che in altri tem­pi veni­va­no con­si­de­ra­ti per­so­na­le qua­li­fi­ca­to. Più in gene­ra­le, il lavo­ro in uffi­cio mani­fe­sta la stes­sa ten­den­za. Come più di vent’anni fa dice­va Bra­ver­man, «i pro­ces­si del lavo­ro nel­la mag­gio­ran­za degli uffi­ci sono facil­men­te rico­no­sci­bi­li in ter­mi­ni indu­stria­li, come pro­ces­si a ciclo con­ti­nuo»[43]. Oggi, dap­per­tut­to si esi­go­no rit­mi di lavo­ro “da fab­bri­ca”, i padro­ni stu­dia­no meto­di per estrar­re fino all’ultima goc­cia di tem­po dispo­ni­bi­le dai loro eser­ci­ti di ven­di­to­ri, cas­sie­ri, archi­vi­sti. E allo­ra tut­ti que­sti set­to­ri deb­bo­no esse­re ricom­pre­si nel­la clas­se operaia.
Da ulti­mo, pre­sen­tia­mo una tabel­la, ela­bo­ra­ta da Die­go Guer­re­ro, rela­ti­va al gra­do di pro­le­ta­riz­za­zio­ne del­la forza‑lavoro nei Pae­si e negli anni sele­zio­na­ti, che inclu­de i disoc­cu­pa­ti come per­cen­tua­le del­la popo­la­zio­ne eco­no­mi­ca­men­te atti­va[44].

PAESI 1930‑1940 1974 1997
Sta­ti Uniti 78,2 (1939) 91,5 91,5
Giap­po­ne 41,0 (1936) 72,6 80,8
Ger­ma­nia 69,7 (1939) 84,5 (Rep. Fed.) 90,7
Regno Uni­to 88,1 (1931) 92,3 87,3
Fran­cia 57,2 (1936) 81,3 87,6
Ita­lia 51,6 (1936) 72,6 74,7
Cana­da 66,7 (1941) 89,2
Bel­gio 65,2 (1930) 84,5 83,6
Sve­zia 70,1 (1940) 91,0 94,7
Spa­gna 52,0 (1954) 68,4 81,0
Euro­pa a 15 84,3
Media sem­pli­ce

(8 Pae­si sen­za Canada)

65,1 83,2 86,4


Gli impie­ga­ti statali
Trat­tia­mo ora il caso degli impie­ga­ti sta­ta­li, la cui pro­du­zio­ne con­si­ste in ser­vi­zi che non sono mer­ci, come istru­zio­ne, sani­tà, manu­ten­zio­ne e sal­va­guar­dia di spa­zi pub­bli­ci, archi­vi e sta­ti­sti­che[45]: cioè quei lavo­ra­to­ri che sono impie­ga­ti nel­la ripro­du­zio­ne del­le con­di­zio­ni gene­ra­li che per­met­to­no lo sfrut­ta­men­to capi­ta­li­sta. Esclu­dia­mo dall’analisi colo­ro che occu­pa­no posti di dire­zio­ne – in posi­zio­ni api­ca­li o inter­me­die – nell’apparato sta­ta­le e quel­li impie­ga­ti negli orga­ni­smi di repres­sio­ne statale.
Wright ritie­ne che i lavo­ra­to­ri sta­ta­li deb­ba­no esse­re defi­ni­ti in una cate­go­ria socia­le diver­sa da quel­la dei sala­ria­ti del set­to­re pri­va­to. Argo­men­ta che, nel ven­de­re la loro forza‑lavoro, essi entra­no nel­la rela­zio­ne socia­le Stato‑lavoro (e non in quel­la capitale‑lavoro): sic­ché, que­sti lavo­ra­to­ri sta­reb­be­ro in una posi­zio­ne dua­le, deri­va­ta dal carat­te­re sta­ta­le del­la pro­du­zio­ne in cui sono impie­ga­ti. Wright rifiu­ta la con­ce­zio­ne del­la pro­du­zio­ne sta­ta­le come sfe­ra pub­bli­ca del­la pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta, soste­nen­do che ciò signi­fi­che­reb­be cade­re nel pec­ca­to di fun­zio­na­li­smo. Per que­sto, affer­ma che:

«l’articolazione di tali sfe­re (capi­ta­li­sta, dome­sti­ca, pubblico‑statale) sareb­be dun­que rego­la­ta da qual­che tipo di prin­ci­pio di inte­gra­zio­ne fun­zio­na­le. Sen­za tale prin­ci­pio fun­zio­na­le è dif­fi­ci­le com­pren­de­re come potrem­mo con­si­de­ra­re che la sfe­ra pub­bli­ca abbia una natu­ra fon­da­men­tal­men­te capi­ta­li­sta»[46].

