Sempre nell’ambito della collaborazione con la rivista Jacobin Magazine e della partnership con il sito PalermoGrad, continuiamo nella presentazione al pubblico italiano di un altro importante tassello del grande piano editoriale per la commemorazione della Rivoluzione russa del 1917 a cent’anni dalla sua ricorrenza.
È la volta di un saggio di Eric Blanc sulla rivoluzione finlandese, a torto ritenuta un episodio “minore” del processo rivoluzionario che attraversò l’impero russo.
Ricordiamo ai nostri lettori che, man mano che usciranno in italiano su questo sito, i testi verranno pubblicati nell’apposita sezione del Marxists Internet Archive.
Buona lettura.
La redazione
La rivoluzione finlandese
Eric Blanc [*]
La dimenticata rivoluzione finlandese è forse per noi fonte di maggiori insegnamenti che gli stessi avvenimenti del 1917 in Russia
Nel secolo appena trascorso, i lavori di ricerca storica sulla rivoluzione del 1917 si sono per lo più concentrati su Pietrogrado e sui socialisti russi. Ma l’impero russo era prevalentemente composto da non‑russi, e le convulsioni nella periferia erano solitamente esplosive come quelle del centro.
Il rovesciamento dello zarismo nel febbraio del 1917 scatenò un’ondata rivoluzionaria che inondò immediatamente tutta la Russia. Forse la più eccezionale di queste insurrezioni è stata la rivoluzione finlandese, che uno studioso ha definito «la più esemplare guerra di classe nell’Europa del XX secolo».
L’eccezione finlandese
I finlandesi costituivano una nazione differente da qualsiasi altra sotto il dominio zarista. Appartenuta alla Svezia fino al 1809, quando fu annessa alla Russia, la Finlandia godeva di autonomia governativa e libertà politica ed ebbe infine anche un parlamento proprio, democraticamente eletto. Benché lo zar tentasse di limitarne l’autonomia, la vita politica di Helsinki somigliava più a quella di Berlino che di Pietrogrado.
In un’epoca in cui i socialisti nel reto della Russia imperiale erano costretti ad organizzarsi in partiti clandestini ed erano perseguitati dalla polizia segreta, il Partito socialdemocratico finlandese (Psd) faceva politica legalmente. Come la socialdemocrazia tedesca, dal 1899 in poi i finlandesi costruirono un partito operaio di massa e una solida cultura socialista, con sedi, gruppi operai femminili, bande musicali e associazioni sportive.
Politicamente, il movimento operaio finlandese era impegnato in una strategia di tipo parlamentare, educando e organizzando pazientemente i lavoratori. All’inizio, la sua politica era moderata: raramente si parlava di rivoluzione e la collaborazione con i liberali era frequente.
Ma il Psd aveva una particolarità rispetto ai grandi partiti socialisti europei di massa, dato che diventò più combattivo negli anni che precedettero la Prima guerra mondiale. Se la Finlandia non fosse appartenuta all’impero zarista, probabilmente la socialdemocrazia finlandese avrebbe avuto un’evoluzione in senso moderato simile a quella della maggior parte degli altri partiti socialisti dell’Europa occidentale, in cui i settori radicali erano stati via via marginalizzato dall’integrazione parlamentare e dalla burocratizzazione.
Ma la partecipazione della Finlandia nella rivoluzione del 1905 finì per dislocare il partito più a sinistra. Durante lo sciopero generale del novembre del 1905, un dirigente socialista finlandese restò meravigliato dalla sollevazione popolare:
«Viviamo in un’epoca meravigliosa … Genti umili e aduse al peso della schiavitù all’improvviso si liberano dal loro giogo. Comunità che finora mangiavano cortecce d’albero, ora pretendono pane».
Subito dopo la rivoluzione del 1905, parlamentari socialisti moderati, dirigenti sindacali e funzionari si trovarono in minoranza nel Psd. Cercando di applicare l’orientamento elaborato dal teorico marxista tedesco Karl Kautsky, a partire dal 1906 la maggioranza del partito unì alle tattiche legalitarie e alla presenza parlamentare una chiara politica centrata sulla lotta di classe. «L’odio di classe è il benvenuto, è una virtù», era scritto in una pubblicazione del partito.
