Riprendiamo, dopo la pausa estiva, la presentazione in italiano dei saggi sulla Rivoluzione russa del 1917 pubblicati in collaborazione con la rivista Jacobin Magazine.
È la volta di un accurato studio di Mike Haynes sulla violenza nel corso del processo rivoluzionario.
Ricordiamo ai nostri lettori che la traduzione in italiano di questi scritti avviene in partnership con il sito PalermoGrad e che gli stessi vengono raccolti nell’apposita sezione organizzata dal Marxists Internet Archive.
Buona lettura.
La redazione
Violenza e rivoluzione nel 1917
La violenza rivoluzionaria del 1917 impallidisce rispetto a quella dei fronti della Grande guerra
Mike Haynes [*]
Viviamo in un mondo violento e non possiamo evitare di affrontare da un versante politico questo problema.
Nel 1917, la violenza della guerra si era propagata in ogni dove. Nell’ultimo capitolo della sua Storia della rivoluzione russa, Trotsky scrive:
«Non è forse significativo che il più delle volte a indignarsi per le vittime delle rivoluzioni sociali siano gli stessi che, se pur non sono stati fautori diretti della guerra mondiale, ne hanno almeno preparato ed esaltato le vittime, o quanto meno si sono rassegnati a vederle cadere?»[1].
Si stima che il numero dei morti durante la prima guerra mondiale, fra militari e civili, ammonti a una cifra tra quindici e diciotto milioni. Alla fine del 1917, un medico socialista calcolò che “la folle corsa della giostra della morte” aveva portato a “6.364 morti al giorno, 12.726 feriti e 6.364 disabili”. Probabilmente, la precisione che dimostra non è corrispondente alla realtà, ma il suo senso delle proporzioni lo è. La gente moriva in battaglia, nonché per le privazioni e le malattie che ne conseguivano.
La Rivoluzione di febbraio scoppiò nella 135ª settimana di guerra. Quella di ottobre si verificò nella 170ª. Nei circa 250 giorni che intercorsero tra l’una e l’altra – un intervallo che alcuni storici presentano come un periodo di eccidi rivoluzionari, in cui ci furono forse 2.500 morti – una sconvolgente cifra di 1.500.000 morti, o addirittura di più, si contò nel cuore dell’Europa.
Sui fronti orientali, tra febbraio e ottobre ci furono meno morti, anche se il bilancio delle perdite fu comunque superiore ai 100.000 caduti. Questa calma relativa fu in larga misura determinata dal fatto che l’esercito russo aveva cominciato a dissolversi, talvolta reagendo con le armi contro chiunque avesse tentato di fermare la diserzione. Omicidi commessi per sfuggire alla morte, per evitare che altri venissero uccisi: la violenza è qualcosa di complesso.
E fluisce in diverse direzioni. Nel maggio 1917, le lavandaie di Pietrogrado scesero in sciopero. Cercarono di spingere tutti fuori dai luoghi di lavoro gettando acqua sui fornelli e sui ferri da stiro. Alcuni proprietari di lavanderie, a loro volta, usarono acqua bollente contro gli scioperanti, minacciandoli con ferri da stiro arroventati, attizzatoi e persino pistole.
È sì vero che nessuna vera rivoluzione è mai incruenta. Ma gran parte di questa violenza arriva più tardi, quando il vecchio ordine, dapprima disorientato, inizia a reagire.
Nel 1917, il livello di violenza fu modesto, se paragonato alla brutalità della Prima guerra mondiale o della guerra civile incipiente. Si rinvengono persino esempi di atti di generosità da parte dei rivoluzionari verso i loro nemici: gesti insensati, se pensiamo al fatto che quelli, non appena liberati, subito si univano alle armate controrivoluzionarie.
È troppo facile dire “la violenza genera violenza”. È meglio approfondire alcune leggende sulla rivoluzione e la sua violenza.
La sanguinosa rivoluzione incruenta
La Rivoluzione di febbraio è apparsa quella col maggior sostegno di massa, ma fu estremamente violenta rispetto agli altri eventi di quell’anno. Soldati e polizia spararono sulla folla e dalla folla alcuni risposero al fuoco. Soldati spararono contro altri soldati.
La maggior parte dei resoconti calcolano il numero dei caduti a Pietrogrado in 1.500, ma molto probabilmente si tratta di un bilancio sottostimato. Coloro che caddero in difesa della rivoluzione furono onorati con la più grande commemorazione di massa mai vista. La metà circa della città – un milione di persone – vi partecipò.
