In vista delle prossime elezioni politiche, è partito nello scorso mese di giugno un progetto di aggregazione tra le forze della sinistra riformista mirante a comporre una lista elettorale unica alla sinistra del Pd insieme a esponenti di movimenti civici. Alcune di esse (Mdp, Sinistra italiana, Possibile) hanno poi compiuto un’accelerazione, di fatto estromettendo un’altra (Rifondazione comunista) dal processo. L’assemblea nazionale prevista per lo scorso 18 novembre al Teatro Brancaccio di Roma per definire quel progetto è quindi saltata.
Un centro sociale di Napoli, l’ex Opg occupato Je so’ pazzo, ha allora convocato per quello stesso giorno, ma al Teatro Italia, sempre a Roma, un’altra assemblea per riprendere le fila del discorso interrotto, portandolo però su binari diversi. Nel giro di pochi giorni, l’organizzazione dell’incontro è stata portata a termine con un tam‑tam sui social network e ha fatto convergere circa 800 attivisti in quella che sembra essere la base di partenza per presentare alle prossime consultazioni un’ulteriore lista elettorale che dovrebbe collocarsi “alla sinistra della sinistra” del Pd.
Analizzeremo nei prossimi giorni più approfonditamente le linee fondanti del progetto lanciato da Je so’ pazzo, su cui hanno trovato una entusiastica convergenza sia Rifondazione comunista che Sinistra anticapitalista. Ma ci sembra di potere a ragione dire già oggi, sulla scorta dell’appello su cui l’assemblea del Teatro Italia è stata convocata, dell’insieme della discussione che da essa è emerso, del tono di tutti i commenti positivi che circolano in rete, che si tratta di un progetto inscritto nei confini del neoriformismo, del populismo antipartito, del civismo assemblearista: di qualcosa insomma, che assomiglia in un certo qual modo, non tanto alla Syriza greca, quanto al Podemos spagnolo con una spruzzata di sinistra. Anzi, per riferirci a un esempio più recente, al Frente amplio del Cile, che alle elezioni appena celebrate ha ottenuto un risultato importante, ben al di sopra di quanto prevedessero i sondaggi.
Le istanze di “cambiamento” espresse dall’assemblea del Teatro Italia si limitano a un maquillage più o meno di sinistra dell’attuale sistema capitalistico. E, come tutti i progetti neoriformisti simili, ha al centro del proprio programma l’asse della “redistribuzione” del reddito, inteso come colonna portante di tutta la proposta.
Per questo, nell’attesa di elaborare un’analisi più compiuta di questo nuovo fenomeno politico, ci limitiamo per ora a pubblicare un interessante testo dell’economista marxista Rolando Astarita, che esamina questo concetto della redistribuzione, dimostrandone tutta la fallacia alla luce dei principi della teoria economico‑politica di Karl Marx, nonché l’estraneità rispetto a un progetto socialista di trasformazione della società.
Buona lettura.
La redazione
“Distribuzione della ricchezza” e il socialismo volgare
Rolando Astarita [*]
Alcune organizzazioni di sinistra, che dicono di fondare le loro analisi e strategia sulla teoria di Marx, pongono al centro della loro propaganda e agitazione la rivendicazione “redistribuire la ricchezza”. Sembrano pensare che questo sia un modo per facilitare la comprensione e l’accettazione del socialismo da parte dei lavoratori. Ciò probabilmente spiega perché, durante le campagne elettorali, questa parola d’ordine viene ripetuta a destra e a manca, come si trattasse di una bacchetta magica.
Non sono d’accordo con questa politica. La ragione principale è perché in tal modo si pone l’accento sulla distribuzione e non sulle relazioni sociali sottese a questa distribuzione, e che la determinano.
Con ciò non nego che sia possibile migliorare, attraverso le lotte rivendicative, i salari e le condizioni di lavoro (in particolare, durante le fasi espansive del ciclo economico), senza dover necessariamente eliminare il modo di produzione capitalista. Ma bisogna essere consapevoli che questi miglioramenti hanno sempre limiti determinati dalla logica del profitto. E che in nessun modo eliminano lo sfruttamento del lavoro. Anzi, finché esisterà l’attuale modo di produzione, la classe operaia sarà obbligata a ricominciare ogni volta le lotte per i salari e contro la prepotenza del capitale. Il fatto è che quando i salari minacciano seriamente il profitto, il capitale o rimpiazza il lavoro con le macchine, oppure rende più lenta l’accumulazione, o si trasferisce in un’altra regione o in altro Paese. Attraverso uno qualsiasi di questi metodi, o combinandoli tra loro, pone limiti ai miglioramenti salariali e delle condizioni di lavoro.