Soltanto un movimento operaio indipendente – proclamava il Psd – potrà perseguire gli interessi dei lavoratori, difendendo fino ad espanderla l’autonomia finlandese dalla Russia, così guadagnando un’ampia democrazia politica. Il tempo giocava a favore di una rivoluzione socialista, ma fino a quel momento il partito doveva rafforzarsi pazientemente, evitando scontri prematuri con le classi dominanti.
Questa strategia della socialdemocrazia rivoluzionaria – con il suo messaggio militante e un metodo lento ma costante – ebbe un successo spettacolare in Finlandia. Nel 1907, oltre centomila lavoratori avevano aderito al partito, che divenne così la più grande organizzazione al mondo in rapporto al numero di abitanti. E nel luglio del 1906, il Psd entrò nella storia diventando il primo partito socialista a conquistare la maggioranza parlamentare. Tuttavia, a causa della “russificazione” degli anni immediatamente precedenti, la maggior parte del potere statale in Finlandia era sotto il controllo dell’amministrazione russa. Solo nel 1917, il Psd fu in grado di affrontare le sfide che derivavano dall’avere una maggioranza parlamentare in una società capitalista.
I primi mesi
Le notizie dell’insurrezione di febbraio nella vicina Pietrogrado sorpresero la Finlandia, ma, non appena le voci furono confermate, i soldati russi di stanza a Helsinki, secondo un testimone oculare dell’epoca, si ammutinarono contro i loro ufficiali:
«Al mattino, soldati e marinai marciavano per le strade sventolando bandiere rosse, una parte sfilava cantando La Marsigliese, una parte in gruppi separati distribuendo nastri e pezzi di stoffa rossi. Marinai della truppa pattugliavano le vie della città disarmando tutti gli ufficiali che, al minimo segno di resistenza o al rifiuto di accettare il simbolo rosso, venivano freddati e lasciati per terra».
I funzionari russi furono espulsi, mentre i soldati russi di stanza in Finlandia dichiararono la loro lealtà al soviet di Pietrogrado e le forze di polizia finlandesi furono distrutte dal basso. Lo scrittore conservatore Henning Söderhjelm, commentando la rivoluzione in un resoconto di prima mano scritto nel 1918 – che costituisce una preziosa espressione delle opinioni della borghesia finlandese – si doleva della perdita del monopolio statale della violenza:
«La distruzione totale della polizia rappresentava la politica espressa dal Psd. Le forze di polizia, eliminate dai soldati russi appena iniziò la rivoluzione, non sono mai rinate. Il “popolo” non aveva fiducia in questa istituzione e, al loro posto, vennero create “milizie” locali per il mantenimento dell’ordine, i cui membri appartenevano al partito laburista».
Cosa avrebbe dovuto sostituire la vecchia amministrazione russa? Alcuni radicali premevano per un governo rosso, ma erano in minoranza. Così come accadde in altre parti dell’impero, nel mese di marzo fu travolta dall’appello alla “unità nazionale”. Sperando così di ottenere una più ampia autonomia dal nuovo governo provvisorio della Russia, un’ala di dirigenti moderati del Psd ruppe con l’antica posizione del partito ed entrò in un governo di coalizione con i liberali finlandesi. Diversi socialisti radicali denunciarono la manovra come un “tradimento” e un’aperta violazione dei principi marxisti del Psd. Altri dirigenti di prima linea, tuttavia, si dichiararono d’accordo con l’ingresso al governo per evitare una scissione nel partito.
La luna di miele politica durò poco. Il nuovo governo di coalizione entrò rapidamente sotto il fuoco incrociato della lotta di classe mentre un attivismo senza precedenti si affermava nei luoghi di lavoro, nelle strade e nelle campagne della Finlandia. Alcuni socialisti finlandesi concentrarono i loro sforzi nella costruzione di milizie operaie armate, altri promossero scioperi, militanza sindacale e attivismo nelle fabbriche. Söderhjelm ne descrisse la dinamica:
«Il proletariato ha smesso di implorare e pregare, ora rivendica ed esige. Credo che mai l’operaio, ma soprattutto il più grezzo, si sia sentito tanto tronfio per il potere che ha come nella Finlandia del 1917».
