Potere al popolo o potere dei lavoratori?
Non basta una stella rossa per fare un programma rivoluzionario
Valerio Torre
È ormai iniziata la lunga campagna elettorale che ci accompagnerà di qui a marzo, quando – ormai è certo – si tornerà al voto per il rinnovo del parlamento. E sono iniziate anche tutte le manovre, più o meno sotterranee, messe in atto dai partiti della borghesia, di centrodestra o di centrosinistra, alla ricerca della coalizione vincente. Solo il Movimento 5 Stelle ha confermato la sua ormai nota politica di corsa solitaria.
Nelle ultime settimane, sui media nazionali ha tenuto banco la vicenda della formazione nata dalla rottura del Partito Democratico su impulso di Bersani, D’Alema e altri, fondatori di Mdp (Movimento Democratico e Progressista). Dall’incontro con Sinistra Italiana di Fratoianni e Possibile di Civati è così sorta la lista Liberi e Uguali, capitanata del presidente del Senato, Piero Grasso: sostanzialmente, un carrozzone elettorale il cui malcelato obiettivo è favorire la sconfitta del Pd di Renzi, per poi, dopo le elezioni, fare un accordo con lo stesso Pd, ma “de‑renzizzato” (ci si passi l’espressione!), per poter dare vita a un nuovo Ulivo, o a qualcosa che gli assomigli.
Però alla sinistra del Pd, fuori dalla luce dei riflettori della grande stampa, è nato un altro carrozzone elettorale: che, a differenza del primo, non si caratterizza per la grisaglia ministeriale indossata dai principali esponenti di Liberi e Uguali, bensì per la felpa dei centri sociali infilata dai suoi promotori e da molti dei suoi aderenti. Si tratta di quella lista che, dopo due assemblee nazionali e alcune decine di incontri territoriali, ha assunto l’altisonante nome di “Potere al popolo”, annunciando la sua partecipazione alle prossime elezioni.
Già abbiamo accennato di sfuggita a questo processo in un paio di articoli su questo sito[1]. Vogliamo ora analizzarlo più approfonditamente, poiché non si tratta di un fenomeno da trattare con sufficienza, dal momento che pare aver suscitato l’entusiasmo di parecchi settori, sia di movimento che di sinistra organizzata, e di singoli sfiduciati dalle sconfitte di questi anni.
Non ripercorreremo qui tutto l’iter che ha portato alla nascita di questa lista (sul web ci sono molti articoli che lo descrivono). Diremo solo che essa è nata su impulso degli attivisti del centro sociale napoletano “Ex Opg Je so’ pazzo”, i quali, dopo avere invano tentato di infilarsi nel processo di formazione di un’altra aggregazione elettorale (quella del teatro Brancaccio, poi fallita), hanno proclamato, in un video che ha fatto il giro della rete, di non sentirsi rappresentati da nessuno e che sarebbero stati essi stessi ad autorappresentarsi.
Detto fatto: nel giro di poche ore è stata convocata l’assemblea nazionale che il 18 novembre scorso ha dato il via a questa “avventura”. La successiva del 17 dicembre ha confermato il progetto.
Quattro sfumature di programma per una unità di facciata
Come ogni formazione politica o aggregazione elettorale, anche questo carrozzone – spiegheremo più avanti perché lo riteniamo tale – ha presentato, dopo il manifesto (cioè il suo atto di nascita), il programma che verrà proposto agli elettori. Ma ci piace per il momento riferirci a quest’ultimo testo usando la frase con cui una tal Viola, attivista del centro sociale Je so’ pazzo, ha concluso l’assemblea del 17 dicembre scorso: «Noi siamo qua per stringere un patto con queste parole: essere uniti; darci fiducia; andare avanti con determinazione; non avere paura. Questo è già un programma politico».
Come non darle ragione? Il programma politico di Potere al popolo è caratterizzato e sintetizzato esattamente dalla pochezza concettuale espressa da Viola ed emersa in tutta la sua magnitudine nelle decine di interventi fatti in poco più di tre ore di assemblea ad opera di volti più o meno noti della sinistra politica e di movimento.
