Le ragioni della mia rottura col Partito di Alternativa comunista
Intervista a Valerio Torre
Pubblichiamo qui di seguito l’intervista — che la redazione ha sollecitato a Valerio Torre, componente del Collettivo che anima questo Blog — sui motivi che l’hanno indotto a lasciare il Pdac, di cui era stato cofondatore e dirigente.
La redazione
Dopo quasi un anno e mezzo dalla tua uscita dal Partito di Alternativa comunista (Pdac), ancora oggi diversi attivisti, appartenenti a differenti organizzazioni della sinistra e che ti hanno conosciuto durante la tua lunga militanza, ci chiedono le ragioni della tua rottura.
In fondo, c’è da capirli: sono stato uno dei fondatori e uno dei massimi dirigenti di quel partito; e non solo a livello nazionale, avendo avuto sin dalla sua nascita la responsabilità della costruzione internazionale ed essendo stato membro del Comitato esecutivo internazionale della Lit, la tendenza di cui il Pdac è tuttora sezione italiana.
In alcuni casi, poi, c’è stato chi mi ha contattato – incredulo – per avere appreso da dirigenti di quel partito che io avrei “abbandonato l’attività politica” per “stanchezza”, “opportunismo”, “accomodamento a una vita piccolo‑borghese”, o per aver voluto “privilegiare la carriera”.
Al contrario, nessuno dei militanti del Pdac mi ha chiesto il perché di questa mia scelta: per loro la cosa è passata come se nulla fosse.
Non trovi abbastanza bizzarro che dirigenti di un’organizzazione che spesso si ritengono calunniati da quelli di altre organizzazioni della sinistra italiana spargano poi a piene mani e con disinvoltura calunnie nei confronti di ex militanti che hanno rotto con loro?
Più che bizzarro, direi che è “coerente” con i metodi e la natura della direzione di un partito al cui progetto avevo creduto, tanto da avergli dedicato il meglio delle mie energie militanti.
In questo periodo, ho spesso pensato di raccontare le vere ragioni che mi hanno portato alla rottura, e in tanti mi hanno sollecitato a farlo. Ma ho ritenuto più importante dedicarmi, insieme a qualche altro compagno, al compito di costruzione di questo piccolo collettivo che è “Assalto al Cielo”, coltivando così la speranza che possa esservi spazio, tra oggettive difficoltà e con tantissimi limiti, per le idee e il progetto marxista rivoluzionario.
E adesso che mi accingo a raccontare questa vicenda, non è tanto per difendere la mia onorabilità di militante rivoluzionario, ma soprattutto per far comprendere ai settori della sinistra che guardano con favore ai principi del marxismo rivoluzionario, e a coloro che vogliono impegnarsi nella faticosa opera di costruzione di un’organizzazione coerente con quei principi, che il Pdac non ne costituisce per niente l’incarnazione. Lo dimostra, tra l’altro, la spregiudicata manovra di sciacallaggio e parassitismo politico che la sua direzione sta mettendo in atto in questi giorni col becero tentativo – attraverso uno stucchevole pressing autopromozionale realizzato pubblicamente con patetici post su Facebook – di lucrare qualcosa dalla scissione che c’è stata in un’altra organizzazione.
Bene. Vogliamo cominciare? Da dove partiamo?
Da qualche anno fa, quando Ruggero Mantovani, anch’egli componente del Comitato centrale del Pdac, e Antonella Rossi, militante del partito e compagna di vita del primo, entrambi – come me – avvocati, mi chiesero di poter eleggere domicilio presso il mio studio per presentare dei ricorsi giudiziari in favore di alcune decine di lavoratori esposti all’amianto, da loro assistiti, perché ottenessero il riconoscimento dei benefici previdenziali che avrebbero consentito un anticipato pensionamento.
Si trattava di materia che non seguo nella mia attività lavorativa (che si svolge in un campo giuridico diverso), e la mia “collaborazione” si limitava a ricevere gli incartamenti e depositarli in tribunale; in qualche occasione, a presenziare a qualcuna delle udienze su delega e dietro istruzioni dei due.
Dopo qualche tempo, si venne a sapere che la magistratura indagava su Mantovani e Rossi, che avevano subito anche una perquisizione domiciliare. Il fatto è che, come lo stesso Mantovani ebbe in seguito a confidarmi, alcuni di quei ricorsi si fondavano su documenti falsificati. E io stesso qualche mese dopo, una notte, vidi piombarmi in casa, e poi allo studio, una decina di poliziotti per una perquisizione. Consegnai loro il materiale che era nella mia disponibilità, e mi sono così ritrovato anch’io indagato per una serie di gravi reati, rispetto ai quali, come si può capire, ero del tutto estraneo.