La borghesia finlandese si illuse all’inizio che l’ingresso dei socialisti moderati nel governo di coalizione avrebbe costretto il Psd ad abbandonare la sua linea di lotta di classe. Söderhjelm si rammaricò che questa speranza fosse andata presto frustrata:
«L’assoluto potere delle masse si è sviluppato con inattesa rapidità. […] La colpa, soprattutto, è della tattica del partito laburista. […] Benché abbia mantenuto una certa dignità nella sua condotta più ufficiale, ha continuato con la sua politica di agitazione contro la borghesia con un instancabile zelo».
Mentre i socialisti moderati che appoggiavano il nuovo governo, così come i dirigenti laburisti loro alleati, cercavano di smorzare la ribellione popolare, l’estrema sinistra del partito faceva costantemente appello a rompere con la borghesia. Oscillando tra i due poli socialisti, c’era una corrente amorfa di centro che garantiva un sostegno limitato alla nuova amministrazione. E benché la maggior parte dei dirigenti del Psd continuasse a dare priorità all’azione parlamentare, la maggioranza del partito appoggiava – o, per lo meno, assecondava – l’onda che veniva dal basso.
Di fronte all’inattesa ondata di resistenza, la borghesia finlandese diventò sempre più aggressiva e intransigente. Lo storico Maurice Carrez osserva che la classe dominante finlandese non si rassegnò mai a «condividere il potere con una formazione politica che vedeva come l’incarnazione del demonio».
La polarizzazione di classe
L’implosione del governo di coalizione finlandese cominciò in estate. In agosto, l’approvvigionamento alimentare dell’impero crollò e lo spettro della fame si impadronì dei lavoratori finlandesi. Rivolte per il pane esplosero quel mese e l’organizzazione di Helsinki del Psd denunciò il rifiuto da parte del governo di assumere provvedimenti decisivi per affrontare la crisi. «Le masse lavoratrici affamate hanno in breve tempo perso la fiducia nel governo di coalizione», osservò Otto Kuusinen, il principale teorico della sinistra del Psd, che l’anno successivo avrebbe fondato il movimento comunista finlandese.
L’intransigenza dei socialisti nella lotta per la liberazione nazionale accentuò ancor di più la polarizzazione di classe. I socialisti finlandesi lottarono aspramente per porre fine all’interferenza del governo russo negli affari interni della nazione. Speravano, con la conquista dell’indipendenza, di utilizzare la loro maggioranza parlamentare – e il controllo delle milizie operaie – per imporre un ambizioso programma di riforme sociali e politiche.
Nel mese di luglio, un dirigente socialista spiegava: «Finora siamo stati costretti a lottare su due fronti: contro la nostra stessa borghesia e contro il governo russo. Se la nostra guerra di classe deve vincere, se vogliamo unire le nostre forze in un sol fronte, contro la nostra stessa borghesia, abbiamo bisogno dell’indipendenza, e la Finlandia è matura per questo».
Anche i conservatori e i liberali volevano rafforzare l’autonomia nazionale, ovviamente per ben diverse ragioni. Ma non erano disposti a far ricorso a metodi rivoluzionari per raggiungere quest’obiettivo, né sostenevano in generale i tentativi del Psd di ottenere un’indipendenza completa.
Lo scontro, alla fine, si verificò in luglio. La maggioranza socialista in parlamento propose lo storico progetto di legge valtalaki (legge del Potere), che proclamava unilateralmente la piena sovranità finlandese e che venne approvato il 18 luglio, nonostante la forte opposizione della minoranza conservatrice. Ma il governo provvisorio russo, con a capo Alexander Kerensky, bocciò la legge dichiarandola non valida e minacciò di occupare la Finlandia se la sua decisione non fosse stata rispettata.