Oltre, infatti, agli onesti rappresentanti in buona fede di tante vertenze territoriali (alcune delle quali anche con valenza nazionale), che hanno visto in questo progetto un modo per uscire dall’isolamento della propria lotta e la possibilità di riconnetterla con le tante altre lì rappresentate, nella sala del teatro Ambra Jovinelli di Roma c’erano anche molti navigati esponenti di organizzazioni politiche che invece vi hanno visto l’occasione per uscire dalla loro marginalità. Ognuno di essi portatore, con la propria formazione, di un progetto politico diverso da quello degli altri (e in molti casi assolutamente contrapposto); eppure, nessuno di loro ha avuto il coraggio di esporre una critica, un distinguo, avanzare una benché minima proposta che potesse in qualche modo scalfire l’unanimismo che si respirava in quell’assemblea. Tutti pronti a mettere da parte le differenze, affogandole in quel calderone programmatico che Viola ha sintetizzato con la frase sopra riportata, ma che noi vogliamo analizzare più a fondo per denunciarne il carattere – al di là dell’altisonante slogan che dà il nome alla lista – tutt’altro che rivoluzionario, ma anzi riformista nel significato più deteriore che può darsi a quest’aggettivo.
Ma qualcuno potrebbe dire: «Bene! Si sono messe da parte le differenze, e questo è un passo in avanti verso l’unità della sinistra».
L’unità della sinistra! Chi non si è mai sentito opporre questo “salvifico” concetto rispetto alla demarcazione politica fra organizzazioni? L’unità della sinistra! Il verbo politico di buon senso che viene dispensato a piene mani dai tanti che pensano che “sommatoria” faccia rima con “vittoria” (elettorale).
Il fatto è che le differenze possono essere “superate” sulla base della condivisione di un superiore programma che – questo sì! – faccia davvero fare un passo in avanti alle organizzazioni che su di esso si misurano; non possono invece essere affogate in un minestrone in cui ognuno mette, chi patate, chi carote, chi sedano. Con la salvezza della dignità popolare di un piatto povero, eppure nutriente e squisito, in politica i minestroni non hanno mai portato bene e si sono rivelati pietanze pervero indigeste.
E però, dicono gli entusiasti sostenitori della proposta: «Abbiamo uno slogan rivoluzionario – “Potere al popolo” – che ci caratterizza». E, quasi a volere blandire gli scontenti per la mancanza nel simbolo della falce e martello (i social forum sono pieni di accesissimi dibattiti su quest’argomento!), per convincerli aggiungono: «Dai! Ma ci abbiamo messo la stella rossa!».
Il fatto è che non basta una stella rossa, e neppure una decina di falci e martelli, per rendere rivoluzionario un programma che tale non è.
“Popolo” o classe lavoratrice?
Partiamo dallo slogan che dà il nome alla lista: “Potere al popolo”.
Il movimento operaio italiano ha coniato e declinato nei decenni passati slogan ben più efficaci, significativi e caratterizzanti le lotte di cui costituivano la bandiera. Basti pensare, ad esempio, a «È ora, è ora, potere a chi lavora!», oppure a «Il potere deve essere operaio!».
Come si vede, questi slogan riconnettevano la questione del potere, non già a un generico e indeterminato “popolo” – categoria sicuramente interclassista, alla quale possono appartenere tutti, compresi la piccola borghesia, i borghesi e i padroni – ma ad una classe ben specifica e individuata: la classe operaia, cioè quella costretta in un sistema capitalistico a vendere la propria forza‑lavoro, con la quale costruisce la società che la opprime; e, per ciò stesso, una classe che, resa sempre più omogenea dallo sviluppo dell’industria capitalista, è oggettivamente rivoluzionaria: perché, in ragione dello sfruttamento attraverso il dominio e la coercizione del capitale sul lavoro, l’antagonismo tra essi è inconciliabile[2] e non può essere eliminato attraverso interventi redistributivi, ma solo cambiando radicalmente i rapporti di produzione[3].