Il vecchio sistema era crollato. Le folle piangevano e festeggiavano con un nuovo senso di fratellanza. Ancor oggi, siamo portati a vedere il Febbraio tutto rosa e fiori, forse perché il clima sarebbe presto cambiato di lì a pochi mesi.
Il nuovo governo provvisorio – più a sinistra di tutti gli altri – voleva stabilire la più avanzata forma di democrazia liberale che si potesse immaginare, ma doveva farlo sulle rovine del vecchio ordine zarista.
Scrisse in seguito Alexander Kerensky: «In tutto il territorio della nazione russa non solo non esisteva un potere governativo, ma addirittura neanche un poliziotto». In febbraio le porte delle prigioni vennero spalancate e ne uscirono non solo prigionieri politici, ma anche migliaia di criminali comuni. Le masse assaltarono i depositi di armi.
Il governo cercò di mettere in campo nuove politiche, nuove istituzioni e nuove organizzazioni, comprese milizie popolari per mantenere l’ordine. Proclamò amnistie, abolì la pena di morte, concesse il diritto di assemblea.
Voleva anche diventare un ponte tra ricchi e poveri. Ciò poneva un problema: le élite volevano un tipo di sistema e il popolo un altro. Pochi giorni dopo l’abdicazione dello zar un ufficiale scrisse: «Essi [i soldati della truppa] pensano che le cose dovrebbero andare meglio per loro e peggio per noi». Le due parti si scontravano su cosa dovesse significare giustizia e ordine, e su che tipo di forza sarebbe stata necessaria per realizzarli.
In aprile, l’allora primo ministro, il principe L’vov, emanò dei decreti per chiedere alla popolazione di smettere di commettere reati. È necessario, si legge, «porre fine a ogni manifestazione di violenza e rapina facendo ricorso a tutta la forza della legge». Ciò significava non solo fermare le rapine in strada, ma anche l’occupazione delle terre della nobiltà da parte dei contadini.
Stabilire l’ordine era pressoché impossibile. Le pressioni locali spingevano le nuove autorità ad agire – o non agire – con modalità tali da indebolire le direttive di Pietrogrado. Alla fine di ottobre, solo trentasette della cinquanta province della Russia europea si erano anche dotate di milizie delle nuove forze di polizia. Frattanto, larghi settori dell’esercito erano diventati inquieti.
Un mondo sottosopra
In febbraio, uno scaltro criminale fece una rapina in una casa dicendo che veniva da un comitato rivoluzionario. Altri seguirono presto il suo esempio. Gli indici di criminalità aumentarono dovunque.
In ottobre, John Reed scriveva: «Le colonne dei giornali del mattino [di Pietrogrado] erano piene di resoconti di assassini e di audaci furti. I criminali restavano impuniti»[2]. La gente smise di portare oggetti di valore e di chiudere a chiave le porte. I criminali scherzavano, dicendo di essere loro ad avere ora bisogno della protezione della polizia, dato che erano gli unici a possedere qualcosa che valesse la pena di rubare.
Il crollo dell’esercito rappresentava un enorme problema. Laddove aveva retto, mantenne in gran parte l’ordine, ma il controllo sfuggì dalle mani del governo per passare in quelle dei rivoluzionari. Intanto, diserzioni di massa producevano gravi episodi di violenza mentre bande di soldati si abbandonavano al saccheggio nel tentativo di fare ritorno alle loro case o di sopravvivere ai margini della vita delle città.
Il problema più grande, però, era che la rivoluzione aveva messo il mondo sottosopra. La vecchia Russia ove regnavano il rispetto e la deferenza era scomparsa. Chi aveva indossato uniformi civili e militari, galloni e spalline, spillette, fasce e nastri dappertutto, ora non poteva arrischiarsi ad uscire di casa per timore di subire violenze.
All’inizio, le classi dominanti osservavano lo svolgersi degli eventi con lo sguardo divertito. «La rivoluzione era vista dagli strati inferiori come qualcosa di simile a un Carnevale cinese – scrisse un contemporaneo – i domestici, ad esempio, scomparivano per giorni interi, passeggiando con le loro coccarde rosse, scorrazzando con le automobili, e rientravano in casa al mattino solo per il tempo necessario a lavarsi, per poi uscire di nuovo a divertirsi».