Non con­di­vi­dia­mo que­sto cri­te­rio. Tan­to per comin­cia­re, è neces­sa­rio met­te­re da par­te il “fan­ta­sma” che ci è sta­to agi­ta­to davan­ti agli occhi negli ulti­mi anni sul peri­co­lo del “fun­zio­na­li­smo”. Una cosa è la cri­ti­ca del fun­zio­na­li­smo che sop­pri­me le con­trad­di­zio­ni e i con­flit­ti socia­li; un’altra è rifiu­tar­si di con­si­de­ra­re rela­zio­ni fun­zio­na­li rea­li. Ben­ché sia cer­to che le fun­zio­ni pro­dut­ti­ve[47] del­lo Sta­to non si ade­gua­no pla­sti­ca­men­te alle neces­si­tà del capi­ta­le, esi­ste una ten­den­za di quest’ultimo ad impor­re il suo sigil­lo. In altri ter­mi­ni, quan­tun­que non pos­sia­mo par­la­re di deri­va­zio­ne mec­ca­ni­ca dal­la logi­ca del­la valo­riz­za­zio­ne dal set­to­re pri­va­to capi­ta­li­sta al set­to­re pub­bli­co, c’è più di una mera costri­zio­ne del modo di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sta sul fun­zio­na­men­to dell’apparato sta­ta­le. Con tut­te le sue con­trad­di­zio­ni e osta­co­li, l’impulso che pro­vie­ne dal capi­ta­le sul­le fun­zio­ni del­lo Sta­to si è fat­to sem­pre più inten­so nel­la misu­ra in cui la rela­zio­ne capi­ta­li­sta è diven­ta­ta glo­ba­liz­za­ta – e con essa si è este­so a tut­te le sfe­re del­la dia­let­ti­ca del valo­re. Le pri­va­tiz­za­zio­ni del­le impre­se di ser­vi­zi pub­bli­ci costi­tui­sco­no un esem­pio di quest’impulso, ma lo è anche l’introduzione di cri­te­ri deri­va­ti dal­la sfe­ra pri­va­ta (capi­ta­li­sta) nel lavo­ro degli impie­ga­ti sta­ta­li: cri­te­ri di “effi­cien­za”, pre­ca­riz­za­zio­ne lavo­ra­ti­va cre­scen­te (lo Sta­to adot­ta il siste­ma dei con­trat­ti “spaz­za­tu­ra”), declas­sa­men­to acce­le­ra­to del­la manodopera.
Su que­sto pun­to è inte­res­san­te fare rife­ri­men­to a uno dei pochi pas­sag­gi in cui Marx ebbe a rife­rir­si agli ope­rai sta­ta­li. Marx trat­tò l’esempio dei costrut­to­ri di stra­de: era­no lavo­ra­to­ri impro­dut­ti­vi, dato che allo­ra le stra­de non veni­va­no ven­du­te come mer­ce e per­tan­to il lavo­ro che le pro­du­ce­va non gene­ra­va valo­re, né plu­sva­lo­re. Era un lavo­ro indi­spen­sa­bi­le per il fun­zio­na­men­to capi­ta­li­sta, ma che non era sta­to posto nell’orbita del capi­ta­le. Per­ciò Marx affer­mò che que­sti lavo­ra­to­ri si tro­va­va­no in un’altra rela­zio­ne eco­no­mi­ca rispet­to ai sala­ria­ti del capi­ta­le, ma aggiun­se che era­no sala­ria­ti libe­ri “come ogni altro”, che ren­de­va­no plu­sla­vo­ro, ben­ché que­sto tem­po di plu­sla­vo­ro con­te­nu­to nel pro­dot­to fos­se «impos­si­bi­le da scam­bia­re. Per l’operaio stes­so, para­go­na­to agli altri sala­ria­ti, si trat­ta di plu­sla­vo­ro»[48]. Tut­ta­via, Marx non svi­lup­pò que­sti con­cet­ti, che lascia­no aper­ti alcu­ni inter­ro­ga­ti­vi ai qua­li dob­bia­mo cer­ca­re di rispon­de­re. Il prin­ci­pa­le di essi si rife­ri­sce a come si può sape­re che c’è “plu­sla­vo­ro” nel­la socie­tà capi­ta­li­sta quan­do non c’è pro­du­zio­ne di valore.