Il partito ne fu informato?
Il partito era già a conoscenza dell’indagine su Mantovani e Rossi. Io informai in un primo momento il solo Esecutivo del mio coinvolgimento e, successivamente, anche il Comitato centrale, al quale rappresentai che i due compagni avevano violato la morale rivoluzionaria, per avermi consapevolmente implicato in una vicenda truffaldina e, di fatto, consegnato alla giustizia borghese. Ma evidenziai pure che lo stesso partito ne veniva coinvolto, dato che in più di un’occasione aveva dato copertura politica alle azioni giudiziarie promosse dai due attraverso alcuni articoli pubblicati sul sito[1]. Proprio per questo, pur sentendomi tradito da Mantovani e Rossi, e pur essendo stato gravemente danneggiato dal loro comportamento, dichiarai che non era mia intenzione ricorrere alla Commissione di morale del partito, ma affrontare invece un’approfondita discussione politica all’interno dello stesso Comitato centrale sulla complessiva vicenda.
Invece, la direzione del Pdac non aveva alcuna intenzione di affrontare quella discussione. L’unica “concessione” che mi venne fatta fu di affidare al solo presidente della commissione di morale lo studio della questione perché poi ne riferisse al Comitato centrale. In pratica, soprattutto su impulso di uno dei dirigenti nazionali che è membro dell’Esecutivo – e che poi è quello che di fatto “governa” il partito – si decise di nascondere la polvere sotto al tappeto.
Perché non hai invece insistito nella tua posizione?
Certamente qui c’è uno degli errori che ho commesso. La considerazione che avevo per il partito e il suo progetto mi fece accettare una soluzione di compromesso per non contrappormi alla diversa volontà dell’Esecutivo (anzi, come detto, di uno dei suoi membri) e per non scatenare un conflitto di attribuzioni fra Comitato centrale e Commissione di morale, come la direzione riteneva: opinione – questa – peraltro del tutto infondata, dal momento che io non volevo che si svolgesse “un processo” in una sede impropria, ma chiedevo invece che venisse affrontata una discussione politica sulla vicenda, anche nell’interesse del partito stesso.
E poi?
A dimostrazione del fatto che l’unica volontà della direzione era di mettere una pietra sopra all’accaduto c’è che, dopo ben tre mesi, quell’incarico esplorativo affidato al presidente della Commissione di morale non era stato minimamente espletato: la “pratica” era stata tenuta ben chiusa in un cassetto, a differenza di altri casi che stavano più a cuore all’Esecutivo, risoltisi nel giro di un paio di settimane col rapido intervento dell’organismo di disciplina. E allora, stufo di essere preso per i fondelli, dichiarai formalmente al Comitato centrale che avrei investito la Commissione di morale presentando finalmente un ricorso nei confronti dei due militanti: non che mi interessasse – lo ribadii anche allora – ottenere una pronuncia sanzionatoria nei loro confronti, ma si trattava dell’unico sistema per smuovere le acque stagnanti e favorire infine quella discussione che mi veniva negata. Ma fu allora che scattò, come in un automatismo, il riflesso condizionato dell’autoconservazione dell’organismo dirigente.
In che senso?
Debbo innanzitutto chiarire che Mantovani già da tempo era stato colpito da una malattia, che infatti lo avrebbe portato di lì a qualche mese alla morte. Ebbene, dopo che io ebbi dichiarata la mia volontà di ricorrere all’organismo disciplinare, iniziò tutta una serie di pressanti tentativi da parte dei vari componenti del Comitato centrale per farmi desistere. Venni in pratica accusato, in un carteggio, di essere privo di umanità. Alcuni, poi, dando mostra di un incredibile cinismo, scrissero anche che non aveva senso iniziare un procedimento disciplinare nei confronti di chi stava per morire, dato che “l’eventuale sanzione non avrebbe potuto rieducare il moribondo”!
Ma questi comportamenti, apparentemente motivati da un malinteso senso di rispetto per la malattia del compagno, da un riguardo per i suoi meriti passati, dal legame amicale che molti nutrivano nei suoi confronti, in realtà dissimulavano un atteggiamento conservativo, che era alla base – come mi sarebbe poi stato chiaro solo in seguito – del processo di burocratizzazione in atto in quella direzione e di cui poi dirò.