Quando i socialisti finlandesi si rifiutarono di fare retromarcia o rinunciare al valtalaki, i liberali e i conservatori colsero l’occasione al volo. Sperando di isolare il Psd e porre termine alla sua maggioranza parlamentare, appoggiarono cinicamente e legittimarono la decisione di Kerensky di sciogliere il parlamento democraticamente eletto. Furono convocate nuove elezioni, all’esito delle quali i partiti non appartenenti all’area socialista ottennero una risicata maggioranza.
La dissoluzione del parlamento finlandese segnò un punto di svolta decisivo. Fino ad allora, la classe lavoratrice e i suoi rappresentanti confidavano profondamente nel fatto che il parlamento potesse essere utilizzato come uno strumento di emancipazione sociale. Come spiega Otto Kuusinen,
«la nostra borghesia non aveva un esercito e neppure poteva fare affidamento su forze di polizia, […] per cui sembrava che avessimo tutte le ragioni per mantenerci nel sentiero già battuto della legalità parlamentare, percorrendo il quale, apparentemente, la socialdemocrazia avrebbe potuto ottenere una vittoria dopo l’altra».
Ma per un settore crescente di lavoratori e dirigenti del partito diventava sempre più chiaro che il parlamento aveva esaurito la sua utilità.
I socialisti denunciarono il golpe antidemocratico e accusarono la borghesia di cospirare con lo Stato russo contro i diritti nazionali della Finlandia e le istituzioni democratiche. Secondo il Psd, le nuove elezioni parlamentari erano illegali perché frutto di brogli generalizzati. A metà del mese di agosto, il partito ordinò a tutti i propri membri di dimettersi dalle cariche di governo. Ma, ancor più significativamente, i socialisti finlandesi andavano sempre più legandosi ai bolscevichi, unico partito russo ad appoggiare la loro lotta per l’indipendenza. Tutti i soggetti in campo avevano lanciato il guanto di sfida e la Finlandia – una nazione fino ad allora pacifica – venne precipitata in un’esplosione rivoluzionaria.
La lotta per il potere
In ottobre, la crisi che attraversava tutto l’impero russo era giunta all’acme. I lavoratori finlandesi delle città e delle campagne esigevano rabbiosamente dai loro dirigenti che prendessero il potere. L’intera Finlandia ribolliva di violenti scontri. Ciononostante, molti dirigenti del Psd continuavano a pensare che il momento della rivoluzione si sarebbe potuto posporre a quando la classe lavoratrice fosse stata meglio organizzata e armata. Altri, invece, avevano paura di abbandonare l’arena parlamentare. Alla fine di ottobre, il leader socialista Kullervo Manner sosteneva:
«Non possiamo evitare la rivoluzione per molto tempo […] La fede nel valore dell’azione pacifica è perduta e la classe lavoratrice comincia ad aver fiducia solo nella sua stessa forza […] Sarei ben lieto se ci sbagliassimo circa l’immediato scoppio della rivoluzione».
Dopo che, alla fine di ottobre, i bolscevichi ebbero conquistato il potere, sembrava che subito dopo sarebbe toccato alla Finlandia. Privata dell’appoggio militare del governo provvisorio russo, la borghesia finlandese era pericolosamente isolata. La maggioranza delle decine di migliaia di soldati russi di stanza in Finlandia appoggiava i bolscevichi e il loro appello alla pace. «L’onda vittoriosa del bolscevismo porterà acqua al mulino dei nostri socialisti e loro certamente saranno in grado di metterlo in moto», osservò un liberale finlandese.
La base del Psd e i bolscevichi di Pietrogrado supplicarono i dirigenti socialisti di prendere immediatamente il potere, ma la direzione del partito tergiversava. Nessuno aveva chiaro se il governo bolscevico sarebbe durato più di qualche giorno. I socialisti moderati si aggrappavano alla speranza che si potesse trovare una soluzione parlamentare pacifica. Alcuni radicali sostenevano che la presa del potere era non solo possibile, ma anche assolutamente necessaria. La maggioranza dei dirigenti esitava tra le due posizioni.