Impie­ga­ti statali

For­se, un modo per risol­ve­re la que­stio­ne è osser­va­re ciò che di fat­to sta facen­do oggi il capi­ta­li­smo, cioè com­pa­ra­re i pro­dot­ti di que­sti lavo­ra­to­ri con quel­li di carat­te­ri­sti­che simi­la­ri che ven­go­no pro­dot­ti nel set­to­re pri­va­to. Con­ti­nuan­do con l’esempio del­la costru­zio­ne di stra­de, si può cal­co­la­re la quan­ti­tà di plu­sla­vo­ro impli­ci­to di cui si appro­pria la clas­se capi­ta­li­sta, a par­ti­re dal plu­sva­lo­re di cui si appro­pria­no le impre­se costrut­tri­ci a capi­ta­le pri­va­to, che ven­do­no stra­de median­te il siste­ma di pedag­gi. All’epoca in cui Marx scri­ve­va, que­sta com­pa­ra­zio­ne era impos­si­bi­le; e per­ciò, for­se, in quel momen­to la sua affer­ma­zio­ne sul plu­sla­vo­ro degli ope­rai sta­ta­li era più un’ipotesi (plau­si­bi­le, a nostro avvi­so) che un fat­to dimo­stra­to. Ma oggi, con la ten­den­za all’imposizione del­la logi­ca di mer­ca­to que­sta com­pa­ra­zio­ne si rea­liz­za di fat­to in ogni momen­to (ad esem­pio, col costan­te rife­ri­men­to e richie­sta di “effi­cien­ti­smo” nell’orbita del­lo Sta­to). Essa costi­tui­sce un impul­so siste­mi­co, che si ali­men­ta nel­le rela­zio­ni di pro­du­zio­ne domi­nan­ti[49]. Così si spie­ga che gli inse­gnan­ti pub­bli­ci e i lavo­ra­to­ri sta­ta­li del­la sani­tà sia­no sem­pre più sot­to­mes­si agli stes­si cri­te­ri di effi­cien­za dei loro omo­lo­ghi del set­to­re pri­va­to. Ciò spie­ga anche la comu­nan­za di inte­res­si fra i sala­ria­ti sta­ta­li e pri­va­ti. Ci sono sem­pre meno dif­fe­ren­ze tra gli uni e gli altri. I lavo­ra­to­ri sta­ta­li pas­sa­no al set­to­re pri­va­to e quel­li del set­to­re pri­va­to a quel­lo sta­ta­le sen­za per­ciò cam­bia­re la loro situa­zio­ne di clas­se, né le con­di­zio­ni più gene­ra­li del loro rispet­ti­vo lavo­ro (nell’istruzione e nell’insegnamento ciò è par­ti­co­lar­men­te evidente).
Diver­sa è la situa­zio­ne degli indi­vi­dui impie­ga­ti negli orga­ni­smi di repres­sio­ne. La discus­sio­ne è impor­tan­te dal pun­to di vista poli­ti­co, per­ché alcu­ne cor­ren­ti del­la sini­stra […] pre­ten­do­no di con­si­de­rar­li come lavo­ra­to­ri, con lo stes­so sta­tu­to socia­le di qual­sia­si altro impie­ga­to sta­ta­le: di qui il ten­ta­ti­vo di orga­niz­za­re sin­da­cal­men­te i poli­ziot­ti (sot­tuf­fi­cia­li e agen­ti), come se si potes­se­ro radi­ca­liz­za­re le loro riven­di­ca­zio­ni e inte­grar­li nel movi­men­to ope­ra­io. Tra gli argo­men­ti addot­ti, c’era quel­lo che si trat­ta­va di ven­di­to­ri di forza‑lavoro, sfrut­ta­ti indi­ret­ta­men­te dal capi­ta­le e dal­lo Stato.
Il pro­ble­ma di quest’argomento è che dimen­ti­ca che in que­sto caso la fun­zio­ne repres­si­va svol­ta da que­sti indi­vi­dui deter­mi­na un’esistenza socia­le che in nes­sun modo può esse­re assi­mi­la­ta alla situa­zio­ne del­la clas­se ope­ra­ia. La logi­ca del­la poli­zia, e di cor­pi simi­la­ri, è la repres­sio­ne e la pre­pa­ra­zio­ne per con­dur­re la guer­ra di clas­se in dife­sa del­la pro­prie­tà pri­va­ta. La loro situa­zio­ne “strut­tu­ra­le” col­lo­ca, all’inizio, que­sti indi­vi­dui con­tro la clas­se ope­ra­ia. Altra que­stio­ne è se, nel cor­so di un acu­to pro­ces­so rivo­lu­zio­na­rio, alcu­ni set­to­ri ven­go­no neu­tra­liz­za­ti oppu­re gua­da­gna­ti alla clas­se ope­ra­ia e alle mas­se popo­la­ri. Ma si trat­te­reb­be di una situa­zio­ne di rot­tu­ra, di frat­tu­ra o implo­sio­ne del­le isti­tu­zio­ni, gene­ra­ta da un’estrema acu­tiz­za­zio­ne del­la lot­ta di clas­se. Uno sce­na­rio mol­to lon­ta­no dal­la situa­zio­ne “nor­ma­le” che carat­te­riz­za il fun­zio­na­men­to quo­ti­dia­no del modo di pro­du­zio­ne capitalista.

Il per­so­na­le inter­me­dio del­le impre­se e del­lo Stato
In pre­ce­den­za, ave­va­mo fat­to rife­ri­men­to alla situa­zio­ne dei sala­ria­ti di car­rie­ra di impre­se – inge­gne­ri, tec­ni­ci spe­cia­liz­za­ti – che abbia­mo ricom­pre­so nel­la clas­se ope­ra­ia nel­la misu­ra in cui rea­liz­za­no com­pi­ti tecnico‑produttivi, cioè che riguar­da­no la tra­sfor­ma­zio­ne dei valo­ri d’uso. Tut­ta­via, in ogni impre­sa capi­ta­li­sta esi­ste un ampio set­to­re di capi­re­par­to, super­vi­so­ri e simi­li che svol­go­no un com­pi­to pro­dut­ti­vo solo in par­te, per­ché que­sto si com­bi­na con fun­zio­ni che deri­va­no dal carat­te­re anta­go­ni­sti­co del­la rela­zio­ne di sfrut­ta­men­to capi­ta­li­sti­co. È chia­ro che mol­ti tec­ni­ci e inge­gne­ri si tro­va­no in que­sta situa­zio­ne. Fin quan­do le loro fun­zio­ni deri­va­no dal­le neces­si­tà del pro­ces­so pro­dut­ti­vo, han­no carat­te­ri che li avvi­ci­na­no alla clas­se ope­ra­ia; ma quan­do svol­go­no fun­zio­ni di vigi­lan­za e con­trol­lo, si oppon­go­no alla clas­se ope­ra­ia e si assi­mi­la­no alla clas­se pro­prie­ta­ria dei mez­zi di pro­du­zio­ne. Da qui deri­va una posi­zio­ne di clas­se con­trad­dit­to­ria, che si pla­sma nel fat­to che in buo­na misu­ra que­sti set­to­ri non solo rice­vo­no in paga­men­to il valo­re di una forza‑lavoro qua­li­fi­ca­ta, ma un di più in quan­to con­tri­bui­sco­no al com­pi­to di sfrut­ta­men­to del­la clas­se ope­ra­ia. Per que­sta ragio­ne, in que­sto caso sì, pos­sia­mo par­la­re di “moder­na clas­se media”, o di media o pic­co­la bor­ghe­sia. L’aggettivo “moder­na” si giu­sti­fi­ca per­ché essi sono un pro­dot­to del­lo svi­lup­po capi­ta­li­sta, a dif­fe­ren­za del­la pic­co­la bor­ghe­sia pro­prie­ta­ria dei suoi mez­zi di pro­du­zio­ne, che ten­de ad esse­re spaz­za­ta via (ben­ché non ven­ga mai meno la con­tro­ten­den­za alla sua per­ma­nen­te resur­re­zio­ne dal­le cene­ri del­la ban­ca­rot­ta). È impor­tan­te tene­re a men­te que­sta dif­fe­ren­zia­zio­ne rispet­to alla clas­se ope­ra­ia pro­dut­ti­va, come vedre­mo in segui­to nel­la nostra discus­sio­ne su alcu­ne cate­go­rie di ana­li­si che ven­go­no impie­ga­te, ad esem­pio, da […] ana­li­sti socia­li e cor­ren­ti politiche.
Nel­lo Sta­to tro­via­mo il cor­re­la­to di que­sti set­to­ri inter­me­di, anch’essi in posi­zio­ni contraddittorie.

