Come i nostri lettori sanno, questo sito sta presentando nella traduzione italiana i saggi sulla Rivoluzione russa del 1917 pubblicati dalla rivista Jacobin Magazine, nell’ambito di un progetto di collaborazione. Tutti i testi, poi, vengono anche pubblicati in diversi idiomi in un’apposita sezione del Marxist Internet Archive.
Il piano editoriale ha previsto anche la pubblicazione di un saggio scritto da Eric Blanc sulla rivoluzione finlandese (qui su questo blog), che ha però suscitato un dibattito a proposito delle conclusioni che Blanc trae dalla vicenda, non condivise sia dal collettivo che anima questo sito, sia da altri studiosi a livello internazionale. Tra questi, Duncan Hart ha pubblicato una risposta allo stesso Blanc, sulla quale concordiamo e che perciò riteniamo di presentare ai nostri lettori nella traduzione dall’originale in inglese di Tuula Haapiainen.
Buona lettura.
La redazione
Le lezioni della Finlandia: replica a Eric Blanc
Duncan Hart [*]
L’articolo di Eric Blanc “La rivoluzione finlandese” ha sollevato una serie di argomenti politici che sarebbero estremamente dannosi per una sinistra che oggi si rifacesse all’esperienza finlandese: soprattutto, quello per cui la rivoluzione avrebbe confermato la strategia politica della socialdemocrazia kautskiana. Purtroppo, la rivista Jacobin, che per prima ha pubblicato l’articolo di Blanc, ha rifiutato di fare altrettanto con la mia risposta, sicché la sto pubblicando qui, così che almeno alcuni compagni possano leggerla.
* * *
La rivoluzione finlandese del 1917–1918 merita più attenzione di quanta ne abbia ricevuto dalla sinistra. Essa fornisce un esempio di una società politicamente ed economicamente abbastanza sviluppata, in cui una rivoluzione sociale della classe operaia è progredita in misura maggiore rispetto a qualsiasi altra società al di fuori della Russia.
Spero che per queste ragioni il recente articolo di Blanc possa essere l’inizio di un tentativo più approfondito di affrontare le questioni politiche sollevate dall’esperienza di quella rivoluzione.
Con tale premessa vorrei far emergere il disaccordo sulle conclusioni che Blanc trae dalla rivoluzione finlandese.
Il più grande errore di Blanc è di suggerire che la rivoluzione «conferma l’idea tradizionale della rivoluzione sostenuta da Karl Kautsky: attraverso una paziente opera di organizzazione ed educazione di classe, i socialisti avevano conquistato la maggioranza in parlamento, spingendo la destra a scioglierlo, cosa che era sfociata nella rivoluzione diretta dai socialisti».
Blanc conclude il suo articolo con un breve paragrafo che evidenzia alcuni dei “limiti” della “socialdemocrazia rivoluzionaria”, rappresentato dal Partito socialdemocratico finlandese (Psd), ma nel complesso sostiene che la rivoluzione finlandese dimostra che «i bolscevichi non erano stati l’unico partito dell’impero capace di portare i lavoratori al potere».
La rivoluzione è stata tutt’altro che una conferma della strategia del Psd: l’orribile massacro e la repressione politica che ne seguì è un pesante atto d’accusa di ogni versione della socialdemocrazia, persino la migliore. Semmai, la tragedia finlandese rappresenta esattamente un argomento in favore del marxismo rivoluzionario interventista bolscevico, argomentando a contrario.
In questo articolo mi rifaccio in gran parte al saggio di Otto Wille Kuusinen, The Finnish revolution: a Self‑Criticism, scritto nell’agosto del 1918. Kuusinen era un importante teorico del Psd, presidente del partito dal 1911 al 1917 e commissario del popolo all’Istruzione nel governo rivoluzionario.
Mentre era in esilio nella Repubblica Sovietica di Russia, insieme alla maggior parte dei dirigenti dei Socialdemocratici formò il Partito comunista finlandese (SKP).
La “sinistra” e la “destra” dentro il Psd
Durante tutta la sua narrazione del processo rivoluzionario, Blanc dà l’impressione che i socialdemocratici fossero divisi in un’ala rivoluzionaria e in un’altra moderata. In realtà, il partito era diviso tra il “Centro”, costituito dalla maggioranza della dirigenza, e una “Destra” apertamente revisionista, predominante nella frazione parlamentare. Il “Centro”, come descriveva Kuusinen, «non credeva nella rivoluzione; non ci siamo fidati, non la invocavamo». La caratteristica distintiva di questa tendenza politica è stata:
- una pacifica, continuativa, ma non rivoluzionaria lotta di classe; e, allo stesso tempo,
- una lotta di classe indipendente, senza cercare alleanze con la borghesia.