Kuusinen ricorda l’indecisione del partito in quel momento critico: «Noi socialdemocratici, “uniti sulla base della lotta di classe”, oscillavamo da una parte all’altra, prima inclinandoci con forza dalla parte della rivoluzione, per poi, subito dopo, tirarci di nuovo indietro».
Incapace di trovare l’accordo per un’insurrezione armata, il partito finì per convocare uno sciopero generale per il 14 novembre in difesa della democrazia contro la borghesia, per le necessità economiche urgenti dei lavoratori e per la sovranità finlandese. La risposta della base fu travolgente, di fatto andò molto oltre il relativamente cauto appello a scioperare.
La Finlandia venne paralizzata. Organismi locali del Psd e le Guardie rosse presero il potere in diverse città, occupando locali strategici e arrestando i politici borghesi.
Sembrava che questo scenario insurrezionale si sarebbe riprodotto anche ad Helsinki. Il 16 novembre, il Consiglio dello Sciopero generale votò per la presa del potere. Ma, quando sindacati e dirigenti socialisti moderati criticarono la decisione dando le dimissioni dall’organismo, il giorno stesso il Consiglio tornò sulle sue decisioni. Si decise che, «dal momento che una minoranza così espressiva è in disaccordo, il Consiglio non può cominciare adesso a prendere il potere per consegnarlo ai lavoratori, ma continuerà a fare ancora più pressioni sulla borghesia». Subito dopo lo sciopero venne smobilitato.
Lo storico finlandese Hannu Soikkanen ha sottolineato che lo sciopero di novembre fu un’enorme occasione persa:
«Non c’è dubbio che quella fu l’occasione più propizia perché i lavoratori prendessero il potere. La pressione della base era enorme e c’era la massima disponibilità alla lotta. […] Lo sciopero generale convinse in ogni modo la borghesia, con poche eccezioni, dell’enorme pericolosità dei socialisti. Perciò essa usò il tempo fino all’inizio della guerra civile per organizzarsi intorno a una risoluta leadership».
Rimarcando l’esitazione del Psd nel disporsi all’azione di massa, Anthony Upton ha sostenuto che «i rivoluzionari finlandesi sono stati in generale i più deprimenti rivoluzionari della storia». Quest’affermazione, tuttavia, avrebbe senso se la nostra storia fosse terminata in novembre, ma gli eventi successivi mostrano che il cuore rivoluzionario della socialdemocrazia finlandese alla fine prevalse.
Dopo lo sciopero generale, i lavoratori, frustrati, si dedicarono sempre più a cercare armi e a passare all’azione diretta. Allo stesso modo, la borghesia si preparava alla guerra civile creando le sue milizie – le “Guardie bianche” – e chiedendo sostegno militare al governo tedesco.
Nonostante il rapido disfacimento della coesione sociale, molti dirigenti socialisti continuarono a tessere infruttuosi negoziati parlamentari. Solo che, stavolta, l’ala sinistra del Psd irrigidì la sua posizione e dichiarò che non avrebbe più ritardato l’azione rivoluzionaria, perché ciò avrebbe solo portato al disastro. Dopo una lunga serie di battaglie interne nel dicembre del 1917 e nel successivo gennaio, i radicali alla fine vinsero lo scontro interno.
In gennaio, il discorso rivoluzionario del Psd si tradusse infine in azione. Per dare il segnale dell’inizio dell’insurrezione, i dirigenti del partito accesero, la notte del 26 gennaio, una lanterna rossa nella torre della Sala dei Lavoratori di Helsinki. I giorni successivi, i socialdemocratici e le loro organizzazioni sindacali presero il potere senza incontrare resistenza nelle grandi città della Finlandia, mentre il nord rurale rimase nelle mani delle classi dominanti.
Gli insorti della Finlandia lanciarono un proclama storico annunciando che la rivoluzione era necessaria perché la borghesia, alleata all’imperialismo straniero, aveva condotto un “golpe” controrivoluzionario contro le conquiste dei lavoratori e la democrazia:
«A partire da questo momento, il potere rivoluzionario in Finlandia appartiene alla classe lavoratrice e alle sue organizzazioni […] La rivoluzione proletaria è nobile e severa […] severa con gli insolenti nemici del popolo, ma pronta ad aiutare gli oppressi e gli emarginati».