Il per­so­na­le diret­ti­vo del­le impre­se e del­lo Stato
Più chia­ra di quel­la pre­ce­den­te è la situa­zio­ne dei diri­gen­ti e del per­so­na­le diret­ti­vo. Il tema meri­ta di esse­re discus­so per­ché i lea­der rifor­mi­sti e con­ci­lia­to­ri del movi­men­to ope­ra­io e mol­ti intel­let­tua­li “pro­gres­si­sti” han­no pun­ta­to sul­le “vir­tù” dei diri­gen­ti d’impresa. Si è rite­nu­to che essi avreb­be­ro obiet­ti­vi oppo­sti rispet­to a quel­li degli azio­ni­sti, per­ché sareb­be­ro inte­res­sa­ti allo svi­lup­po del­le impre­se, piut­to­sto che rispon­de­re stret­ta­men­te alla logi­ca del­la valo­riz­za­zio­ne del capi­ta­le. Costi­tui­reb­be­ro una sor­ta di clas­se media “illu­mi­na­ta”, che il movi­men­to ope­ra­io dovreb­be pun­ta­re a incor­po­ra­re come allea­ta per una futu­ra tra­sfor­ma­zio­ne rivo­lu­zio­na­ria. Così, dif­fe­ren­zian­do­lo dal­la clas­se capi­ta­li­sta, Bot­to­mo­re inclu­de lo stra­to degli ammi­ni­stra­to­ri nel­le “nuo­ve clas­si medie”[50]. Wright, da par­te sua, con­si­de­ra che i diri­gen­ti si tro­va­no in «una posi­zio­ne con­trad­dit­to­ria nel­le rela­zio­ni di clas­se che com­bi­na pra­ti­che capi­ta­li­ste e ope­ra­ie», per­ché essi non sono pro­prie­ta­ri dei mez­zi di pro­du­zio­ne e sono sala­ria­ti[51].
Non pos­sia­mo esse­re d’accordo con que­ste posi­zio­ni. I diri­gen­ti d’impresa – a livel­lo diret­ti­vo – appar­ten­go­no alla clas­se capi­ta­li­sta. Men­tre l’azionista rap­pre­sen­ta la pro­prie­tà del capi­ta­le, il diri­gen­te d’azienda «rap­pre­sen­ta uni­ca­men­te il capi­ta­le ope­ran­te … è la sua per­so­ni­fi­ca­zio­ne, in quan­to esso ope­ra ed esso ope­ra in quan­to vie­ne inve­sti­to»[52]. Ben­ché il diri­gen­te d’impresa rice­va uno sti­pen­dio, quest’ultimo è la for­ma che adot­ta una par­te del plu­sva­lo­re (che figu­ra come pro­fit­to d’impresa). Si osser­vi anco­ra una vol­ta che il cri­te­rio che qui adot­tia­mo non è quel­lo del­la mera pro­prie­tà dei mez­zi di pro­du­zio­ne inte­sa in manie­ra sta­ti­ca, ben­sì quel­lo del­la pro­prie­tà in quan­to dà ori­gi­ne e fun­zio­na come pote­re coer­ci­ti­vo indi­pen­den­te rispet­to a sala­ria­to nell’estrazione di lavo­ro ecce­den­te.
D’altra par­te, la real­tà del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo veri­fi­ca com­piu­ta­men­te la giu­stez­za di que­sta con­ce­zio­ne di Marx sull’appartenenza di clas­se del per­so­na­le diret­ti­vo. Siste­ma­ti­ca­men­te, gli alti diri­gen­ti del­le impre­se – spe­cial­men­te negli Sta­ti Uni­ti – ven­go­no paga­ti non solo con lo sti­pen­dio, ma anche con il tra­sfe­ri­men­to di enor­mi som­me di valo­ri in azio­ni del­le impre­se che essi diri­go­no. In tal modo, i loro inte­res­si, come quel­li degli azio­ni­sti, sono cen­tra­ti nel­la valo­riz­za­zio­ne del­le com­pa­gnie da loro gesti­te e le loro entra­te si inscri­vo­no in tut­ta evi­den­za nel­la cate­go­ria dei pro­fit­ti del­la clas­se capi­ta­li­sta. Qual­co­sa di simi­le si veri­fi­ca col per­so­na­le diret­ti­vo del­lo Sta­to (mini­stri, pre­si­den­te, depu­ta­ti, supre­mi giu­di­ci, fun­zio­na­ri di dire­zio­ne). In que­sto caso, l’appropriazione di plu­sva­lo­re è media­ta dal­la fun­zio­ne che essi occu­pa­no; ma si assi­mi­la­no alla clas­se capi­ta­li­sta anche a par­ti­re dal­la fun­zio­ne di dire­zio­ne del­le leve del­lo Stato.
[…]