Ecco perché lo slogan “Potere al popolo” è uno slogan truffaldino. La storia delle rivoluzioni, sia vittoriose che sconfitte, dimostra inappellabilmente che è la classe lavoratrice – e non già “il popolo” – a porsi il problema del potere e della sua conquista, strappandolo a quella che lo detiene e lo esercita: i capitalisti.
In realtà, questo genericissimo riferimento all’astratta categoria di “popolo” rimanda a uno dei cavalli di battaglia della sinistra – diciamo così – “post‑ideologica”, cioè quella che ha messo in soffitta gli insegnamenti di Marx per rincorrere teorie ritenute più “moderne”: i “movimenti”, l’“associazionismo”, il “civismo”, la “cittadinanza”, sono concetti che questa sinistra considera più adatti alla comprensione della realtà del XXI secolo (ma anche del XX da poco trascorso). Ma l’esercizio di sostituire la “classe” con la “cittadinanza” ha un effetto paradossale: cioè quello di dislocare chi declina quest’ultima categoria non nel campo dell’insieme degli sfruttati, bensì in quello degli sfruttatori.
Infatti, la nozione di “cittadinanza”, che giunge fino a noi nella sua moderna veste derivata dalla Rivoluzione francese del 1789, ha nel suo nucleo centrale il diritto di proprietà. L’ascendente borghesia detronizzò nobiltà e clero abolendone i privilegi, e pose al centro della società che nasceva da quella rivoluzione la categoria della “cittadinanza”, ma reclamò per sé il monopolio della proprietà dei mezzi di produzione. In questo senso, l’uguaglianza tra gli individui – che costituiva il fondamento dei diritti civili – doveva intendersi solo come “uguaglianza formale”.
Fu invece Marx a spostare l’attenzione dal concetto di “cittadino” a quello di “lavoratore” come fulcro di una diversa società, in cui la sfera politica (in cui opera il cittadino) non è separata da quella economica (in cui il conflitto capitale‑lavoro appare in tutta la sua grandezza). A ben vedere, è quella separatezza a costituire la colonna portante della società dominata dalla classe borghese, in cui il “cittadino” rappresenta una categoria astratta, slegata dai conflitti reali della società capitalista e della sua sfera più concreta, quella della produzione: il “cittadino”, a differenza del “lavoratore”, è un uomo astratto, una finzione giuridica.
In questo senso, il filo di continuità “cittadinanza→movimenti civici→popolo” dà il senso dell’operazione che la neonata lista sta mettendo in campo. E ciò lo si vede a partire dal manifesto, in cui viene sbandierata l’immagine di un indeterminato “popolo” che, stanco di non sentirsi rappresentato, decide di “auto‑rappresentarsi”.
Democrazia formale e controllo popolare: sotto il vestito … il riformismo
Ma l’allegro utilizzo del termine “popolo” non è l’unico esempio di impiego truffaldino dei concetti per infiocchettare un progetto neoriformista come quello della lista promossa da Je so’ pazzo. Pensiamo al termine “democrazia” che ricorre in tutti i testi prodotti da quest’aggregazione e nelle assemblee finora tenute, e vediamo come, anche in questo caso, il concetto è stato sintetizzato da uno dei protagonisti della lista.
Salvatore Prinzi, detto “Saso”, è un attivista di primo piano del centro sociale Je so’ pazzo e in un’intervista ha dichiarato: «Siamo convinti che oggi, a livello mondiale, ci sia un grande problema di democrazia. Questa parola è stata svilita, ma alla lettera significa “potere del popolo”, laddove per popolo – demos – i greci non intendevano il popolo dei fascismi, ma le classi popolari, gli strati più bassi della città che dovevano poter contare nelle decisioni».
Peccato che, a dispetto della laurea e dei due dottorati vantati nell’intervista, Prinzi abbia “dimenticato” di dire che la società ateniese si fondava non sulle “classi popolari” e sugli “strati più bassi della città”, ma su un sistema schiavistico; e che i cittadini cui erano riconosciuti i diritti politici costituivano solo una piccola minoranza[4] degli abitanti della polis (restandone esclusi gli schiavi, così come le donne, i non greci e gli appartenenti a comunità non ateniesi, cui era vietato possedere immobili e sposarsi). L’argomento usato da Prinzi è quindi suggestivo solo per chi non conosca la storia, e verosimilmente non era il più adatto per essere usato a sostegno dell’idea che è alla base della lista di Je so’ pazzo. Ma tant’è: l’uso spregiudicato dei concetti non trova nessun contraltare nel vuoto pneumatico della sinistra riformista.