Ma l’umore cambiò quando apparve chiaro che la rivoluzione non si sarebbe fermata. Le masse smisero di essere rassegnate e patriottiche, persino riconoscenti per le briciole. Ora, riunite con i loro abiti sporchi e laceri per l’umidità, iniziavano ad avanzare rivendicazioni. Mugugnavano, sputavano, sbraitavano, bestemmiavano. «Da mito patriottico – scrisse Trotsky – il popolo è divenuto una terribile realtà»[3].
È possibile percepire il cambiamento d’umore dal modo in cui gli osservatori descrivevano la gente comune. Gli eroi di febbraio venivano ora dipinti come gentaglia ignorante.
Quando Vladimir Nabokov, un elegante membro del partito cadetto, descrisse le giornate di luglio a Pietrogrado, disse che la gente aveva «gli stessi volti folli, ottusi e bestiali che tutti ricordavamo nelle giornate di febbraio». Rappresentava «lo scatenarsi delle forze della natura» di cui aver paura.
Senza alcuna ironia, i privilegiati dicevano “non fate a noi quel che abbiamo fatto a voi”. Quando comunità contadine si appropriavano delle terre, se le distribuivano in parti uguali. In alcuni casi, davano una quota di terra al vecchio proprietario, che, vedendo la casa padronale data alle fiamme, probabilmente lo riteneva un ultimo gesto di umiliazione. Per i contadini, invece, si trattava di un autentico atto di giustizia.
Quando gli ufficiali imprigionati si lamentavano delle condizioni della fortezza di Kronstadt, i loro nuovi carcerieri rispondevano: “È vero che il carcere di Kronstadt è orribile, ma è la stessa prigione che è stata costruita per noi dallo zarismo”.
Trotsky, che era stato arrestato dal governo provvisorio, restò perplesso quando, in ottobre, i sostenitori del governo lo supplicarono che i ministri arrestati non fossero gettati in quelle stesse celle in cui anche lui era stato prigioniero. E così, egli ne autorizzò gli arresti domiciliari per un periodo.
La Rivoluzione del 1917 non è stata portata avanti su astratte questioni di legge e ordine: le masse popolari combatterono vere e proprie battaglie su quale legge e quale ordine dovessero reggere il Paese.
La terra di chi?
La legge sorge dalle strutture politiche e sociali. Un quotidiano sottolineava che «i più elementari principi [sono] la sicurezza personale e il rispetto della proprietà privata», ma uno striscione a una manifestazione recitava: «Il diritto alla vita è più importante del diritto alla proprietà privata».
Non ci fu terreno di scontro tanto acuto quanto la questione della proprietà della terra.
La maggior parte dei contadini credeva che l’aristocrazia usasse il potere dello Stato per appropriarsi delle loro terre. «Il possesso della terra a titolo di proprietà è, fra i crimini, uno dei più innaturali», ma «questo crimine è considerato un diritto secondo le leggi umane», scrisse un contadino autodidatta. «L’ingiustizia della proprietà fondiaria è inevitabilmente legata alle tante ingiustizie e ai misfatti necessari per la sua difesa». Riprendersi le terre divenne un atto risarcitorio.
Alcuni rappresentanti locali del governo provvisorio condividevano questa visione, ma i latifondisti ovviamente no. A Pietrogrado, il governo promise ambiguamente una riforma agraria per il futuro. I radicali la pensavano diversamente.
«Tra noi e i nostri avversari c’è una contraddizione di fondo nel modo di concepire l’ordine e la legge», disse Lenin:
«Fino ad ora si riteneva che l’ordine e la legge fossero ciò che conveniva ai grandi proprietari fondiari e ai funzionari; noi affermiamo invece che l’ordine e la legge sono ciò che conviene alla maggioranza dei contadini[4] […] ciò che conta per noi è l’iniziativa rivoluzionaria e la legge deve esserne il risultato. Se aspetterete che la legge sia scritta, invece di esercitare voi stessi la vostra energia rivoluzionaria, non avrete né la legge né la terra[5]».
Questa opinione richiedeva un nuovo sistema giuridico, promosso dal basso.
In Stato e rivoluzione, Lenin approfondì questa straordinaria affermazione scrivendo che per far fronte a eccessi e crimini:
«… non c’è bisogno di una macchina speciale, di uno speciale apparato di repressione; lo stesso popolo armato si incaricherà di questa faccenda con la stessa semplicità, con la stessa facilità con cui una qualsiasi folla di persone civili, anche nella società attuale, separa delle persone in rissa o non permette che venga usata la violenza contro una donna»[6].