Non si trattava di un atteggiamento intransigente del tipo «con mezzi pacifici, se possibile; ma con la forza, se necessario», per parafrasare James Cannon, bensì d’un atteggiamento passivo e fatalista di spingere alla lotta di classe. Per citare ancora Kuusinen:
«I rapporti di una socialdemocrazia coerente con la rivoluzione sono altrettanto passivi di quelli di uno storico tollerante rispetto ai rivoluzionari dei tempi di passati. “La rivoluzione è nata, non fatta”, è la frase preferita della socialdemocrazia».
Sia il Centro che la Destra del partito socialdemocratico erano entrambi prigionieri dell’illusione di un graduale cambiamento democratico attraverso l’azione parlamentare.
Ciò non vuol dire che la sinistra rivoluzionaria non avesse una struttura durante la rivoluzione, ma era organizzativamente debole e con una direzione poco coordinata. Durante lo sciopero generale di novembre e la rivoluzione fallita, era chiaro che i sentimenti rivoluzionari prevalevano in seno alle Guardie Rosse e nel Consiglio dei lavoratori di Helsinki. Erano entrambe istituzioni fondate da poco e sensibili alla radicalizzazione dei lavoratori. Quando la direzione del Psd revocò lo sciopero, il Consiglio dei Lavoratori di Helsinki convocò Oskari Tokoi (Primo ministro socialista durante il governo di coalizione) e gli chiese di
«colpire duramente la borghesia. Istituire la censura. Nazionalizzare l’industria, la terra e le sue pertinenze … ora, più che mai, l’ energia e il potere spettano a noi … non possiamo arretrare, dobbiamo continuare a lottare».
Allo stesso modo, gli operai delle ferrovie fecero irruzione negli uffici di Kullervo Manner, presidente del Psd (e di un altro dirigente del Centro) e lo rimproverarono per aver revocato lo sciopero. L’appoggio popolare alla rivoluzione tra i settori più avanzati della classe lavoratrice era tale che il Consiglio dei Lavoratori di Helsinki riuscì a continuare lo sciopero generale almeno nella capitale per altri due giorni dopo la sua fine ufficiale decretata dal Psd. La tragedia di questi eventi stava nel fatto che la direzione politica era egemonizzata dal Psd. Senza una direzione rivoluzionaria autonoma la dinamica non poté essere mantenuta.
Il gruppo che riuscì a svolgere il ruolo più importante come fazione rivoluzionaria dall’esterno del Psd, era di fatto composto da un piccolo numero di finlandesi che avevano aderito alla causa bolscevica, come Adolf Taimi e i fratelli Rahja. Questi bolscevichi furono eletti come dirigenti delle Guardie Rosse di Helsinki, che si trasformarono in un gruppo di pressione di sinistra radicale sul Psd. Dopo la fine dello sciopero generale di novembre e prima dell’insurrezione di gennaio le Guardie Rosse fecero un forte appello alla rivoluzione, arrivando persino a minacciare di dirigerla se i leader del Psd avessero dato prova di troppa codardia.
Il rifiuto del Psd di prendere il potere condannò la rivoluzione
Alla vigilia dell’insurrezione dell’ottobre 1917 a Pietrogrado Lenin allertò i suoi compagni dirigenti bolscevichi[1] che, in certi momenti, la questione della direzione politica e la volontà di prendere iniziativa diventano urgenti se la rivoluzione deve trionfare:
«Non prendere il potere oggi, “attendere”, chiacchierare al Comitato esecutivo centrale, limitarsi a “lottare per l’organo” (dei soviet), a “lottare per il congresso”, significa perdere la rivoluzione».
L’incapacità dei socialdemocratici di dare impulso al potenziale rivoluzionario dello sciopero generale del novembre 1917 fu ciò che segnò il destino della rivoluzione del 1918. Blanc osserva correttamente che «gli storici sono divisi» sulla questione relativa al possibile trionfo della rivoluzione a novembre, data l’invasione dell’esercito tedesco, militarmente schiacciante, a marzo 1918. Tuttavia, si può dire con certezza che a novembre la situazione era molto più favorevole alla classe operaia. Kuusinen, retrospettivamente, vide che il rifiuto di stabilire il potere operaio a novembre aveva solo rimandato la guerra civile:
«Avremmo noi potuto evitare il conflitto armato? No! Esso era soltanto stato rimandato al tempo in cui i borghesi sarebbero stati meglio preparati allo scopo …».
Come dice Blanc, a gennaio la maggior parte dei soldati russi, che simpatizzavano con i lavoratori finlandesi ai quali i bolscevichi avevano promesso sostegno all’insurrezione, avevano lasciato la Finlandia. Molti soldati russi e ufficiali rivoluzionari, come Georgy Bulatsel e Mikhail Svechnikov[2], che hanno combattuto dalla parte della rivoluzione, sarebbero stati un potente baluardo contro i Bianchi finlandesi. Non meno importante, la borghesia era interamente sulla difensiva, mentre nel gennaio 1918 aveva stabilito un campo di addestramento delle Guardie Bianche nel nord della Finlandia agli ordini del barone Mannerheim, ed erano più preparati dei Rossi per la guerra civile.