Prendiamo il caso del “controllo popolare”, uno dei cavalli di battaglia del centro sociale napoletano, sbandierato come pratica “rivoluzionaria”: si sostanzia in denunce all’Ispettorato del lavoro o in picchetti fuori dei seggi elettorali per verificare che non si creino situazioni di compravendita dei voti. Ma sono gli stessi attivisti a spiegare che si tratta «di pressione sulle istituzioni per controllarle e “abbassarle” ai bisogni delle persone (sottraendole così agli interessi dei capitali e degli speculatori)». In altri termini, parliamo di pratiche di solidarietà e mutualismo – che, per carità, sono senz’altro lodevoli – ma che si svolgono entro i limiti del sistema capitalista, senza metterne in discussione le fondamenta.
E tanto è vero che è fin troppo noto il rapporto di collaborazione (con reciproca soddisfazione) tra il centro sociale e il sindaco di Napoli, quel de Magistris salutato da Je so’ pazzo come un rivoluzionario[5], ma che non si fa scrupolo di privatizzare l’azienda pubblica dei trasporti. Così come non si possono dimenticare le fanfare suonate per l’elezione di Tsipras, massacratore sociale delle masse popolari greche e il più fedele esecutore degli ordini della Troika.
I protagonisti e il programma
È chiaro che così si spiega quel programma così vuoto con cui la lista intende presentarsi alle elezioni. E si spiega per due ordini di ragioni: sia, cioè, per quello che è l’ex Opg Je so’ pazzo (così come lo abbiamo sinteticamente delineato), sia perché solo un programma così concepito, infarcito di concetti generici, poteva tenere insieme tutte le più diverse realtà di partito e di movimento che hanno partecipato alle assemblee.
La lista che da queste è nata, infatti, raggruppa tutto e il suo contrario: dagli stalino‑sovranisti della piattaforma Eurostop, fautrice dell’uscita dall’Ue e dall’euro, a Rifondazione comunista, alfiere invece dell’Europa e dell’euro; dal Pci, idolatra del regime dittatoriale coreano di Kim Jong‑un, a Sinistra anticapitalista, che rivendica la sua discendenza dall’albero genealogico trotskista. Ecco perché, come abbiamo detto, si tratta di un carrozzone: verniciato, a differenza della lista di Piero Grasso, di rosso.
Analizzeremo sinteticamente il programma di Potere al popolo.
- Il suo asse centrale è basato sulla «difesa e rilancio della Costituzione nata dalla Resistenza». Non ripeteremo quanto efficacemente ripreso da altri, e cioè che persino un costituzionalista liberale come Piero Calamandrei ebbe a sottolineare come la Costituzione del 1948 sia stata una concessione della borghesia alle forze di sinistra: “una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata”[6]. Diremo, invece, che, a leggerla attentamente, non sfuggirà che gli altisonanti principi di uguaglianza, di libertà e di democrazia rappresentano solo un guscio vuoto rispetto al nucleo duro della difesa del principio della proprietà privata e della libertà di iniziativa economica: cioè di quel principio che costituisce l’anima di un regime capitalistico.
Fa capolino qui, nell’affermazione programmatica di Potere al popolo, dietro la retorica della difesa della “giustizia sociale”, della “libertà” e della “democrazia”, la reale e concreta difesa degli strumenti della classe dominante.
Un’esagerazione, la nostra? Basterà, a dimostrare il contrario, leggere il Preambolo della Costituzione portoghese, quella nata dalla rivoluzione dei Garofani: «L’Assemblea costituente proclama la decisione del popolo portoghese di […] aprire la strada verso una società socialista». Cioè, l’obiettivo della Carta costituzionale del Portogallo sarebbe nientemeno di marciare verso una società socialista! E allora, se quella italiana è considerata “la Costituzione più bella del mondo”, quella del Paese lusitano dovrebbe essere ritenuta addirittura stupenda! Eppure, com’è evidente, sia l’Italia che il Portogallo sono due Paesi a regime capitalistico, in cui le masse lavoratrici sono particolarmente oppresse da chi possiede le leve del sistema borghese.