Maxim Gorky non era d’accordo, e citava episodi ai quali aveva assistito in villaggi contadini, in cui c’era chi partecipava a cuor leggero ad atti di violenza, anche contro le donne. La maggior parte degli storici ha dato ragione a Gorky, curiosamente prestando scarsa attenzione alle conseguenze che di fatto questo conflitto tra vecchio e nuovo ordine produceva.
Dopo il Febbraio, nuove forze dell’ordine cominciarono ad apparire. I soviet e i comitati di fabbrica crebbero in numero e presero a organizzare, sia pure non adeguatamente, le loro forze. A Kronstadt – che qualcuno ha visto come l’incarnazione della brutalità rivoluzionaria – i soviet e i comitati di fabbrica chiusero bordelli, proibirono l’ubriachezza in pubblico e misero fuori legge persino i giochi a carte.
Si formarono anche milizie composte da lavoratori, che si mantenevano separate da quelle che rispondevano al governo provvisorio. Queste milizie fecero la loro apparizione spontanea a Pietrogrado e in qualche altro luogo. Forse con un pizzico d’esagerazione la Pravda sostenne che, grazie a questi gruppi, «il vandalismo è scomparso dalle strade come polvere soffiata via da venti di tempesta».
Alla fine di marzo, mentre il governo cercava di creare la propria forza di polizia, i lavoratori istituivano altre unità di Guardie Rosse, soprattutto a Pietrogrado. Il loro numero variò nel corso del tempo, ma ebbe un’impennata in ottobre. Alla vigilia della rivoluzione, le si poteva incontrare per tutta la Russia.
Giovani e inesperti, ma assolutamente più efficienti della demoralizzata milizia civica, questi ufficiali rappresentavano l’esempio di un ordine alternativo. «La stampa accusava la milizia di violenze, di requisizioni e di arresti illegali», scriveva Trotsky:
«Senza dubbio, la milizia usava la violenza: era stata organizzata appunto per questo. Ma il suo crimine consisteva nel fatto di usare la violenza nei confronti dei rappresentanti di quella classe che non era abituata a subirla e non voleva farci l’abitudine»[7].
Allo stesso modo, i rivoluzionari fecero appello a unità dell’esercito a unirsi alle file dei bolscevichi, ed esse giocarono un ruolo chiave in ottobre.
Lo scontro tra visioni del mondo si sostanziava nel modo in cui venivano descritti questi soldati. Il governo provvisorio li definiva “inaffidabili”, ma per chi sosteneva la rivoluzione le sole “unità inaffidabili” erano quelle che ancora appoggiavano il governo.
Ordine dal basso
Nella sua ricerca di un ordine, il governo provvisorio passò alla violenza. Le proteste al fronte contro la guerra furono punite con i lavori forzati. Kerensky lanciò l’offensiva di giugno nella speranza di aiutare lo sforzo bellico degli alleati incentivando l’ordine interno, ma molti soldati si rifiutarono di combattere. Quindi, in luglio, in una caotica manifestazione svoltasi a Pietrogrado, trovarono la morte cinquantasei persone.
Il governo definì le giornate di luglio un tentativo di colpo di stato. Trotsky fu catturato e Lenin dovette nascondersi. L’esercito reintrodusse la pena di morte al fronte, ma il numero delle esecuzioni fu basso perché le truppe stesse vi si opponevano.
Le classi dominanti cominciarono a vedere nel comandante in capo, il generale Kornilov, l’uomo forte di cui c’era bisogno. Quando il suo avventuroso tentativo di prendere il potere fallì, la situazione divenne ancor più tesa. Le occupazioni di terre nelle campagne aumentarono e il governo dispiegò le proprie poche truppe affidabili per fermarle.
Il contrasto tra gli avvenimenti dell’Ottobre e la violenza caotica del Febbraio fu enorme. Forse quindici persone morirono a Pietrogrado, con una cinquantina di feriti. Il governo provvisorio era diventato un guscio vuoto. «Puzziamo di carne putrefatta», disse un ministro. La violenza fu contenuta grazie alla nascita di un nuovo potere: il soviet.
Il 22 ottobre, domenica, il regime di febbraio vide centinaia di migliaia di persone invadere le strade per celebrare la Giornata del soviet di Pietrogrado. Se fosse scoppiato un vero conflitto, il precario governo avrebbe potuto schierare al massimo 25.000 uomini. Almeno 100.000 soldati erano invece pronti a combattere per il soviet.