L’imperialismo tedesco nel marzo 1918 fu libero di estendere la sua influenza in Finlandia in conseguenza del predatorio trattato di Brest‑Litovsk con la Russia (firmato il 3 marzo). A novembre, la Germania era ancora impegnata nei negoziati per la pace con la Russia e le sarebbe stato difficile intervenire.
Pur riconoscendo che l’intervento tedesco nel marzo 1918 fu un colpo mortale per la rivoluzione, tutto indicava la possibilità di un successo rivoluzionario nel novembre 1917. Questa possibilità si infranse contro l’inattività dei leader del Psd.
L’atteggiamento dei bolscevichi e dei socialdemocratici rispetto all’insurrezione
Se il Psd era ostile alla rivoluzione come ricordava Kuusinen (e ogni leader del Psd a quel tempo lo diceva apertamente), resta però aperta la questione sui motivi per cui diresse l’insurrezione il 26 gennaio.
La direzione del Psd prese le armi solo come ultima risorsa e sotto la pressione di un settore di lavoratori politicamente molto disorganizzato e non del tutto formato. Ciò che rese il Psd “rivoluzionario” fu la sua mancanza di inserzione nelle istituzioni dello Stato e l’ardente desiderio della borghesia di “stabilizzare” il Paese dopo lo sciopero generale. L’agenda della borghesia avrebbe richiesto il disarmo delle Guardie Rosse e l’annientamento brutale delle aspirazioni dei lavoratori, così come la minaccia anche per gli organismi del Psd. Il 9 gennaio 1918, il governo borghese decise di creare una nuova “forza di sicurezza” in sostituzione delle milizie dominate dal Psd che si erano rifiutate di reprimere le azioni dei lavoratori. In realtà, questa manovra rappresentava la legittimazione statale delle già esistenti “Guardie civili” (o “Guardie dei Macellai”, come le chiamavano gli operai) che i proprietari terrieri e la borghesia avevano creato dalle proprie file per spezzare gli scioperi. Le Guardie dei Macellai furono elevate al rango di milizia ufficiale di Stato il 26 gennaio in quella che equivaleva a una dichiarazione di guerra contro le Guardie Rosse e gli operai in generale. In quell’istante, anche figure della destra del Psd, come Tokoi o Wiik, si dichiararono d’accordo con l’insurrezione, vista unicamente come necessaria per “difendere la democrazia”. Per citare Kuusinen:
«Così, lo standard della rivoluzione era stato in realtà elevato, in modo che la rivoluzione potesse essere evitata».
Ciò risulta chiaramente dalla proposta di Costituzione della “Repubblica socialista dei lavoratori finlandesi”[3] avanzata dal nuovo governo del Psd. Non parlava della necessità della dittatura proletaria sulla società, ma prevedeva invece di rafforzare la democrazia per creare le migliori condizioni possibili per far progredire la lotta di classe. Anche durante la guerra civile, il Psd parlava solo in termini di ritorno a “condizioni normali”.
La necessità di una rivoluzione per l’autoconservazione contrastava fortemente con l’approccio dei bolscevichi. L’urgenza con cui Lenin caratterizzò le sue argomentazioni sull’insurrezione dalla fine del settembre 1917 si basava sul riconoscimento che la maggioranza dei lavoratori era stata guadagnata alla prospettiva della necessità di un governo sovietico. Fondamentalmente, comprendeva l’importanza di fornire un vantaggio ai lavoratori, piuttosto che essere schiacciato da eventi esterni, e l’importanza dell’azione in congiunture cruciali. Questa era una concezione attivista del modo di essere un dirigente.
Anche durante lo sciopero generale, furono i bolscevichi a fare pressione sul Psd perché rompesse con la propria passività e cogliesse l’attimo. Lenin inviò un telegramma ai dirigenti del Psd e li esortò a «insorgere, insorgere subito e prendere il potere nelle mani dei lavoratori organizzati». Dybenko, che era il presidente dei marinai della Flotta del Baltico di stanza a Helsinki, insisté allo stesso modo, e i bolscevichi fecero pubblicare sul giornale dei lavoratori finlandesi una lettera invitandoli a seguire il loro esempio.