E dunque, di fronte a questo stallo, proprio il venir meno del rapporto di stima e fiducia, personale e politica, nei confronti dei componenti dell’organismo di direzione, mi indusse a rassegnare le dimissioni dal Comitato centrale: sarei rimasto un semplice militante di base. Contestualmente, però, proposi alla Commissione di morale il ricorso annunciato.
E poi che accadde?
La goccia che fece traboccare il vaso. Il Comitato centrale si riunì – io non volli presenziare – e deliberò di accettare le mie dimissioni dall’organismo. Ma grande fu la mia sorpresa quando lessi il dispositivo della deliberazione, inviata a tutto il partito. Si diceva che io lasciavo i compiti di direzione per “ragioni di salute”: una colossale menzogna! Spacciata a tutto il corpo militante così come la burocrazia sovietica faceva nell’epoca della stalinizzazione del partito e dell’Internazionale. Solo allora cominciò ad apparirmi dinanzi agli occhi una realtà nuova. Che era cioè in atto un processo di burocratizzazione della direzione del Pdac consistente nel conservare le piccole posizioni di visibilità acquisite da un ristrettissimo nucleo di due membri dell’Esecutivo: che, per questo, si era circondato di un gruppo di compagni più o meno consapevoli, ma utili per la funzione puramente “decorativa” che svolgono nell’organismo; e che non poteva tollerare ostacoli alla propria azione, dovendo dimostrare a tutti i costi, mistificando e falsificando la realtà, che il Comitato centrale governato da quello stesso nucleo ha sempre ragione e che tutto ciò che potesse in qualche modo metterne in discussione l’opinione doveva essere neutralizzato.
E solo allora iniziai a percepire la dimensione di quel processo di burocratizzazione, iniziato qualche mese prima, anche col mio contributo, per quanto involontario. E fu per questo che uscii dal partito: perché mi resi conto che non si poteva dare nessuna battaglia per contrastare quel processo, con un corpo del partito amorfo, governato da una ristrettissima direzione ipercentralizzata.
Di quale tuo involontario contributo parli? E puoi spiegare meglio cosa intendi per “processo di burocratizzazione”?
Eravamo arrivati al congresso del maggio 2015 con una proposta di modifica dello statuto, avanzata dal responsabile organizzativo, che è appunto uno dei due che di fatto dirigono il partito. Si proponeva di eliminare il Consiglio nazionale, che era l’organismo più largo di direzione politica, mentre il Comitato centrale aveva compiti politico‑esecutivi. La proposta era motivata dalla necessità di una maggiore centralizzazione del partito in relazione alla fase politica del momento. Anch’io mi convinsi di quella necessità e approvai la proposta, che poi passò nel congresso.
È chiaro che, da un punto di vista “neutro”, cioè in linea di principio, la proposta poteva anche avere un senso. Ma, in realtà, commisi un errore di valutazione, non comprendendo da subito le reali intenzioni del proponente; e la vicenda che sto raccontando dimostra proprio che, in realtà, chi governava il partito non voleva farlo funzionare meglio, ma aveva bisogno invece di sbarazzarsi di un organismo che in qualche modo rappresentava un ostacolo all’ipercentralizzazione che si voleva realizzare. Sicché, la risultante di quella variazione statutaria, per come sarebbe stata interpretata dall’Esecutivo, era, da un lato, un vertice apicale autocratico e ultracentralizzato rappresentato appunto dall’Esecutivo, con un Comitato centrale che, privato delle funzioni esecutive, si trasformava nella foglia di fico dell’Esecutivo stesso, cioè nella “copertura politica” delle sue decisioni; all’altro capo, c’era il resto del partito: come detto, una massa amorfa in attesa solo dei “superiori ordini”. Insomma, una setta, più che un partito di tipo bolscevico. Meglio: una caricatura di un partito di tipo bolscevico. Questa realtà, però, all’epoca del congresso non mi era chiara e la compresi in tutta la sua magnitudine solo quando poi mi risolsi a uscire dal Pdac.
Tu però eri anche un dirigente internazionale. Che fece la Lit in proposito?