Di fatto, i rivoluzionari presero il potere in maniera sorprendentemente ordinata. Il soviet di Pietrogrado pubblicò dei manifesti in cui si leggeva:
«Il soviet di Pietrogrado dei Deputati dei Lavoratori e dei Soldati assume su di sé il compito di proteggere l’ordine rivoluzionario in città … La guarnigione di Pietrogrado non permetterà nessun atto di violenza o disordini. Si esorta la popolazione ad arrestare teppisti e membri delle Centurie nere e a portarli presso i commissari del soviet nelle caserme più vicine».
Quando il Palazzo d’Inverno cadde, i comandanti bolscevichi salvarono dalla fucilazione i vecchi ministri traendoli invece in arresto. I soldati andavano a caccia di assassini, oppositori e qualche ladro per prevenire saccheggi.
Il ministero della guerra, a malapena funzionante, rivolse ai rivoluzionari degli ambigui complimenti in uno dei suoi ultimi messaggi:
«Gli insorti stanno preservando l’ordine e la disciplina. Non si stanno verificando casi di devastazione o pogrom. Al contrario, pattuglie di insorti hanno arrestato soldati che vagabondavano … L’insurrezione è stata indubbiamente pianificata per tempo e portata avanti inflessibilmente e armoniosamente».
Il 26 ottobre, il soviet diramò un appello alla restante parte della Russia perché fosse adottato il nuovo ordine: «Tutta la Russia rivoluzionaria e tutto il mondo stanno guardando a voi». A Pietrogrado le cantine vennero distrutte per limitare la possibilità che i vincitori si abbandonassero all’ubriachezza.
A Mosca si svolsero pesanti combattimenti e diverse centinaia di persone morirono. Ma in tutto il Paese – come avrebbe poi detto Lenin – «arrivati in una qualsiasi città, proclamavamo il potere dei soviet e dopo pochi giorni i nove decimi degli operai erano con noi»[8].
La violenza cominciò a essere più evidente nella periferia, dove i sostenitori del governo provvisorio poterono utilizzare settori del vecchio esercito per resistere alla rivoluzione. Fu lì che lo spargimento di sangue fu maggiore.
Imparare la spietatezza
Le rivoluzioni sono atti violenti, ma la violenza ha diverse facce. All’inizio del 1918, la rivoluzione russa sembrava aver vinto. Fece appello alla pace e chiese al popolo di sollevarsi per ottenerla.
Ma le potenze europee non volevano né la pace, né che vi fosse una rivoluzione vittoriosa alle loro porte: sicché, le potenze centrali ruppero l’armistizio e rivolsero la loro violenza verso il fronte orientale. Appoggiarono inoltre la violenza controrivoluzionaria all’interno della Russia. Di fatto, senza un aiuto esterno è difficile immaginare come la conseguente guerra civile avrebbe potuto sostenersi.
Alla fine del 1917, l’ex comandante in capo, il generale Alekseev, sollecitò le forze antibolsceviche a riunirsi sul Don e sul Kuban. A febbraio 1918, soltanto 4.000 soldati avevano accolto l’appello presentandosi. L’anno precedente, gli ufficiali erano all’incirca 250.000. A quanto pareva, in pochissimi avevano voglia di continuare a combattere.
Senza un maggiore aiuto dall’esterno, questi controrivoluzionari non avrebbero avuto né la fiducia, né i mezzi per continuare la loro guerra. In questo contesto, come Trotsky avrebbe detto in seguito, anche la rivoluzione dovette imparare a essere spietata.
[*] Mike Haynes è uno storico che lavora nel Regno Unito. È coeditore di History and Revolution Refuting Revisionism (Verso 2017).
Note (Tutte le note sono del traduttore)
[1] L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Arnoldo Mondadori Editore, 1978, vol. II, p. 1253.
[2] J. Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, BUR, 2001, p. 81.
[3] L. Trotsky, op. cit., p. 1099.
[4] V.I. Lenin, “Primo Congresso dei deputati contadini di tutta la Russia: 2. Discorso sulla questione agraria”, Opere, Edizioni Lotta comunista, vol. XXIV, 2002, p. 502.
[5] V.I. Lenin, “Settima conferenza panrussa del Posdr (b), ivi, p. 292.
[6] V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, op. cit., vol. XXV, p. 436.
[7] L. Trotsky, op. cit., vol. I, p. 456.
[8] V.I. Lenin, “VII Congresso del partito comunista (bolscevico) della Russia: 1. Rapporto sulla guerra e la pace”, op. cit., vol. XXVII, p. 84.
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