A mo’ di conclusione
Affer­ma­re l’esistenza del­la clas­se ope­ra­ia – e la cre­sci­ta in esten­sio­ne e pro­fon­di­tà del­le rela­zio­ni capitale‑lavoro – non impli­ca soste­ne­re che essa abbia, o “deb­ba ave­re”, coscien­za di clas­se (cioè, coscien­za del carat­te­re anta­go­ni­sti­co incon­ci­lia­bi­le dei suoi inte­res­si rispet­to agli inte­res­si del capi­ta­le). Solo la rela­zio­ne di sfrut­ta­men­to offre la pos­si­bi­li­tà mate­ria­le che que­sta coscien­za ven­ga acqui­si­ta. Non ne deter­mi­na mec­ca­ni­ca­men­te e in manie­ra linea­re il sor­ge­re. Nel­la que­stio­ne del­la coscien­za di clas­se, del­la coscien­za socia­li­sta, entra­no in gio­co espe­rien­ze poli­ti­che d’altro tipo che qui non con­si­de­ria­mo. Ma soste­nia­mo che un com­po­nen­te nel­la pre­sa di coscien­za socia­li­sta è la spie­ga­zio­ne – “avan­guar­di­sta”, secon­do il cri­te­rio “alla Thomp­son” – dell’esistenza obiet­ti­va del­la clas­se ope­ra­ia e del­la dina­mi­ca socia­le che discen­de dal­le ten­den­ze ogget­ti­ve dell’accumulazione capi­ta­li­sta (mon­dia­liz­za­zio­ne del­la clas­se ope­ra­ia, esten­sio­ne). Così come del­la for­za mate­ria­le che ciò com­por­ta. Il fat­to è che la pro­le­ta­riz­za­zio­ne di tec­ni­ci, intel­let­tua­li e pro­fes­sio­ni­sti gene­ra una for­za pro­dut­ti­va di poten­zia­li­tà tra­sfor­ma­tri­ci come mai pri­ma sto­ri­ca­men­te una clas­se sfrut­ta­ta ha avuto.
Se si pen­sa per un atti­mo alle immen­se dif­fi­col­tà che, dopo la rivo­lu­zio­ne del 1917, i bol­sce­vi­chi incon­tra­ro­no per far ripar­ti­re l’economia a cau­sa del­la man­can­za di per­so­na­le qua­li­fi­ca­to, si com­pren­de­rà l’importanza del tema. Anche dal pun­to di vista poli­ti­co, di pro­pa­gan­da e del­la lot­ta ideo­lo­gi­ca, del­la pre­sa di coscien­za del­la poten­zia­li­tà tra­sfor­ma­tri­ce, la que­stio­ne del­la deter­mi­na­zio­ne mar­xi­sta del con­cet­to di clas­se ope­ra­ia è fon­da­men­ta­le. Rispet­to a colo­ro i qua­li sosten­go­no che la clas­se ope­ra­ia non può tra­sfor­ma­re il mon­do per­ché non ne è capa­ce, per­ché non pos­sie­de l’intelligenza, la cul­tu­ra e l’abilità per far­lo, resta dimo­stra­to che le for­ze del lavo­ro sala­ria­to muo­vo­no tut­te le leve dell’apparato eco­no­mi­co (com­pre­se quel­le del­la sani­tà, dell’istruzione, del­la ricer­ca) e han­no per­tan­to in sé la poten­zia­li­tà di tra­sfor­mar­si come clas­se, di ele­va­re in futu­ro tut­ti i suoi mem­bri sul pia­no del mas­si­mo svi­lup­po del­le poten­zia­li­tà umane.


[*] Rolan­do Asta­ri­ta è uno stu­dio­so mar­xi­sta di eco­no­mia. Inse­gna all’Università di Quil­mes (Argen­ti­na) e di Bue­nos Aires.