Perfino dopo la conclusione dello sciopero generale, i bolscevichi continuarono a fare pressioni sul Psd. Stalin, Commissario alle nazionalità, tenne un discorso al congresso nazionale del Psd svoltosi il 27 novembre, consigliando di mettere da parte i dubbi sulla rivoluzione e invitando a seguire «la tattica di Danton: audacia, audacia e ancora audacia!». È emblematico che persino la data della stessa insurrezione, sulla quale i dirigenti del Psd non potevano essere d’accordo, fu fissata dalla tempistica necessaria per gestire una spedizione di 15.000 fucili e due milioni di cartucce che i bolscevichi acconsentirono a inviare in treno da Pietrogrado.
Le lezioni della tragedia della rivoluzione finlandese
Blanc ha ragione a sottolineare che la Finlandia del 1917‑1918 rappresentava una società capitalista più avanzata rispetto alla Russia. Politicamente, la Finlandia aveva molto più in comune con le società occidentali dell’epoca che con l’impero russo di cui faceva parte. Per questo motivo è bene studiarla. Ma sarebbe del tutto sbagliato sostenere che la “socialdemocrazia rivoluzionaria” di Kautsky, della quale Blanc definisce il Psd come un esempio, dovrebbe essere emulata.
Il Psd, a differenza dei suoi cugini socialdemocratici occidentali, è stato posto in una situazione unica che lo spinse verso un’azione rivoluzionaria. Il fatto che il parlamento finlandese non avesse potere sotto lo zar fornì al Psd un’opportunità di crescere fino a diventare maggioranza in parlamento senza rendersi responsabile per lo Stato capitalista. Nel contesto del crollo del braccio repressivo dello Stato zarista, della crescente militanza operaia in Finlandia e della rivoluzione dei lavoratori in Russia, la borghesia vide nel Psd una minaccia mortale per i propri interessi. Il Psd ha dimostrato di non essere all’altezza della rivoluzione quando la borghesia ha lanciato il guanto di sfida.
Per i socialisti di oggi, che operano anche nelle democrazie occidentali, sarà buona cosa prestare attenzione alle lezioni che Kuusinen trasse dalla terribile sconfitta subita dai lavoratori finlandesi quasi cento anni fa. Si tratta della necessità di una direzione e di un’organizzazione rivoluzionarie, sia per approfittare di una crisi rivoluzionaria come quella che si presentò nel novembre del 1917, e sia per fornire una guida nella guerra civile e prendere le energiche misure necessarie per la vittoria. C’era chiaramente un desiderio tra i lavoratori finlandesi di spingere lo sciopero generale verso un’insurrezione. Ma senza una direzione rivoluzionaria che potesse sfidare il Psd, i loro eroici sforzi furono frustrati. All’indomani della sconfitta, Kuusinen concluse che una prospettiva rivoluzionaria deve respingere le illusioni nella democrazia borghese:
«In una società di classe possono esistere solo due tipi di relazioni tra le classi. Uno stato di oppressione, mantenuto dalla violenza (armi, leggi, tribunali, ecc.), in cui la lotta per la liberazione delle classi oppresse è limitata a mezzi relativamente pacifici (…); mentre l’altra è lo stato di lotta aperta tra le classi, la rivoluzione, in cui un conflitto violento decide quale delle due classi sarà in futuro l’oppressore e quale l’oppresso».
La chiarezza politica su questa questione è stata pagata a prezzo della vita di decine di migliaia di appartenenti alla classe operaia e della criminalizzazione dei rivoluzionari finlandesi per decenni. L’ironia di suggerire che i socialdemocratici finlandesi potessero interpretare una politica capace di guidare i lavoratori al potere come facevano i bolscevichi in Russia sta nel fatto che Kuusinen e i suoi compagni finirono per essere d’accordo con i bolscevichi, contro la loro stessa pratica.
[*] Duncan Hart è un attivista socialista e membro di Alternativa Socialista in Australia.
Note
[1] V.I. Lenin, “La crisi è matura”, in Opere, vol. XXVI, p. 71 (N.d.R.).
[2] Il tenente colonnello Bulatsel, come migliaia di russi in Finlandia, venne fucilato dopo essere stato catturato dalle Guardie Bianche finlandesi. I suoi due figli furono allo stesso modo uccisi a Viipuri nell’aprile del 1918. Servì come consigliere militare del Comandante in capo del fronte Nord, Hugo Salmela, che guidò la difesa di Tampere.
[3] Quest’intitolazione “Repubblica socialista dei lavoratori” non fu scelta dai socialisti finlandesi. Lenin insisté che fosse la descrizione dello Stato finlandese quando la Repubblica sovietica firmò un trattato di amicizia con i finlandesi il 1° marzo. I bolscevichi auspicavano che i lavoratori di ognuno dei due Stati potessero avere pieni diritti politici e civili nell’altro, ma quando i socialisti finlandesi respinsero questa proposta, i russi previdero che i lavoratori finlandesi avessero diritti politici in Russia, pur senza la reciprocità.
(Traduzione di Tuula Haapiainen)