Perciò, l’obiettivo del programma socialista non può ridursi a una migliore redistribuzione del plusvalore estratto dal lavoro, cioè a lottare affinché diminuisca la relazione plusvalore/valore della forza lavoro. Come spiega Marx in Salario, prezzo e profitto, quando si lotta per il salario si lotta contro gli effetti del sistema capitalista, ma non contro la causa dei cattivi salari, la disoccupazione, la povertà. Per questo motivo, la bandiera del socialismo deve essere l’abolizione del sistema di lavoro salariato. Questa rivendicazione supera l’orizzonte del sindacalismo, che si limita sempre – anche fra i suoi migliori esponenti – a esigere miglioramenti nella distribuzione.
Queste idee le troviamo anche nella Critica del Programma di Gotha. Scrive Marx:
«… era soprattutto sbagliato fare della cosiddetta ripartizione l’essenziale e porre su di essa l’accento principale. La ripartizione dei mezzi di consumo è in ogni caso soltanto conseguenza della ripartizione dei mezzi di produzione. Ma quest’ultima ripartizione è un carattere del modo stesso di produzione. Il modo di produzione capitalistico, per esempio, poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa è soltanto proprietaria della condizione personale della produzione, della forza‑lavoro. Essendo gli elementi della produzione così ripartiti, ne deriva da sé l’odierna ripartizione dei mezzi di consumo. Se i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall’attuale. Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e a sua volta da lui una parte della democrazia), l’abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno alla distribuzione»[1] (il grassetto è mio).
La prospettiva marxista, dunque, è opposta alla visione dei riformisti borghesi, dei socialisti volgari e dei loro simili, che pongono l’accento sulla “distribuzione della torta” (torta = plusvalore). Ricordiamo che, significativamente, Karl Dühring diceva che il modo di produzione capitalistico era buono, ma il modo di distribuzione capitalistico doveva sparire. Inevitabilmente, a partire da qui, le questioni si pongono in termini di quanto spetta al lavoro, quanto al capitale, se è “giusto” tanto più o tanto meno, ecc. E così, si trascura la domanda essenziale, che ogni lavoratore dovrebbe porsi: «Chi ha fatto la torta che si deve ripartire?». Da qui iniziamo a mettere in discussione la relazione di proprietà/non proprietà dei mezzi di produzione e di scambio.
C’è ancora un altro problema con la parola d’ordine della “redistribuzione della ricchezza”. Declinarla induce a pensare che la soluzione dei mali della società passi attraverso la redistribuzione, in qualche modo “equitativa”, dei mezzi di produzione tra i cittadini. Cioè, attraverso il passaggio a un modo di produzione basato sul piccolo borghese proprietario del suo lotto di terreno, della sua piccola officina, negozio o mezzo di trasporto. Il socialismo piccolo‑borghese ha sempre avuto quest’obiettivo: accade lo stesso con molte varianti del populismo. Di fronte alla concentrazione e centralizzazione del capitale, la parola d’ordine sembra essere “torniamo alla piccola proprietà”. Per chi sostiene ciò le calamità sociali non hanno la loro origine nel capitale, ma nel fatto che esso è “troppo grande”.
Naturalmente, comprendo la smania di alcuni marxisti di farsi belli con il populismo piccolo‑borghese (soprattutto in campagna elettorale), ma la realtà è che ripartire la grande proprietà per tornare alla piccola proprietà è un obiettivo reazionario. Cambiare le grandi unità produttive o commerciali in favore della piccola unità amministrata da piccoli proprietari individuali significherebbe un arretramento delle forze produttive. Perciò, storicamente, il marxismo non ha agitato la parola d’ordine della “redistribuzione dei mezzi di produzione”, bensì quella della loro socializzazione. E cioè la necessità che essi passino nelle mani della società, dei produttori associati.
Come si vede, si tratta di questioni che toccano l’essenza della teoria e della politica del socialismo.
[*] Rolando Astarita è uno studioso marxista di economia. Insegna all’Università di Quilmes (Argentina) e di Buenos Aires.
Note
[1] K. Marx, Critica del Programma di Gotha, in Marxists Internet Archive, all’indirizzo https://tinyurl.com/y7t78chn (NdT).
(Traduzione di Ernesto Russo)
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