Insomma, è chiaro che fare di una Costituzione borghese un feticcio non può certo costituire il centro di un programma anticapitalista.
- Un altro “caposaldo” del programma elettorale di Potere al popolo è quello sull’Ue. Si proclama solennemente di voler «rompere l’Unione Europea dei trattati». Il fatto è che a rendere l’Ue “brutta, sporca e cattiva” non sono i “trattati”, bensì è il fatto stesso della sua nascita e della sua attuale esistenza. Si ripropone, cioè, l’illusorietà di un presunto dualismo tra un’Europa cattiva (quella dei banchieri, della Merkel e di Schäuble) e una buona (quella vagheggiata da Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene[7]) snaturata oggi dalla perfida finanza e, appunto, dai “trattati” che ne imporrebbero i principi; facendo finta d’ignorare che l’attuale Ue nasce invece da un accordo fra i Paesi imperialisti dell’Europa occidentale per competere per il dominio dei mercati mondiali con i blocchi imperialisti concorrenti, Stati Uniti e Giappone. La ragione di quest’intesa, cioè, sin dal primo momento stava – come oggi sta – nella consapevolezza delle borghesie continentali di non essere in grado di disputare i mercati mondiali isolate nei confini dei propri Stati senza creare un competitore multinazionale degli imperialismi statunitense e giapponese cui contendere il mercato globale.
D’altro canto, il programma di Potere al popolo è addirittura reticente su come si intenderebbe perseguire questa “rottura”. Alexis Tsipras[8], benché con un programma riformista, fece venire i sudori freddi alla Troika (che reagì scatenando sui lavoratori greci tutta la propria potenza di fuoco) proprio perché forte del governo di un Paese e dell’oceanico risultato di un referendum: ma la sconfitta di Tsipras (anzi, quella delle masse lavoratrici greche) fu decretata, appunto, esattamente dal carattere riformista fin nel midollo della sua politica, sebbene fondata su una maggioranza popolare. Se il modello, com’è evidente, è questo, non è che per la lista Potere al popolo il finale è già scritto: non c’è proprio una storia da raccontare!
Solo per inciso, vogliamo far notare che non una sola parola è detta sull’euro. Forse, proprio perché – come abbiamo già segnalato – convivono in Potere al popolo istanze europeiste (Rifondazione, ad esempio) e altre che vogliono “uscire dalla gabbia dell’euro” (Piattaforma Eurostop), e non era il caso di creare attriti … Meglio tacere. Magari, a scapito della chiarezza programmatica!
- Il capitolo “Pace e disarmo” del programma rende manifesta tutta l’accettazione, da parte di questa lista, dei limiti del sistema di dominazione capitalista. Si utilizza a piene mani tutta la retorica sulla Nato, sul disarmo nucleare, sulle missioni militari all’estero, ma non viene neanche di sfuggita toccato il punto fondamentale che riguarda i corpi repressivi dello Stato (polizia, carabinieri, finanza), e cioè la colonna portante di uno Stato capitalista che ne fa i difensori dell’ordine borghese. C’è bisogno di ricordare che Engels (e Lenin dopo di lui) definiva lo Stato capitalista come formato da distaccamenti di uomini armati, prigioni, istituti di pena?
Certo, attendersi da un programma come quello che stiamo qui criticando «l’armamento generale del popolo e la sua istruzione generale sull’uso delle armi»[9] era forse troppo!
- Il capitolo “Economia, finanza, redistribuzione della ricchezza” rappresenta un concentrato delle pulsioni neoriformiste di Potere al popolo.