Note

[1] K. Marx, F. Engels, Mani­fe­sto del par­ti­to comu­ni­sta.
[2] La tesi del­la cre­sci­ta del­la mise­ria rela­ti­va è con­te­nu­ta nel­la teo­ria del plu­sva­lo­re rela­ti­vo; anche nel­la visio­ne dell’accumulazione, nel capi­to­lo 23 del Capi­ta­le, insie­me alla descri­zio­ne del­la mise­ria in ter­mi­ni asso­lu­ti di colo­ro che entra­no nell’esercito dei disoc­cu­pa­ti. Il con­cet­to rela­ti­vo del­la pover­tà in Marx può esse­re con­sul­ta­to in Sala­rio, prez­zo e pro­fit­to.
[3] In sen­so stret­to “pro­le­ta­rio” è colui che dispo­ne solo di una discen­den­za. Per que­sto Engels, ver­so la fine del­la sua vita, rico­no­sce­va che era più appro­pria­to par­la­re di clas­se ope­ra­ia che di clas­se pro­le­ta­ria; ciò accre­di­ta l’interpretazione a pro­po­si­to del fat­to che Marx ed Engels fini­ro­no per respin­ge­re la tesi dell’impoverimento asso­lu­to e linea­re dell’insieme dei salariati.
[4] E.P. Thomp­son: Tra­di­ción, revuel­ta y con­cien­cia de cla­se, Bar­ce­lo­na, Crí­ti­ca, 1979, p. 34.
[5] Ibi­dem, p. 37.
[6] Le teo­rie “scien­ti­fi­che” del neo­li­be­ra­li­smo (mone­ta­ri­ste, offer­ti­ste, nuo­vi clas­si­ci, ecc.) han­no espres­so – ben­ché in manie­ra distor­ta – gli inte­res­si del­la clas­se domi­nan­te per supe­ra­re i pro­ble­mi affron­ta­ti dall’accumulazione del capi­ta­le dagli anni 70. Il capi­ta­le ha dimo­stra­to di ave­re un’acuta coscien­za “pra­ti­ca” dei suoi inte­res­si, li ha espres­si con non trop­pa chia­rez­za e ha “lot­ta­to” (con un’offensiva su tut­ti i fron­ti con­tro il lavo­ro) por imporli.
[7] K. Marx, Il Capi­ta­le, libro pri­mo, Edi­to­ri Riu­ni­ti, 1994, p. 634.
[8] Idem, p. 629.
[9] Si veda, ad esem­pio, J. Robin­son, “La teo­ría del valor tra­ba­jo: un comen­ta­rio”, in Mon­thly Review, ver­sio­ne ori­gi­na­le in ingle­se, dicem­bre 1977, ripro­dot­ta nell’edizione in spa­gno­lo. Di Gare­gna­ni “La rea­li­dad de la explo­ta­ción”, in Gare­gna­ni e altri, Deba­te sobre la teo­ría mar­xi­sta del valor, Mes­si­co, Pasa­do y Pre­sen­te, 1979. Un altro noto auto­re neo­ri­car­dia­no che rifiu­ta la teo­ria del valo­re come base del­la nozio­ne di sfrut­ta­men­to è Geoff Hodg­son, “A Theo­ry of Exploi­ta­tion Without the Labour Theo­ry of Value”, in Scien­ce & Socie­ty, 1980, n. 2.
[10] Con il suo carat­te­ri­sti­co prag­ma­ti­smo J. Robin­son si doman­da­va «per­ché abbia­mo biso­gno del valo­re per mostra­re che pos­so­no pro­dur­si bene­fi­ci nell’industria al di là del loro costo di pro­du­zio­ne, o per spie­ga­re il pote­re che pos­sie­do­no colo­ro che dispon­go­no di dena­ro o altre risor­se finan­zia­rie di tiran­neg­gia­re quel­li che non li pos­sie­do­no?»: v. op. cit.
[11] Gli sraf­fia­ni dimo­stra­no che in un siste­ma capi­ta­li­sta è pos­si­bi­le deter­mi­na­re tas­so di pro­fit­to e prez­zi sen­za pas­sa­re per la teo­ria del valo­re lavo­ro, data una tec­no­lo­gia e dota­zio­ni di lavo­ro, e fis­sa­to il sala­rio in manie­ra eso­ge­na. Inol­tre, dimo­stra­no che gli inte­res­si del sala­ria­to e del capi­ta­li­sta sono oppo­sti, poi­ché l’aumento del sala­rio impli­ca la cadu­ta del profitto.
[12] Per que­sto Gare­gna­ni con­si­de­ra anche irri­le­van­te la que­stio­ne del lavo­ro per spie­ga­re lo sfrut­ta­men­to nel­le socie­tà pre­ca­pi­ta­li­ste. «… la vera ragio­ne per cui in gene­ra­le si accet­ta che le entra­te del signo­re feu­da­le sono il risul­ta­to di uno sfrut­ta­men­to del lavo­ro socia­le sta nel fat­to che tali entra­te si basa­no uni­ca­men­te in ciò: che non è per­mes­so ai ser­vi del­la gle­ba di appro­priar­si di quel­lo che pro­du­co­no»: op. cit., p. 57.
[13] Gare­gna­ni insi­ste sul fat­to che è un erro­re pen­sa­re che «tut­ti i beni sono il pro­dot­to del lavo­ro uma­no», come Böhm Bawerk ave­va impu­ta­to a Marx: op. cit., pp. 44–45.
[14] Anche Marx si vide obbli­ga­to a ricor­da­re la “ovvie­tà”, che cade sem­pre nel “dimen­ti­ca­to­io” nel­le socie­tà sfrut­ta­tri­ci: «per­fi­no un bam­bi­no sa» che se un Pae­se smet­tes­se di lavo­ra­re «non dico per un anno, ma per poche set­ti­ma­ne, si mori­reb­be»: let­te­ra del 1868 a Kugelman.
[15] K. Marx, Teo­rías de la plu­sva­lía, t. I, Bue­nos Aires, Car­ta­go, p.42.
[16] K. Marx, Il Capi­ta­le, cit., p. 269.