Questo è stato forse l’aspetto più deludente di tutta la vicenda. Di fronte alle dimissioni di un componente sin dal 2007 del Comitato esecutivo internazionale, nessuno – ribadisco, nessuno – degli altri membri di quell’organismo, e men che meno il Segretariato internazionale, ha pensato di scrivermi due righe per chiedermi che stesse succedendo. Diciamo che nessuno nella Lit ha faticato più di tanto a prendere per buona la frottola che dall’Italia hanno raccontato, e cioè che io avrei “privilegiato la mia carriera” … Bizzarro, però, che non era questa l’opinione corrente quando finanziavo il partito al di là delle stesse possibilità che mi offriva quella medesima carriera di modestissimo avvocato di provincia, versando quote che contribuivano in notevole misura a pagare gli stipendi di alcuni “funzionari”.
Tuttavia, la delusione è poi sfumata quando mi sono reso conto della torsione settario‑opportunistica in atto oggi nella Lit: basti pensare a come si sia ridotta a fare fronte unico con gli apparati repressivi dello Stato brasiliano invocando l’arresto di Lula (e facendo così il coro alla destra brasiliana più reazionaria) in un vergognoso articolo scritto dal massimo dirigente del Pstu, nonché membro del Segretariato internazionale, poi precipitosamente ritirato dal web e dalla pagina Facebook dello stesso e oggi inaccessibile … se non fosse che frattanto gli zelanti reggicoda italiani del Pdac l’avevano già tradotto e pubblicato sul n. 59 di Progetto comunista (ottobre 2016). E si tratta della medesima torsione che vive la sua sezione italiana, che ad esempio non si fa scrupolo di riaprire opportunisticamente le porte a un militante che ne era tempo fa uscito, inseguito dall’infamante marchio – con tanto di sigillo dell’Esecutivo – di infiltrato; così come, al contempo, accentua il proprio settarismo costruendo un organismo come “No Austerity”: sedicente “fronte unico”, ma in realtà una collaterale del Pdac, che lo dirige occultamente facendo leva su alcune decine di attivisti sindacali in buona fede, ignari di essere solo una massa di manovra del partito.
E l’organismo disciplinare del Pdac decise poi il tuo ricorso?
Certo, lo fece. E il procedimento fornisce un’ulteriore dimostrazione degli effetti di quella ipercentralizzazione di cui dicevo: una dinamica, cioè, che toglie autonomia ai quadri intermedi e ai militanti, che sempre più assumono un atteggiamento di affidamento passivo nei “capi”. Basti pensare che dei sette membri della Commissione di morale si espressero solo in tre: e Mantovani e Rossi vennero assolti con due voti contro uno. Significativo – se pensiamo alla gravità della vicenda portata all’attenzione dell’organismo disciplinare – che ben quattro componenti su sette abbiano deciso di non esprimere una benché minima posizione!
Ma sarebbe utile che quell’organismo, e più in generale i militanti del Pdac, venissero informati che – da quanto mi è stato riferito – i nodi di quell’attività truffaldina stanno purtroppo cominciando a venire al pettine per alcuni dei lavoratori malamente rappresentati, ai quali pare si stiano revocando i benefici ottenuti: con la conseguenza di dover restituire ingenti somme di denaro. Forse, sarebbe il caso di aggiornare con questa postilla gli articoli con cui è stata magnificata sul sito del partito l’opera di incorruttibile rivoluzionario del loro difensore.
Pensi che queste tue dichiarazioni avranno un’eco nel Pdac?
Se ti riferisci ai militanti di base, quelli in buona fede che non hanno mai conosciuto le vere ragioni della mia rottura col partito, mi auguro che quanto dico possa costituire per loro materia di riflessione sul tipo di organizzazione che viene costruita, non da loro, ma intorno a loro. Se pensi invece ai membri della sua direzione, conoscendoli c’è sia la possibilità che ignorino del tutto le mie rivelazioni, sia quella che mi attacchino pubblicamente. Ma, sai, non è che si troverebbero di fronte uno sprovveduto. Saprei bene come difendermi da ulteriori calunnie … e non mi riferisco certo a una difesa in tribunale!
Che conclusioni trai da tutta la vicenda?
Avrai capito dalle mie parole che la delusione è stata grande. Però mi pare che la storia dei rivoluzionari sia costellata da vicende molto più tragiche di quella che ho vissuto io … In fondo, ho ricevuto solo una pugnalata morale alle spalle, non certo un reale colpo di piccozza in testa!
Al di là della facile battuta, il mio impegno per la costruzione di un partito e di un’Internazionale rivoluzionari prosegue con ancora più energia. La mia fede nella rivoluzione socialista continua immutata.
Note
[1] Solo per citarne alcuni: “Una grande assemblea operaia a Latina”, “Morte da amianto: un omicidio di classe”, “Lotta contro i veleni dell’amianto”.