Già in linea di approccio generale può affermarsi che eludendo il tema di un’economia nazionalizzata e sotto il controllo dei lavoratori non è possibile minimamente scalfire il dominio di un sistema capitalistico sulla classe lavoratrice. Ecco perché le proposte di “un’imposta sui grandi patrimoni” e “il ripristino della progressività del sistema fiscale” rappresentano, nei limiti in cui vengono presentate, solo dei pannicelli caldi. Già Marx[10] scriveva: «Nessuna modifica della forma di imposizione può produrre un qualche importante cambiamento nelle relazioni tra lavoro e capitale. Ciononostante, dovendo scegliere tra due sistemi di imposizione, raccomandiamo la totale abolizione delle imposte indirette, e la loro sostituzione generale con le imposte dirette». E «se i democratici proporranno l’imposta proporzionale, i lavoratori dovranno chiedere un’imposta progressiva; se i democratici proporranno essi stessi una imposta progressiva moderata, i lavoratori insisteranno per una imposta così rapidamente progressiva, che il grande capitale ne sia rovinato»[11]: ma tutto questo, naturalmente, Marx lo proclamava nel quadro di un più complessivo programma di radicale e rivoluzionario mutamento dell’assetto sociale, come non è certamente quello di Potere al popolo.
Si insiste, inoltre, sul fallace concetto di “redistribuzione della ricchezza”. Fallace, perché fa salvo il sistema capitalistico. Non a caso, Marx scriveva che è «soprattutto sbagliato fare della cosiddetta ripartizione l’essenziale e porre su di essa l’accento principale. La ripartizione dei mezzi di consumo è in ogni caso soltanto conseguenza della ripartizione dei mezzi di produzione. Ma quest’ultima ripartizione è un carattere del modo stesso di produzione. Il modo di produzione capitalistico, per esempio, poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa è soltanto proprietaria della condizione personale della produzione, della forza‑lavoro. Essendo gli elementi della produzione così ripartiti, ne deriva da sé l’odierna ripartizione dei mezzi di consumo. Se i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall’attuale. Il socialismo volgare (e, per suo tramite, una parte della democrazia), ha preso dagli economisti borghesi l’abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno alla distribuzione»[12].
Si punta a «una lotta seria alla grande evasione ed elusione fiscale» e alla «fine dei trasferimenti a pioggia alle imprese», con ciò lasciandosi intendere la volontà di lasciare inalterato il quadro dei rapporti di produzione, cioè nelle mani dei capitalisti le leve dell’economia: proposito, questo, confermato e rafforzato dall’obiettivo della «fissazione di un tetto per gli stipendi e le liquidazioni dei grandi manager». Resti dunque la Fiat nelle mani della famiglia Agnelli … purché Marchionne riceva uno stipendio non scandaloso!
Non si capisce, inoltre, cosa si intenda per «nazionalizzazione della Banca d’Italia», che, nell’ordinamento giuridico, è già un’istituzione di diritto pubblico; né cosa voglia dire «ripubblicizzazione delle principali banche». Se ci si riferisce a quelle di cui lo Stato deteneva quote di maggioranza poi dismesse, un serio programma anticapitalista dovrebbe rivendicarne l’espropriazione dalle mani dei privati che oggi ne sono proprietari, senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori. Ma questa misura dovrebbe valere, però, per tutte le banche, perché è l’intero sistema del credito e del controllo dei flussi di capitale a dover passare in mano pubblica, con la creazione di un’unica banca nazionale, se si vuole perseguire l’obiettivo di una società non capitalista. Tuttavia, quest’obiettivo non rientra affatto nelle corde di Potere al popolo se è vero che si vuole invece ripristinare la «separazione tra banche di risparmio e di affari», e cioè lasciare che credito e risparmio vengano gestiti da istituti privati.
La “vetta” più alta del programma è però raggiunta con la rivendicazione iper‑riformista della «istituzione di una commissione per l’audit sul debito pubblico, in funzione della sua rinegoziazione e ristrutturazione […] e per una conferenza internazionale sul debito». Solo di passata ci piace ricordare che sia quello dell’audit che quello della conferenza internazionale sul debito erano obiettivi del programma di Tsipras … che infatti ha poi, da un lato, soppresso la commissione che indagava sul debito, e, dall’altro, sta continuando a pagare quest’ultimo religiosamente, fino all’ultimo centesimo.