[17] Una visio­ne affi­ne alla teo­ria neo­clas­si­ca del­la armo­nia di clas­se. La fun­zio­ne di pro­du­zio­ne neo­clas­si­ca “da con­to” di entra­te dif­fe­ren­zia­te dei grup­pi socia­li, sen­za che ciò impli­chi nes­su­na nozio­ne di sfrut­ta­men­to, y quin­di di anta­go­ni­smo social. Già Marx respin­ge­va, nel suo famo­so capi­to­lo incon­clu­so sul­le clas­si socia­li, al ter­mi­ne del ter­zo libro de Il Capi­ta­le, le basi del­la ripar­ti­zio­ne di clas­se secon­do le fon­ti di entrate.
[18] Gid­dens, La estruc­tu­ra de cla­ses en las socie­da­des avan­za­das Madrid, Alian­za, 1996, p. 30.
[19] K. Marx, op. ult. cit., p. 250.
[20] Marx affer­ma che il lavo­ro è la con­di­zio­ne di esi­sten­za del capi­ta­le: «capi­ta­le in quan­to capi­ta­le esso lo è sol­tan­to in rela­zio­ne all’operaio attra­ver­so il con­su­mo del lavo­ro» (K. Marx, Grun­dris­se, vol. I, PGre­co edi­zio­ni, 2012, p.256).
[21] Come dice Marx, «il carat­te­re eco­no­mi­co dell’operaio è dato dun­que dall’esser … ope­ra­io in anti­te­si con il capi­ta­li­sta» (op. ult. cit., vol. I, p. 245 e s.).
[22] E.O. Wright con­si­de­ra che uno dei pun­ti for­ti del­la teo­ria di Roe­mer è aver tol­to di mez­zo ogni nozio­ne di domi­nio per defi­ni­re lo sfrut­ta­men­to. V. Wright, “¿Qué hay de medio en la cla­se media?” in Zona Abier­ta, gennaio‑giugno 1985, p. 108.
[23] Roe­mer, Valor, Explo­ta­ción y Cla­se, Mes­si­co, FCE, 1989. Uti­liz­zan­do la teo­ria dei gio­chi e l’algebra, Roe­mer sostie­ne che il plu­sva­lo­re può «esse­re il risul­ta­to com­pe­ti­ti­vo del­la otti­miz­za­zio­ne indi­vi­dua­le rispet­to alle restri­zio­ni date del­la pro­prie­tà» (p. 31). In tal modo può esser­ci sfrut­ta­men­to a par­ti­re dal­lo scam­bio dise­gua­le. Come dice Roe­mer, « lo sfrut­ta­men­to non è un’idea sul tra­sfe­ri­men­to del lavo­ro, ma sul­la distri­bu­zio­ne dise­gua­le del­la pro­prie­tà» (p. 113). Una cri­ti­ca alla teo­ria del­lo sfrut­ta­men­to di Roe­mer si può tro­va­re in E. Meik­sins Wood, “Ratio­nal Choi­se Mar­xi­sm: Is the Game Worth the Cand­le”, in New Left Review, n. 177, 1989.
[24] Pri­va­ta del­le con­di­zio­ni mate­ria­li di pro­du­zio­ne, la forza‑lavoro è «pover­tà asso­lu­ta … non come indi­gen­za, ma come tota­le esclu­sio­ne del­la ric­chez­za mate­ria­le»; ma, al con­tem­po, «è la pos­si­bi­li­tà gene­ra­le del­la ric­chez­za come sog­get­to e come atti­vi­tà» (K. Marx, op. ult. cit., vol. I, p. 244 e s.).
[25] K. Marx, Il Capi­ta­le, cit., p. 348.
[26] K. Marx, Teo­rías, cit., t. I, p. 79.
[27] Ricor­dia­mo che, in base alle teo­rie del­lo scam­bio disu­gua­le tra Pae­si, in pas­sa­to alcu­ni auto­ri han­no anche par­la­to di sfrut­ta­men­to del­le nazio­ni “pro­le­ta­rie” ad ope­ra di Pae­si “bor­ghe­si”.
[28] Wright, Zona Abier­ta, gennaio‑giugno 1985, p. 108 […].
[29] Ben­ché, a dif­fe­ren­za dei mar­xi­sti ana­li­ti­ci, che han­no discus­so a lun­go la teo­ria di Marx, il Mas non si è pre­so il distur­bo di cri­ti­ca­re la posi­zio­ne che abbandonava.
[30] Tra gli altri, l’esempio del­la rivo­lu­zio­ne rus­sa è emble­ma­ti­co. Buo­na par­te del­le con­trad­di­zio­ni del­la rivo­lu­zio­ne tro­vò ori­gi­ne in quest’oggettivo con­flit­to di inte­res­si. Le poli­ti­che pro­po­ste dal par­ti­to bol­sce­vi­co per cer­ca­re di supe­rar­lo pos­so­no esse­re segui­te attra­ver­so gli scrit­ti di Lenin suc­ces­si­vi alla rivo­lu­zio­ne. Ben­ché non pos­sia­mo svi­lup­pa­re qui il tema, le pro­po­ste del lea­der bol­sce­vi­co sul­la coo­pe­ra­zio­ne avan­za­te ver­so la fine del­la sua vita sono di par­ti­co­la­re inte­res­se per ciò che sug­ge­ri­sco­no come pos­si­bi­li­tà per un futu­ro supe­ra­men­to del­la con­trad­di­zio­ne posta. Natu­ral­men­te, le “coo­pe­ra­ti­ve” sta­li­ni­ste, fero­ce­men­te impo­ste con la col­let­ti­viz­za­zio­ne for­za­ta, era­no l’opposto del­la poli­ti­ca che ver­so la fine del­la sua vita Lenin sta­va disegnando.
[31] In uno scrit­to com­me­mo­ra­ti­vo in occa­sio­ne dei novant’anni del Mani­fe­sto comu­ni­sta, Tro­tsky soste­ne­va che «… lo svi­lup­po del capi­ta­li­smo ha acce­le­ra­to all’estremo il sor­ge­re di legio­ni di tec­ni­ci, ammi­ni­stra­to­ri, impie­ga­ti del com­mer­cio, in sin­te­si, la cosid­det­ta “nuo­va clas­se media”». Si noti l’assimilazione di tec­ni­ci e impie­ga­ti del com­mer­cio con gli “ammi­ni­stra­to­ri”.
[32] Le poten­zia­li­tà rivo­lu­zio­na­rie si sareb­be­ro per­ciò anni­da­te in seno agli esclu­si dal siste­ma, i con­te­sta­to­ri, e fon­da­men­tal­men­te nel­le gran­di mas­se con­ta­di­ne e sen­za radi­ci del­la peri­fe­ria capi­ta­li­sta, il cosid­det­to “ter­zo mondo”.