Anche se il governo rosso appena insediato tentò all’inizio di tracciare una rotta politica relativamente prudente, rapidamente la Finlandia precipitò in una sanguinosa guerra civile. L’aver ritardato la presa del potere costò caro alla classe lavoratrice finlandese, perché nel mese di gennaio gran parte delle truppe russe aveva già fatto ritorno alla base. La borghesia aveva utilizzato i tre mesi successivi allo sciopero di novembre per organizzare le sue truppe in Finlandia e Germania. Alla fine, 27.000 rivoluzionari finlandesi persero la vita nella guerra. E dopo che la destra ebbe schiacciato la Repubblica socialista operaia finlandese nell’aprile del 1918, circa 80.000 altri lavoratori e socialisti furono internati in campi di concentramento.
Gli storici sono divisi circa il possibile trionfo della rivoluzione finlandese nell’eventualità fosse iniziata prima e avesse assunto un carattere più offensivo nel campo politico e in quello militare. Alcuni sostengono che il reale fattore decisivo fu l’intervento militare imperialista della Germania in marzo e aprile 1918. Kuusinen traccia un bilancio simile:
«L’imperialismo tedesco diede ascolto ai lamenti della nostra borghesia e si offrì prontamente di gettare alle ortiche l’appena conquistata indipendenza che, su richiesta dei socialdemocratici finlandesi era stata concessa dalla Repubblica sovietica della Russia. Il sentimento nazionale della borghesia non ha minimamente sofferto in quell’occasione, e il giogo dell’imperialismo straniero non le provocò il minimo timore nel momento in cui la loro “patria” sembrava sull’orlo di diventare la patria dei lavoratori. La borghesia era disposta a sacrificare un intero popolo a vantaggio del grande bandito tedesco, purché potesse riservare a se stessa l’indegno ruolo di sfruttatrice».
Gli insegnamenti della rivoluzione
Cosa dovremmo dedurre dalla rivoluzione finlandese? La constatazione più ovvia che possiamo fare è che la rivoluzione operaia non fu soltanto un fenomeno localizzato nel centro della Russia. Anche nella pacifica e parlamentare Finlandia, la classe lavoratrice si era progressivamente convinta che solo un governo socialista avrebbe potuto offrire una soluzione alla crisi sociale e all’oppressione nazionale.
I bolscevichi non erano stati l’unico partito dell’impero capace di portare i lavoratori al potere. Per molti aspetti, l’esperienza del Psd finlandese conferma l’idea tradizionale della rivoluzione sostenuta da Karl Kautsky: attraverso una paziente opera di organizzazione ed educazione di classe, i socialisti avevano conquistato la maggioranza in parlamento, spingendo la destra a scioglierlo, cosa che era sfociata nella rivoluzione diretta dai socialisti.
La preferenza del partito per una strategia parlamentare difensiva non gli impedì in fin dei conti di riuscire a rovesciare il potere capitalista avanzando in direzione del socialismo. Al contrario, la burocratizzata socialdemocrazia tedesca – che già da molto aveva abbandonato la strategia di Kautsky – sostenne attivamente il potere capitalista nel 1918‑1918 e represse violentemente gli sforzi di coloro che volevano rovesciarlo.
Nondimeno, la rivoluzione finlandese ha mostrato non solo i punti forti, ma anche i potenziali limiti della socialdemocrazia rivoluzionaria: l’esitazione nell’abbandonare l’arena parlamentare, l’insufficiente valutazione dell’azione di massa e una tendenza a piegarsi ai socialisti moderati in nome dell’unità del partito.
(Traduzione di Valerio Torre)
[*] Eric Blanc è un attivista e storico del movimento socialista di Oakland, California. È autore di Anti-Colonial Marxism: Oppression & Revolution in the Tsarist Borderlands.
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