Non rientra fra gli obiettivi di questo testo affrontare il tema della natura e della composizione del debito pubblico. Rinviamo perciò a quanto Marx già scriveva al riguardo nel Libro I de Il capitale e ne Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Ma possiamo subito dire che, in quanto principale strumento di sottomissione della classe lavoratrice (sulle cui spalle ricade il pagamento), il debito pubblico è di per sé illegittimo, e non c’è bisogno di istituire alcuna commissione per stabilire che solo i titoli detenuti dai piccoli risparmiatori vanno onorati, mentre la rimanente parte va ripudiata sic et simpliciter nel quadro dell’assunzione del controllo pubblico e sotto controllo dei lavoratori del sistema finanziario e del credito. Quando si propone invece la rinegoziazione e la ristrutturazione del debito, cioè la modifica delle condizioni dei prestiti, ad esempio allungandone la durata e/o abbassandone i tassi, si compie in realtà un intervento di puro maquillage con il quale, continuando a pagare religiosamente (sia pure a diverse condizioni) il debito, vengono conservate e salvaguardate le condizioni per la spoliazione delle masse popolari da parte del capitalismo imperialista.
- Nel capitolo “lavoro” sono contenute in sequenza tante rivendicazioni, anche giuste, corrette, assolutamente condivisibili. Ma, per non ripetere le critiche mosse più sopra, come è possibile porle e cercare di perseguirle senza voler rimettere in discussione le fondamenta stesse del sistema capitalistico, che, come abbiamo visto, l’intero programma di Potere al popolo lascia intatte? E la prova di questa malcelata intenzione sta in ciò: che a fianco di quella serie di condivisibili rivendicazioni manca la principale, quella davvero in grado di mettere in questione la base fondante dello sfruttamento da parte del sistema capitalistico. E cioè la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, la scala mobile delle ore di lavoro.
Per una Sinistra rivoluzionaria
Potremmo continuare sottoponendo a severa critica tanti altri aspetti e punti del programma di questa lista elettorale[13], ma crediamo di avere dimostrato a sufficienza la natura riformista, sia di quel testo che dell’organizzazione che lo propone. Si tratta, nel quadro delle tante sconfitte subite negli scorsi decenni dal movimento operaio, dell’ennesima riproposizione di una fallimentare ricetta che, se pure riscuoterà un certo consenso elettorale, rappresenta già oggi un elemento di ulteriore arretramento della coscienza delle masse lavoratrici.
Come Collettivo “Assalto al cielo”, mettendo da parte le differenze che pure esistono verso le due organizzazioni che l’hanno promossa, abbiamo preannunciato il nostro modesto sostegno alla lista elettorale “Per una Sinistra rivoluzionaria”, pur consapevoli delle difficoltà che questa lista incontrerà sul proprio cammino e degli stessi inevitabili limiti della proposta che viene lanciata. Eppure, si tratta a nostro avviso dell’unica proposta in grado di offrire un’alternativa a chi a sinistra non vuole rassegnarsi alla sofferta, penalizzante e non convinta alternativa tra lo scegliere alle prossime elezioni una passiva astensione e l’affidarsi all’ennesima fallimentare riproposizione di un progetto neoriformista.
Ci piace, inoltre, sottolineare l’aspetto – tutt’altro che secondario – di una possibile ed embrionale ricomposizione sul terreno di classe, sia pure partendo da uno scenario elettorale, di piccole organizzazioni che si muovono, benché con le tante differenze tra loro, nell’ambito del marxismo rivoluzionario. Già questo ci sembra un piccolo, ma prezioso risultato, considerando la gelosa autoconservazione identitaria che tutte le organizzazioni della sinistra extraparlamentare italiana hanno declinato da decenni, così contribuendo alla frantumazione di un campo portatore di istanze di radicale cambiamento della società italiana.
Ovviamente, non dovranno essere improbabili aspettative elettorali a guidare i sostenitori di questo progetto, ma la consapevolezza di avanzare finalmente – e, sia pure limitatamente, in modo unitario – una proposta anticapitalista, classista e internazionalista da cui iniziare, partendo da questo impegno e dalla contestuale presenza nelle lotte, una difficile e pur necessaria opera di costruzione di una forza rivoluzionaria con influenza di massa che ad oggi manca nel nostro Paese.