[33] Secon­do Bot­to­mo­re, agli ini­zi del XIX seco­lo cir­ca l’80% del­la popo­la­zio­ne lavo­ra­tri­ce, esclu­si gli schia­vi di colo­re, pos­se­de­va i mez­zi di pro­du­zio­ne. Negli anni 60 quest’autore con­sta­ta­va che «un seco­lo e mez­zo di tra­sfor­ma­zio­ne eco­no­mi­ca ha distrut­to la mag­gio­ran­za dei fon­da­men­ti su cui ripo­sa­va l’ideologia ugua­li­ta­ria». Wright Mills scri­ve­va che «negli ulti­mi cent’anni gli Usa han­no ces­sa­to di esse­re una nazio­ne di pic­co­li capi­ta­li­sti per diven­ta­re una nazio­ne di impie­ga­ti sti­pen­dia­ti» (cita­to da T.B. Bot­to­mo­re, Las cla­ses en la socie­dad moder­na, Bue­nos Aires, La Pleya­de, 1973, pp. 73‑75). Da allo­ra que­sta ten­den­za è con­ti­nua­ta. In par­ti­co­la­re, la cri­si degli anni 80 ha col­pi­to for­te­men­te le cam­pa­gne, appro­fon­den­do il fal­li­men­to di con­ta­di­ni e la con­cen­tra­zio­ne del­la pro­prie­tà. Attual­men­te, il 75% del­la pro­du­zio­ne è rea­liz­za­to solo dal 17% del­le azien­de agricole.
[34] K. Marx, Capí­tu­lo VI Iné­di­to, pp. 84‑85.
[35] Ibi­dem.
[36] In ingle­se nel testo ori­gi­na­le. L’espressione può esse­re resa in ita­lia­no con “fab­bri­che sfrut­ta­tri­ci di mano­do­pe­ra”, “offi­ci­ne di sfrut­ta­men­to” [Ndt].
[37] Ad esem­pio, Bot­to­mo­re inclu­de nel­le “nuo­ve clas­si medie” gli impie­ga­ti d’ufficio e «mol­ti di colo­ro che si occu­pa­no di ero­ga­re ser­vi­zi di uno o un altro tipo (come man­sio­ni di benes­se­re socia­le, intrat­te­ni­men­to) …», op. cit., pp. 38‑39.
[38] K. Marx, Teo­rías, cit., t. I, p. 133.
[39] K. Marx, Il Capi­ta­le, cit., p. 491.
[40] K. Marx, Il Capi­ta­le, libro ter­zo, p. 351 e s.
[41] Già ne Il Capi­ta­le Marx segna­la, rife­ren­do­si all’impiegato d’ufficio, che «a misu­ra che il modo capi­ta­li­sti­co di pro­du­zio­ne si svi­lup­pa, il sala­rio ha la ten­den­za a dimi­nui­re, anche in rap­por­to al lavo­ro medio. In par­te in segui­to alla divi­sio­ne del lavo­ro nel­la sfe­ra dell’ufficio» (ivi, p. 360). Nel­la cate­go­ria degli “impie­ga­ti d’ufficio” van­no inclu­si sia i lavo­ra­to­ri pro­dut­ti­vi (dell’industria), sia quel­li impro­dut­ti­vi (com­mer­cio o ban­ca). Ciò che impor­ta è evi­den­zia­re che la ten­den­za si pote­va nota­re più di cent’anni fa.
[42] Dice Bra­ver­man: «nel XVIII seco­lo e agli ini­zi del XIX, “impie­ga­to” o “capuf­fi­cio” era la qua­li­fi­ca del diri­gen­te in alcu­ne indu­strie bri­tan­ni­che: fer­ro­vie e ser­vi­zi pub­bli­ci. Era comu­ne che il diri­gen­te pagas­se gli impie­ga­ti dal suo stes­so sti­pen­dio, con­for­me­men­te con la loro posi­zio­ne di sot­to­po­sti alle fun­zio­ni diri­gen­zia­li o alme­no di assi­sten­ti del diri­gen­te, e alcu­ni era­no incen­ti­va­ti con pre­mi per aver por­ta­to a ter­mi­ne alcu­ni lavo­ri o con lasci­ti alla mor­te del pro­prie­ta­rio …»; «… in sen­so lato, in ter­mi­ni di fun­zio­ni, auto­ri­tà, sti­pen­dio, cate­go­ria dell’impiego (un posto in uffi­cio era gene­ral­men­te a vita), pro­spet­ti­ve, per non dire “sta­tus” e per­fi­no abbi­glia­men­to, gli impie­ga­ti era­no più affi­ni al padro­ne che al lavo­ro nel­la fab­bri­ca» (Tra­ba­jo y capi­tal mono­po­li­sta, Méxi­co, Nue­stro Tiem­po, 1984, pp. 338–9).
[43] Ibi­dem, p. 358. Il gras­set­to è nostro.
[44] D. Guer­re­ro, “Depau­pe­ra­ción obre­ra en los paí­ses ricos: el caso español”, in Macroe­co­no­mía y cri­sis mun­dial, Guer­re­ro (ed.), Madrid, Trot­ta, 2000, p. 230.
[45] I lavo­ra­to­ri di impre­se sta­ta­li che ven­do­no mer­ci, come acqua, petro­lio o linee tele­fo­ni­che sono ope­rai pro­dut­to­ri di plusvalore.
[46] E. O. Wright, “Refle­xio­nan­do, una vez más, sobre el con­cep­to de estruc­tu­ra de cla­ses”, in Zona Abier­ta 59/60, 1992, p. 119.
[47] Uti­liz­zia­mo qui il ter­mi­ne “pro­dut­ti­vo” non nel sen­so di pro­dut­to­re di plu­sva­lo­re, ma in quel­lo di pro­du­zio­ne del­le con­di­zio­ni gene­ra­li di ripro­du­zio­ne del capi­ta­le a cui ci sia­mo rife­ri­ti in precedenza.
[48] K. Marx, Grun­dris­se, t. II.
[49] Anco­ra una vol­ta si può apprez­za­re l’importanza del­la osser­va­zio­ne meto­do­lo­gi­ca di Marx, a pro­po­si­to del­la rela­zio­ne di pro­du­zio­ne chia­ve che illu­mi­na con la sua luce par­ti­co­la­re il resto del­le sfere.
[50] Bot­to­mo­re, op. cit. p. 38.
[51] Wright, op. cit. p. 109.
[52] K. Marx, Il Capi­ta­le, cit., t. III, p. 442.

 

(Tra­du­zio­ne di Erne­sto Russo)