Note
[1] “A proposito del progetto elettorale di Je so’ pazzo: ‘Distribuzione della ricchezza’ e il socialismo volgare”; e poi “Per una sinistra rivoluzionaria”.
[2] La relazione di dominio del capitale sul lavoro racchiude in sé la potenzialità latente della lotta della classe operaia contro quella che la sfrutta, sia in termini di mera resistenza che di lotta aperta.
[3] Abbiamo qui sintetizzato in pochissime parole il nucleo della teoria del valore e del plusvalore di Marx. Si tratta di questione che non può assolutamente essere sviluppata in questo testo e che da molti anni subisce un violento attacco ad opera di correnti che ritengono che la classe operaia sia in via di estinzione, se non già sparita. Ovviamente, l’attacco è portato non tanto alla classe operaia, quanto a Marx!
[4] Le stime parlano di circa 30/50.000 su una popolazione di circa 300.000 persone.
[5] Come abbiamo visto nel link precedente. Ma giova anche ricordare che all’assemblea nazionale del 17 dicembre un esponente dell’associazione di de Magistris ha portato «il saluto, l’ammirazione e gli auguri» del sindaco, mentre la posizione ufficiale di Je so’ pazzo è che quella napoletana «è un’Amministrazione con cui ritroviamo alcuni punti comuni sui temi politici generali» (https://tinyurl.com/yaqajbed). Proprio così! La coincidenza non è su alcuni punti secondari, ma proprio su temi politici generali!
[6] P. Calamandrei, La Costituzione, in AA.VV., Dieci anni dopo. 1945–1955, pp. 212- 215. È noto, infatti, che i partigiani comunisti che avevano fatto quella Resistenza avrebbero voluto fare trascrescere la lotta di liberazione in rivoluzione socialista, ma Togliatti e Stalin in ottemperanza del Trattato di Yalta decisero che occorreva invece ricostruire una democrazia borghese: ecco spiegata la frase di Calamandrei.
[7] E riconfermata dal programma di Potere al popolo: «Costruire un’altra Europa fondata sulla solidarietà tra lavoratrici e lavoratori, sui diritti sociali, che promuova pace e politiche condivise con i popoli della sponda sud del Mediterraneo».
[8] Come abbiamo già visto, uno degli “eroi” e figura di riferimento del centro sociale Je so’ pazzo, che ancor oggi tace sul suo ruolo di agente diretto della Troika in Grecia e lo dipinge, invece, come la povera vittima del “potere economico”.
[9] K. Marx, Istruzioni per i delegati del Consiglio Centrale Provvisorio dell’A.I.L.
[10] V. nota precedente.
[11] K. Marx, F. Engels, Indirizzo del Comitato centrale alla Lega comunista del marzo 1850.
[12] K. Marx, Critica del Programma di Gotha.
[13] Ad esempio, nel capitolo sulla previdenza si rivendica l’abolizione della riforma Fornero, ma dimenticando che le controriforme in materia pensionistica rimontano alla riforma Dini del 1995. Il capitolo sulla sanità brilla per l’assenza della rivendicazione dell’espropriazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori delle industrie farmaceutiche, la creazione di un’industria nazionale del farmaco e la produzione e distribuzione su tutto il territorio nazionale quantomeno dei farmaci essenziali e salvavita, previa abolizione del segreto industriale. In tutto il programma manca una sola parola in materia di laicità dello Stato e di rapporti Stato‑Chiesa, ad esempio rivendicando l’abolizione di ogni testo concordatario e il divieto dell’esistenza di ogni scuola di tipo confessionale con la nazionalizzazione degli istituti di cura di proprietà e gestiti dal Vaticano. Né c’è il benché minimo riferimento al rialzare la testa delle organizzazioni fasciste e alla conseguente necessità di organizzare squadre armate di vigilanza e autodifesa dei lavoratori e degli immigrati, sempre più obiettivo delle violenze della rinascente reazione.
1 Pingback